Il vecchio lettore
Il vecchio lettore torna. Ancora più vecchio, ovviamente, e dentro di sé forse più rancoroso. Ma con la promessa, fatta prima di tutto a se stesso, di limitare al minimo indispensabile i rimpianti. Quindi il serial si fa un po’ meno noir.
Da qualche tempo la traduzione va di moda. Se ne parla molto, sui giornali, nei media, nel web. Si moltiplicano le scuole, i corsi, i laboratori di traduzione, i premi per traduzioni. È, nel complesso, un buon segno, che può essere la premessa a una diffusa consapevolezza del fatto che quando si legge Addio alle armi non si legge A Farewell to Arms, si legge Fernanda Pivano (o Giansiro Ferrata e altri, in una versione precedente, sempre Mondadori, che da tempo non si ripubblica più), non Hemingway. Ma sta di fatto che nei media, tranne le debite e illuminate eccezioni (tra le quali occorre indicare quasi con gratitudine gli interventi di Tim Parks, purtroppo più frequenti sulla stampa americana che su quella italiana), non si fa che ripetere sempre gli stessi luoghi comuni: dire quasi la stessa cosa, l’albergo della lontananza, source oriented target oriented, quando non addirittura ancora i vieti «bella e infedele», «tradurre è tradire»… Con il vezzo di dare il massimo rilievo ai traduttori di poesia (che tanto agli editori non interessa, perché non si vende), liquidare con poche parole le traduzioni di narrativa e ignorare totalmente la fatica improba di chi traduce saggistica, in particolare filosofica e scientifica.
Comune a tutto questo chiacchiericcio inconcludente, l’assoluta ignoranza – non sempre innocente – del semplice fatto che ogni traduzione pubblicata, foss’anche della più raffinata tra le opere letterarie, si inserisce in una filiera industriale e commerciale. Come se tradurre fosse un’operazione compiuta in un laboratorio asettico, privo di contaminazione con il mondo grande e terribile. E invece a monte c’è l’individuazione del testo da tradurre (il prototesto, vero?), l’ottenimento dei diritti di traduzione da parte dell’autore e/o dell’editore straniero, spesso tramite un agente, la trattativa sulla tariffa per la cessione dei diritti di traduzione (sì, diritti, anche a norma di legge, né più né meno di quelli d’autore) e quella sui tempi di consegna, sia gli uni che gli altri iugulatori, la revisione (quando c’è), la confezione di quello che gli scienziati della traduzione chiamano pomposamente peritesto (la copertina, il frontespizio, l’apparato critico complessivo se si tratta di un’edizione critica, l’eventuale pre- o postfazione, le illustrazioni, i risvolti, la quarta di copertina e simili: insomma il peritesto): tutte cose che incidono sul risultato finale dell’opera di traduzione, ossia del metatesto.
Nel trascurare questa realtà possono agire due motivi. Nel migliore e più diffuso dei casi si tratta, come si diceva, di pura e semplice superficialità e ignoranza, che presuppone una concezione elitaria del libro, ritenuto idealisticamente avulso – perfino in questi tempi non certo idilliaci di trionfo dell’homo oeconomicus – dalle ferree regole di mercato che governano la vita di tutti noi in ogni più minuto particolare. In casi peggiori, ma sempre più frequenti, è all’opera la deliberata volontà, dettata da editori e distributori, di tenere nettamente separata la traduzione dal risultato economico della merce libro. Oscurare il fatto – tranne pompose eccezioni – che si leggono opere dei traduttori e non degli autori stranieri pubblicizzati, tenendo tra parentesi la traduzione come momento del ciclo produttivo di questa merce, serve egregiamente a mantenere le tariffe medie di retribuzione di quelle «opere dell’ingegno» a livelli che, nei fatti, equivalgono a cifre molto inferiori ai 10 euro all’ora.
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A questa visione idilliaca della realtà dei libri soggiace spesso anche chi se ne presume immune. Nonostante la veneranda età (è perfettamente coetaneo del vecchio lettore), Gianfranco Petrillo, che si fregia dell’onore di dirigere questa rivista, deve essere molto ingenuo. Sul numero scorso di «tradurre» ha sfacciatamente recensito – pur confessando la sua sostanziale ignoranza del greco classico – il volume di Lirici greci curato da Chiara Di Noja per Salerno editore; non bastasse, ha messo al centro della sua argomentazione l’osservazione, sottolineata perfino nel titolo della recensione, che dalla scelta di antologizzare, nella apposita Appendice curata da Enrico Cerroni, solo traduzioni precedenti alla celebre versione di Quasimodo (1940), giunge conferma che quest’ultima costituisce uno spartiacque decisivo nella storia della ricezione della classicità greca in lingua italiana. Non è stato minimamente sfiorato, il venerando recensore, dal semplice dubbio che in realtà quel limite cronologico fosse stato imposto dall’editore per evitare di pagare i diritti a traduttori, o agli eredi di traduttori, morti da meno di settant’anni (a cominciare dallo stesso Quasimodo) o addirittura viventi. Il che non inficia la nozione storico-critica dell’importanza dell’opera quasimodiana, ma sì l’affidabilità del recensore.
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Tra peer reviewers e suddivisione in fasce di aristocrazia delle riviste, gli accademici e aspiranti tali (almeno quelli in ambito umanistico) se la cantano e se la sonano – come direbbero a Roma – solo tra di loro. Tra i tanti difetti del meccanismo autoreferenziale della produzione accademica ai fini della valutazione per l’ottenimento dell’abilitazione all’insegnamento universitario e delle cattedre, il più grave agli occhi del vecchio lettore sta nella conseguenza che libri e riviste non sono destinati alla lettura dei non addetti ai lavori, a cominciare dagli stessi studenti ai quali dovrebbero essere in teoria rivolti. Per cui è stabilito a priori che quel tanto (o, più spesso, poco) che di originale e criticamente innovativo si produce in sede universitaria non ha nessuna ricaduta nella comune dei lettori. È comprensibile allora che vi sia chi apertamente sostiene, in ambito politico, che i soldi dati alla cultura sono buttati via. Ma gli alti papaveri del mondo accademico, pur non coltivando personalmente alcuna alterigia elitaria (e spesso riservando ai media la “divulgazione” del loro sapere), non si pongono minimamente il problema e continuano felicemente a citarsi l’un l’altro nei convegni, nei libri e sulle riviste «di fascia A», a maggior gloria di sé medesimi e di una “cultura” che, già tartassata dall’appiattimento della convivenza umana sull’unica dimensione dell’economia e del mercato, rischia di essere sempre più sterile e asfittica.
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Caposaldo del chiacchiericcio sulla traduzione e sui traduttori sono un ormai mitico Luciano Bianciardi e la sua rappresentazione del proprio lavoro nella Vita agra. Chi non ha riso al ritratto esilarante della redattrice che richiama il traduttore alla lettera del testo? O al computo del numero di cartelle giornaliere da smaltire per coprire le singole voci di spesa dell’economia domestica? Tristissimo libro e tristissima esistenza, dietro tanto umorismo e tanta satira, quelli di Bianciardi, implacabile testimone dei costi umani del miracolo economico italiano. Si vedano, per una conferma, non solo la bella biografia che ne ha costruito, contribuendo al mito, Pino Corrias (Vita agra di un anarchico, Baldini&Castoldi, 1993, più volte ripubblicato), ma anche il ritratto smitizzante che ne ha fatto Gian Carlo Ferretti nel suo meno noto La morte irridente (Manni, 2000).
Ma alla traduzione e ai traduttori Bianciardi ha fatto involontariamente un cattivo servizio, che ora viene opportunisticamente sfruttato: quello di rappresentare i traduttori in genere (non solo sé stesso, che neppure era tale) come dei morti di fame indifferenti alla qualità del proprio lavoro e dei testi che ne sono oggetto, pronti a ingoiare qualsiasi affronto – sostanziale o metaforico – pur di far quadrare il pranzo con la cena. Ecco quindi esaltati, negli inserti “culturali”, pochi traduttori dei pochi grandi nomi della letteratura e ignorati o appena illuminati da un casuale raggio di attenzione ogni tanto i molti seri e impegnati artigiani che dalla loro bottega sfornano la lettura dei frequentatori di librerie e biblioteche.
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Quelli dell’Einaudi sono molto fieri. Hanno lanciato un progetto di nuove traduzioni di classici stranieri che già avevano illustrato le sue origini e vantano il fatto di aver apposto il nome della tradttrice e del traduttore nientepopodimeno che nella quarta di copertina: “un passo avanti!”. Due passi indietro, dice il vecchio lettore: perché la casa editrice Einaudi delle origini, il nome di chi alla fine degli anni trenta veicolava in italiano i “Narratori stranieri tradotti” lo poneva in prima di copertina, ben visibile subito sotto il titolo.
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C’è modo e modo di recensire. Mario Caramitti ed Ernesto Ferrero hanno garbatamente avanzato critiche e osservazioni all’impresa compiuta da Claudia Zonghetti con la sua recente traduzione di Anna Karenina. Paolo Nori lo fa astiosamente. Paolo Nori ama molto guadagnarsi fama di sgradevole. Accontentiamolo.