di Ornella Tajani
A proposito di: Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, di Fabio Scotto, Roma, Donzelli, 2013, pp. 224
Ce mot « rythme » ne m’est pas clair. Je ne l’emploie jamais.
Paul Valéry
Nel suo vastissimo trattato Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Henri Meschonnic si sofferma sulla scorretta etimologia che fonda il mito del ritmo, ossia quella che ricollega il ῥυθμός al movimento del mare: seguendo questa scia, il termine “ritmo” si ricollegherebbe nel significato al verbo couler, «scorrere», da cui l’immagine del regolare moto delle onde. Tuttavia, come l’autore mette subito in luce, la prima obiezione è evidente: la mer ne coule pas (Meschonnic 1982, 149-150), il mare non scorre, ma è semmai attraversato, agitato da correnti sempre varie; così, quella del ritmo inteso come regolarità è visto da Meschonnic quale tentativo di rappresentarlo come un principio unico superiore, o meglio, come une vérité du désir plus forte que celles de la philologie (ibid.: una verità del desiderio più forte di quelle della filologia). Un mito, appunto.
Il volume di Fabio Scotto è una ricerca, un viaggio intorno al ritmo organizzato in tre fasi, attraverso le differenti ipotesi, interpretazioni e applicazioni. In una prima parte introduttiva, Scotto conduce una disamina di varie teorie contemporanee della traduzione, soffermandosi sulle istanze che caratterizzano la querelle di impostazione ladmiraliana tra sourciers e ciblistes (Ladmiral 2014) e dedicando particolare attenzione ad Antoine Berman e agli studiosi francesi. Nel suo studio del 1984 L’Épreuve de l’étranger. Culture et traduction dans l’Allemagne romantique (cfr. Giometti 1997), Berman apre la strada a una teoria “moderna” della traduzione, che vede l’atto del tradurre come momento di apertura verso l’altro, come con-fusione di identità e di lingue – o di langues-cultures, per dirla nei termini di Meschonnic. Per quest’ultimo il ritmo, che è il movimento della parola all’interno del linguaggio, o anche l’organizzazione del movimento della parola attraverso un soggetto, diventa la traccia da seguire perché sia possibile l’incontro tra due testi e due identità, attraverso una dinamica che Meschonnic descrive usando i concetti di decentramento (décentrement) e di annessione (annexion). Il decentramento è un rapport textuel entre deux textes dans deux langues-cultures jusque dans la structure linguistique de la langue, cette structure linguistique étant valeur dans le système du texte (Meschonnic 1973, 308: un rapporto testuale fra due testi in due lingue-cultura fin dentro la struttura linguistica della lingua, ove tale struttura abbia valore nel sistema del testo); l’annessione è invece l’eliminazione di questo rapporto, come se il testo nella lingua di partenza fosse scritto nella lingua d’arrivo: è l’illusione del “come-se”. A suo avviso, un testo si pone sempre a una determinata distanza dal soggetto: una distanza che può essere esposta o nascosta. Non bisogna annullarla, importando l’universo dell’altro nel nostro o esportando il nostro nel suo, ma riconoscerla e rispettarla. Il decentramento porta a esporre la distanza, l’annessione invece a nasconderla. Decentrarsi significa spostarsi per collocarsi al centro della lingua-cultura dell’altro, al centro del suo testo, senza dimenticare il proprio universo di partenza: solo in questo modo diventa possibile, come l’autore indica in più occasioni, tradurre ciò che il testo fa e non quello che dice (si veda ad esempio Meschonnic 2000, 47).
È anche nell’accezione geografica di «direzione», legata al movimento e alla misurazione della distanza, che va dunque inteso il «senso» del titolo della raccolta di saggi di Scotto – il quale trova modo di mettere a confronto Meschonnic e Berman, ricostruendo la loro dialettica in parte conflittuale e rilevandone contrasti e affinità. Questa sezione teorica del volume si chiude, dopo un saggio su Berman lettore di Benjamin, con una panoramica sulle teorie contemporanee della traduzione in Italia (Folena, Fortini, Eco, Mattioli, Buffoni). Il viaggio verso il ritmo offre l’occasione dell’incontro con l’Altro, della creazione di uno spazio linguistico in cui l’alterità sia eticamente rispettata e non dominata.
Si apre dunque la parte centrale del libro, dedicata alla critica della traduzione. L’autore prende spunto dalle sue esperienze come traduttore di Bernard Noël e, soprattutto, di Yves Bonnefoy, a sua volta traduttore dall’italiano e dall’inglese e teorico della traduzione. Molto interessante l’analisi di Bonnefoy traduttore di Leopardi, in cui si nota come il poeta francese abbia in un caso “forzato” la traduzione alla luce di una sua personale interpretazione della poetica leopardiana, influenzata forse anche dalla propria concezione poetica. Così Bonnefoy, che Scotto (2013, 91) definisce il poeta «della finitudine e della speranza», trovandosi, diremo quasi clamorosamente, a tradurre L’infinito, si rifiuta di riconoscere nell’ultimo celebre verso l’immensità definitiva del naufragio, declinata al negativo, e traduce «E il naufragar m’è dolce in questo mare» con Naufrage, mais qui m’est doux dans cette mer», introducendo ex novo una congiunzione avversativa e sbilanciando, se non sovvertendo, la lettura abituale del componimento.
