«Industria delle traduzioni» e censura
Christopher Rundle
Publishing Translations in Fascist Italy
Peter Lang, Bern 2010
pp. 252, € 37,80
di Gianfranco Petrillo
L’«industria della traduzione» influisce sull’intera cultura di un paese, soprattutto se in questo paese lo sviluppo culturale dipende in larga misura dalle traduzioni. È questa l’importante implicazione di carattere generale che — forse al di là della stessa consapevolezza del suo autore — si trae dal bel libro che Christopher Rundle aggiunge alla schiera ormai abbastanza folta di studi sull’azione della censura fascista in fatto di opere straniere tradotte in Italia tra le due guerre.Per avere una prima idea sul panorama di questi studi, si veda qui la rapida esposizione che ne fa Natascia Barrale introducendo il suo articolo sui romanzi tedeschi “al femminile”.
Innanzitutto Rundle introduce appunto, storicizzandolo, il concetto di industria della traduzione. Tradotto alla meno peggio, ecco come si esprime: «Quello che mi interessa è ciò che chiamerò l’industria delle traduzioni, vale a dire il mercato sviluppatosi intorno a ingenti quantità di narrativa tradotta e gli editori che tale mercato contribuirono a creare e a sviluppare» (p. 1). Finora infatti, nella storia della traduzione in Italia tra le due guerre è invalsa l’abitudine a interessarsi di Pavese e Vittorini e di un altro ristretto manipolo di grandi intellettuali (rivelatisi tali in seguito, aggiungiamo noi), toccati dal fascino della letteratura americana, fino ad allora ignorata: «Non ho dubbi — osserva Rundle — sul fatto che anche il lettore medio fosse in grado di avvertire quel richiamo [del mito culturale dell’America], ma ritengo che la sua importanza riguardi un establishment artistico e intellettuale ristretto e selezionato» (pp. 2-3). Se la ben nota definizione di Pavese sugli anni Trenta come “decennio delle traduzioni” è fondata, lo è anche nel senso che (solo?) in quel periodo «l’Italia ha pubblicato più traduzioni di qualsiasi altro paese al mondo» (p. 3). In realtà, nell’editoria non erano i gusti e gli interessi dell’elite letteraria a prevalere. Le abbondanti traduzioni pubblicate in quegli anni, quindi, permisero agli editori di creare un mercato per la letteratura di massa, dominato dai polpettoni e dai “rosa” e nel quale «i fastidiosi gusti delle elite non contavano un acca» (p. 4). Le traduzioni svolsero un ruolo fondamentale nella formazione di «una nuova cultura del libro come prodotto industriale di massa che occorreva fabbricare, distribuire e vendere ricorrendo alla tecnologia moderna e a moderni metodi di vendita» (p. 4).
Rundle, che insegna all’Università di Bologna sede di Forlì e che conosce benissimo l’italiano, quindi non prende in esame le traduzioni dal punto di vista letterario ma da quello editoriale. E ha ben ragione di affermare che «da questo punto di vista la questione assume tutto un altro aspetto».
La pensava così anche il regime. E quindi correva ai ripari, perché quello che gli interessava erano appunto le masse; o, per dirla ancora meglio, con George Mosse, la “nazionalizzazione delle masse”. Era appunto il grande sforzo compiuto dal fascismo — come da tutti i regimi novecenteschi, sia democratici che totalitari, naturalmente con metodi diversi — per far identificare con lo Stato le grandi masse, alle quali, dopo la prima guerra mondiale, non era più possibile negare piena cittadinanza: nel caso dei regimi totalitari, con uno Stato etico, coincidente col regime stesso. Da qui l’azione occhiuta di vigilanza, di guida e/o di blocco su quelli che oggi si chiamano i media e che allora si identificavano con la stampa, sia in volume che periodica, il cinema e la radio.
Dopo un rapido ma esauriente sommario dell’avvento e del consolidamento del regime fascista, con i suoi risvolti sul terreno culturale e dell’editoria, nel secondo capitolo (pp. 43-66) Rundle sostanzia la sua analisi con un accurato rendiconto statistico dell’“industria delle traduzioni” italiana, con raffronti con altre editorie europee, soprattutto la francese e la tedesca, che rivestono grande interesse anche a prescindere dal tema centrale del libro. Se ne ricava che proprio negli anni Trenta, l’inglese soppiantò il francese come numero di traduzioni in italiano, nonostante la perdurante egemonia culturale che la Francia esercitava ai piani alti della società e dell’intellettualità. Ciò fu dovuto proprio alla crescente diffusione della letteratura che oggi diciamo “di consumo” o “di genere” (polpettoni, gialli, rosa, di viaggio, d’avventura e via dicendo), che nei paesi di lingua inglese aveva già alle spalle una tradizione molto forte e colmava qui un vuoto di mercato — il mercato di massa guardato allora e in seguito con sospetto dai letterati — in cui a stento operavano alcuni autori nostrani. Infatti la vera differenza la fecero i romanzi, la presenza dei quali fra le traduzioni fece crescere il loro numero assoluto ma crebbe anche in percentuale (tavola 7, p. 60), dando vita a quella che all’epoca fu con allarme definita “l’invasione delle traduzioni”. Ovviamente, nel settore la bilancia import-export, nonostante gli sforzi compiuti in senso contrario dal regime per motivi di prestigio, era a tutto svantaggio dell’Italia, la quale esportava ben poco negli altri grandi paesi europei (si veda il confronto con la lingua tedesca alla tavola 6, p. 57), proprio perché da noi i “generi” popolari non venivano coltivati che in scarsa misura e a livelli, in genere, modesti.
Ma i romanzi stranieri proponevano problemi e modelli culturali (etici e ideali in primo luogo) che mettevano a rischio il programma politico-culturale fascista. Ciò importava ben poco al regime finché si trattava di autori d’élite: che so?, di un Gide o di un Lawrence o di un Mann. Ma quando si trattava di gialli o di rosa, che raggiungevano quelle masse sulle quali si basava il “consenso” di cui, soprattutto dopo il 1929, di fatto esso godeva, be’, le cose cambiavano. Da qui la corsa ai ripari: censura preventiva, che di fatto poneva sotto ricatto gli editori; quindi autocensura di editori e traduttori; quindi mercanteggiamento fra editori e autorità censoria. Le cose si aggravarono con l’avvicinamento alla Germania e l’introduzione delle leggi razziali, appesantendo le posizioni antisemite già serpeggianti nella “cultura” nazionalista e fascista. Ma è vero anche che in molti casi il censore seppe avere una certa duttilità, come in quello — celebre ormai — dell’antologia Americana con la quale Elio Vittorini introdusse in Italia, per Bompiani, un ampio panorama della letteratura d’oltreoceano. La vicenda viene ricostruita da Rundle alla fine della sua esposizione (pp. 197-203), ricomponendo il puzzle con le tessere già scoperte da altri studiosi e cercando di mettere in luce come l’atteggiamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, che fu la controparte censoria di Bompiani nell’impedire nel 1940 l’edizione vittoriniana dell’antologia e nel consentire nel 1942 quella curata da Emilio Cecchi (ma sempre con la scelta e le traduzioni dello scrittore siciliano), fosse in fondo abbastanza elastico e comprensivo delle ragioni industriali dell’editore. Ciò che più colpisce sia l’autore che noi, a questo proposito, è l’alto numero di opere inglesi e americane pubblicate in Italia, nonostante la censura, non solo negli anni Trenta ma anche a guerra iniziata con la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi: premessa per il successivo trionfo definitivo dell’americanismo.
Ma il nazionalismo comportava, ancor prima che un’avversione etica e politica alle traduzioni come veicolo di culture straniere, un atteggiamento censorio sul piano linguistico, in difesa della purezza dell’italiano deturpata nelle traduzioni — scriveva un giornale fascista milanese, “Il Torchio”, nel 1928 — da «scritture piene di orrori, in cui la lingua italiana è addirittura irriconoscibile» (p. 69). A quanto pare, negli anni successivi questa acredine puristica scemò, fino a scomparire. Se fosse vero, sarebbe interessante un esame qualitativo diacronico delle traduzioni in italiano fra anni Venti e Quaranta, per verificare se furono le difese immunitarie a indebolirsi o se fu la qualità a elevarsi. È questa seconda l’ipotesi che ci sembra più probabile, per l’entrata in campo — negli anni Trenta — di letterati meno qualificati per la conoscenza della lingua di partenza ma ben più padroni di quella d’arrivo, cioè di veri scrittori, anche se non ancora tutti formati e noti come tali.
Grazie all’approccio innovativo, il libro, molto robustamente documentato e chiaro, fa perdonare qualche refuso presente qua e là nelle citazioni in italiano e si raccomanda per… una traduzione. Che, ne siamo certi, verrà a tempi brevi.