di Pierluigi Cuzzolin
A proposito di: Tradurre figure – Translating Figurative Language. A cura di / Edited by Donna R. Miller & Enrico Monti. Quaderni del CeSLiC. Atti di Convevegni CeSLiC – 3. Selected papers, Bologna, Bononia University Press, 2014, pp. 431, €30
Sulla traduzione, sulla pratica viva della traduzione, sulla traduzione come procedimento che implica una riflessione teorica molto più ricca di quanto spesso non si pensi, esiste una letteratura talmente vasta che, se solo si voglia avere una panoramica adeguatamente aggiornata di quanto “offre la piazza”, è ormai necessario ricorre a repertori bibliografici, enciclopedie di vario formato, portali online. Tutto materiale di valore o siti affidabili? No: alla ricchezza dell’offerta non corrisponde sempre un’altrettanto soddisfacente proposta di analisi, o anche soltanto di descrizione, del fenomeno. Non solo, ma quando la traduzione è essa stessa fenomeno applicato a un campo specifico come quello delle figure del linguaggio, siano esse le tradizionali figure retoriche o le più dimesse, sempre secondo la nostra tradizione, figure grammaticali, le cose possono farsi piuttosto complicate.
L’esempio scelto non è casuale: proprio alla traduzione delle figure del linguaggio (nel volume in questione, vengono trattate di fatto solo le metafore) è dedicato il volume che qui viene presentato e che raccoglie una selezione degli interventi, trenta per la precisione, presentati a un convegno organizzato nel 2012 presso l’Università di Bologna, in cui sono convenuti un buon numero di studiosi che stanno animando con le loro proposte e riflessioni il dibattito internazionale. Tema del congresso è stato un argomento, difficile e complesso ma di indubbio fascino, su cui linguisti, studiosi di scienze cognitive, filosofi del linguaggio e studiosi di semiotica stanno durando le loro fatiche da anni, e che è stato all’origine di qualche dotta ma risentita polemica fra addetti ai lavori. Il doppio titolo, in italiano e in inglese, ricorda al lettore che i saggi, dato il parterre internazionale, sono redatti sia in inglese (19) che in italiano (i restanti 11).
Curatori del volume sono Donna R. Miller, che insegna linguistica inglese presso l’Alma Mater, e un suo allievo, Enrico Monti, oggi docente di traduzione presso l’Università dell’Alta Alsazia, ai quali va dato il merito – e conviene dirlo da subito – non solo di aver organizzato un congresso su un tema di particolare interesse, ma anche di avere consegnato alla comunità scientifica un prodotto di notevole livello complessivo, che è anche allo stesso tempo uno spaccato significativo di questo ambito di studi; e sarà chiaro fra poco, spero, in che senso intenda questo termine.
Nelle pagine che seguono non si farà una disamina puntuale di tutti e trenta i contributi (un servizio per il lettore, che tuttavia potrebbe fiaccarne l’interesse), ma si cercherà di fare qualche pertinente osservazione sulle linee portanti di questo volume, cercando di mettere in risalto quelle che al sottoscritto paiono acquisizioni significative al sapere traduttologico, sí che possano diventare patrimonio comune.
Il volume si apre con una sezione dal titolo Teoria / Theory, composta cinque saggi che meritano un’attenzione particolare; e non tanto perché delimitano, per così dire, il perimetro teorico all’interno del quale si muove oggi gran parte della riflessione sull’atto del tradurre, ma perché dalla loro lettura ci si accorge quanto gli autori stessi, tutte autorevolissime figure di studiosi, stiano cercando di comprendere e inquadrare il fenomeno storicamente, di capire che cosa stia succedendo e dove stia andando la traduttologia (termine che pure non piace a qualcuno degli autori del volume; e, se posso, neanche a me). L’impressione, certo sottile ma altrettanto netta, è che la fervida attività che si riscontra nella riflessione teorica sulla traduzione non riesca a nascondere una certa stanchezza e il bisogno di fermarsi a fare il punto della situazione, una situazione davvero molto articolata. Un esempio, per far capire meglio quello che intendo. Nel volume è citata più volte, con apprezzamento, la dissertazione Metaphor in (Arabic-into-English) Translation with Specific Reference to Metaphorical Concepts and Expressions in Political Discourse (la metafora nella traduzione, dall’arabo all’inglese, con specifico riferimento ai concetti e alle espressioni del linguaggio politico) di Abdulla Nasser Khalifa al-Harrasi, che ha sicuramente introdotto qualche novità nella griglia classificatoria per la traduzione delle metafore (la si trova peraltro in rete ed è scaricabile: kmi-web23.open.ac.uk:8081/download/pdf/121370.pdf). Eppure, nonostante la dissertazione risalga al 2001, c’è ancora una certa reticenza a esprimere un giudizio di valore sulle proposte là avanzate, benché i contributi che citano la dissertazione siano stati presentati nel 2012. Si potrebbero ipotizzare ragioni disparate, nel caso particolare; ma tant’è. E non è questo il solo caso: anche l’articolo di Stefano Arduini (Metaphor, translation, cognition: metafora, traduzione, cognizione) propone una panoramica storica interessante dell’intreccio tra ricerche sulla traduzione, sugli studi sulle metafore e sulla relativamente recente entrata in scena della linguistica cognitiva. Anche nel caso del suo contributo, non vengono taciute alcune discrepanze nel modo di guardare alle metafore e a alla loro traducibilità tra linguisti e cognitivisti, per esempio. A questo proposito, credo opportuno notare – ma è una notazione a margine e non di parte – che non tutti gli approcci linguistici alla metafora hanno trovato adeguato riscontro in questo volume di atti, che pure è molto ricco. Dal mio punto di vista di linguista, spicca, per esempio, la totale assenza di riferimenti ai lavori che, da un punto di vista squisitamente linguistico con ricadute anche nella riflessione sulla traduzione, è venuto pubblicando, pur anche in prestigiose sedi internazionali, Michele Prandi. Un peccato, perché le sue posizioni avrebbero potuto servire da stimolante controcanto dialettico a parecchie delle riflessioni proposte nel volume, soprattutto quelle di orientamento fortemente cognitivista.
I saggi della parte dedicata dunque agli aspetti teorici si sono concentrati prevalentemente su che cosa sia una metafora, e solo prefigurando quali siano le conseguenze che i differenti tipi di metafora hanno nella traduzione: in questo caso sono esemplari i saggi di Zoltán Kövecses (Conceptual metaphor theory and the nature of difficulties in metaphor translation: la teoria della metafora concettuale e la natura delle difficoltà nella traduzione di metafore), di Geraard Steen (Translating metaphors: What’s the problem?: tradurre metafore: qual è il problema?) e di Mark Shuttleworth (Translation studies and metaphor studies: Possibile paths of interaction between two well-established disciplines: la traduttologia e gli studi sulla metafora: possibili vie di interazione tra due discipline ormai consolidate). In particolare nei saggi di Kövecses e Steen, vengono proposte articolate classificazioni della metafora e dei modi necessari in cui la loro traduzione condiziona il testo finale.
Che cosa si debba intendere con metafora è affidato al saggio iniziale di Umberto Eco, Ekfrasis, ipotiposi e metafora, secondo il quale la differenza della metafora rispetto alle altre due forme figurate consiste in questo: nella metafora «l’apparato verbale si assume il compito di stimolare il destinatario a concepire una immagine, che non esisteva come tale prima che la metafora la producesse» (p. 6; il corsivo è nell’originale). Una definizione tuttavia che non collima perfettamente con quella proposta operativamente (una differenza non di poco conto) da Steen: indirect meaning based on cross-domain mapping (p. 15), una definizione che si fonda su un concetto di fondo della linguistica cognitiva, quello di cross-domain mapping, col quale si intende il passaggio da un modo espressivo a un altro.
Che le definizioni non si sovrappongano e che Eco, per esempio, preferisca una definizione verrebbe da dire canonica, aristotelica, rispetto a una funzionale e operativa come quella proposta da Steen mostra quanto il dibattito sulle metafore, e sul linguaggio figurato in genere, sia ancora lontano da un assetto definitivo, se mai ci sarà, e dunque sia quanto meno intempestivo attendersi che le pur dotte riflessioni sull’essenza del linguaggio figurato siano di concreto aiuto alla loro traduzione da una lingua all’altra. A ciò si aggiunga anche una seconda osservazione cui induce la lettura di questi saggi: nella pratica della traduzione viene sempre più riconosciuto il peso dell’aspetto cooperativo da parte del traduttore. L’idea – ingenua ma radicata piuttosto saldamente nella visione tradizionale della traduzione come semplice trasposizione di un testo da una lingua in un’altra lingua e che permette di distinguere fra traduzioni corrette e traduzioni sbagliate nella misura in cui esse riescono a trasferire il contenuto di un testo in un altro testo di un’altra lingua – è oggi non solo superata ma esplicitamente rifiutata da tutti gli addetti ai lavori.
Certo, se la traduzione è il risultato dell’interazione, spesso asimmetrica, tra l’autore e il suo traduttore, ne derivano alcune conseguenze: per esempio che si possa “incrostare” sul testo tradotto una serie di aggiunte parassitarie, in ultima analisi ideologiche. Il traduttore può dare peso ora alle differenze culturali, ora all’ideologia del genere (inteso come gender e non come genre), solo per citare due elementi esplicitamente citati nei saggi già menzionati di Geraard Steen e Mark Shuttleworth.
Ma anche in questo caso, se si eccettua l’accenno esplicito e la menzione dell’interferenza ideologica che può emergere nel risultato della traduzione, l’argomento sembra essere in agenda per prossime riflessioni; nulla invece che vada oltre la constatazione della sua esistenza e tanto meno della sua problematicità.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la dicotomia del volume tra una prima parte, dedicata alla riflessione teorica su traduzione e linguaggio figurato e una seconda, molto più ampia, dedicata a esempi concreti di traduzione di metafore in vari settori, anche concettualmente lontani fra loro (si va dal folklore all’economia), sia abbastanza netta. Mentre la riflessione che si ha nella prima parte è di tipo deduttivo, dalla teoria alla traduzione, nella seconda parte il processo è induttivo, dalla traduzione alla (eventuale) codificazione teorica. Nella seconda parte, che contiene le seguenti sezioni: Specialised translation; Traduzione specializzata e Literary translation; Traduzione letteraria (suddivisa a sua volta in: Fiction / Romanzi e racconti; Poetry / Poesia; Fairy-tales and Folklore / Fiabe e folklore) il centro dei vari, spesso eccellenti contributi, è quello di trovare la soluzione a un problema che il traduttore si trova a dover risolvere. La teoria serve da costante sfondo alle scelte del traduttore, ma il primo obbiettivo è quello della felicità della resa, felicità come termine tecnico del conseguimento della giusta condizione. Adottando questa prospettiva, una prospettiva che definirei “dal basso”, sono altre le componenti che entrano in gioco, o altro il peso che assumono rispetto alla concettualizzazione teorica. La componente ideologica acquista un peso notevole nelle traduzioni specialistiche che riguardano la retorica politica o economica (il saggio di Christina Schäffner sulla traduzione in tedesco dei termini umbrella o firewall in economia o il saggio sul discorso politico cinese di Paolo Magagnin sono davvero istruttivi), mentre nel caso del linguaggio letterario si spalanca un orizzonte davvero immenso: e concetti come “contesto” o “intertestualità” (vorrei solo citare i contributi di Renata Kamenická e di Elisabeth Swain, facendo involontario torto ad altri contributi) acquistano un peso che la teoria forse non riesce ancora a soppesare convenientemente. In questo senso, il caso estremo è quello della poesia, sulla quale i saggi presenti nel volume bene illustrano le difficoltà soprattutto di generalizzare una pratica che si faccia al tempo stesso modello teorico (il contributo di Franco Nasi illustra al meglio i limiti cui accennavo).
In conclusione, e ripetendo proprio quello che si diceva in apertura di queste pagine, un libro la cui lettura è caldamente raccomandata a chiunque si occupi di traduzione nel senso più ampio e con la visuale più aperta e laica nei confronti di tale fenomeno. Non solo per la ragione, neppure ovvia, che si tratta di contributi mediamente di alto livello, ma perché dalla lettura in filigrana di questi contributi esce un quadro fedele degli studi di traduttologia oggi, dove accanto ai non pochi momenti e stimoli propositivi affiorano alcune incertezze cui non è estranea la complessità stessa degli ambiti nei quali la traduzione ha posto, non più ormai limitata all’ambito letterario, ma connaturata all’idea stessa di comunicare in un mondo sempre più interconnesso e, con brutto termine, globalizzato. Un grazie sentito dunque ai curatori per avere messo a disposizione del pubblico di lettori e studiosi questi ottimi saggi in tempi editoriali assolutamente lodevoli.
È consuetudine (forse un po’ ragionieristica) chiudere le recensioni, o comunque gli articoli dedicati alla lettura di lavori altrui, con un elenco degli eventuali refusi; una pratica pur utile ma dalla quale mi asterrò qui, perché altro era lo scopo delle mie parole e perché i refusi, pochissimi, sono facilmente emendabili dal lettore. Mi è rimasto invece solo un dubbio: a pagina 13, Geraard Steen, in un saggio peraltro assai pregevole, cita un passo dall’orazione ciceroniana pro Sulla citandola come Sullius. Non sono riuscito a trovare alcuna spiegazione di un tale titolo, certo fuorviante. Ma si tratta proprio di una quisquilia.