Il corpus di critica della traduzione vede poi l’analisi di varie poesie di Verlaine, Baudelaire, Apollinaire, Char e ancora Bonnefoy, prendendo in considerazione, fra le varie, versioni di Sereni e Caproni, prima di dedicare il capitolo finale della sezione al poeta e traduttore ligure Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.
L’ultima parte del volume centra il bersaglio verso il quale era diretta la freccia scagliata all’inizio e si dedica a quella matière sonore che è il ritmo, problema già frequentemente evocato nel corso dei vari saggi. Il ritmo non è soltanto suono o pura musicalità, ma è foriero di senso, come già accennato: è creatore del movimento intorno al quale si organizza il significato. Esso perciò non va emulato o plasmato su quello del testo di partenza, ma reinventato cercando di restituire al lettore del testo d’arrivo il medesimo effetto, quando non il medesimo «affetto», come spiega Scotto a proposito della propria attività traduttiva (Scotto 2013, 94). Con Mallarmé, il verso è partout dans la langue où il y a le rythme (Mallarmé 1945, 867: ovunque nella lingua là dove c’è il ritmo), e Meschonnic – traduttore della Bibbia, sostenitore della presenza dell’oralità nello scritto e promotore di una “taamizzazione” del pensiero – cioè di una sua modulazione sul ritmo del ta’am, l’accento biblico, al fine di comprendere profondamente le Sacre Scritture – sposa in pieno il suo avviso; lo dimostra anche la sua personale attività poetica, i cui frutti rappresentano un perfetto paradigma di quella hésitation prolongée entre le son et le sens che per Valéry (1997, 637: esitazione prolungata tra il suono e il senso) rappresentava la poesia.
Con un’ottima scelta, e riprendendo una modalità di Meschonnic, Scotto chiude il volume con una carrellata sulle contemporanee accezioni e idee di ritmo: «forma-senso», «sistema d’istanti» o «organizzazione non metrica del mobile», per riprendere qualche definizione. Dalla traduzione alla vita quotidiana e ritorno: per il filosofo e storico Pascal Michon, autore di una sorta di storia del ritmo nel pensiero contemporaneo (cfr. Michon 2005), la ricerca ritmica da parte della collettività è ciò che può sottrarre all’individualismo dominante; o ancora, riprendendo Scotto, «Michon auspica una “ri-ritmizzazione” delle società sviluppate che tenga conto del dinamismo inarrestabile dell’interazione sociale e della natura plurale di “corps-langage” dell’individuo» (Scotto 2013, 179). Cogliere il ritmo dell’altro significa accogliere «l’esperienza dell’altro nello stesso»: del resto è più o meno con le medesime parole che Michel Deguy definisce l’atto stesso della traduzione, a dimostrazione ulteriore di quanto in traduzione sia fondamentale la riflessione sul ritmo.
Il volume di Scotto ha il pregio di offrire una panoramica ampia sulle concezioni teoriche di due grandi studiosi francesi di traduzione, Berman e Meschonnic, accompagnandola a una serie di rigorose analisi critiche di traduzioni poetiche proprie o altrui, e contribuendo proficuamente al dibattito ritmologico – senza mai dimenticare che il ritmo consente di superare la dicotomia saussuriana significante-significato, rivelandosi come una sorta di fosforescenza permanente che illumina il testo. La grande poesia è fosforescente, ha scritto una volta Jean Cocteau a proposito di Rimbaud: elle traverse le mur des langues (Cocteau 1962, 7). È forse in questo stesso senso che Bonnefoy, in maniera solo apparentemente eccentrica, diceva che «la grande poésie […] est ce qu’il y a de plus facile à traduire» (Bonnefoy 2000, 73): basta seguirne la scia ritmica e ricreare una luminescenza parallela in traduzione.
Riferimenti bibliografici
Giometti 1997: Antoine Berman, La prova dell’estraneo : cultura e traduzione nella Germania romantica: Herder, Goethe, Schlegel, Novalis, Humboldt, Schleiermacher, Hölderlin, a cura di Gino Giometti, Macerata, Quodlibet
Bonnefoy 2000: Yves Bonnefoy, Keats et Leopardi. Quelques traductions nouvelles, Paris, Mercure de France
Cocteau 1962: Jean Cocteau, Preface, in Henri Matarasso, Pierre Petitfils, Vie d’Arthur Rimbaud, prefazione di Paris, Hachette
Ladmiral 2014: Jean-René Ladmiral, Sourcier ou cibliste, Paris, Les Belles lettres
Mallarmé 1945: Stéphane Mallarmé, Crise de vers in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade»
Meschonnic 1973: Henri Meschonnic,Pour la poétique II : Epistémologie de l’écriture; poétique de la traduction, Paris, Gallimard
Meschonnic 1982: Henri Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique de langage, Lagrasse, Verdier
Meschonnic 2000: Henri Meschonnic (avec Pierre Soulages), Le Rythme et la Lumière,Paris, Odile Jacob
Michon 2005: Pascal Michon, Rythmes, pouvoir, mondialisation,Paris, PUF
Scotto 2013: Fabio Scotto, Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, Roma, Donzelli
Valéry 1997: Paul Valéry, Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade»