di Daniele Petruccioli
A proposito di Franco Nasi, Traduzioni estreme, Macerata, Quodlibet, 2015, 176 pp. , € 18
Nel suo famoso Dire quasi la stessa cosa (Bompiani 2003), Umberto Eco dedica un intero capitolo (pp. 299-314 dell’edizione 2006) a una serie di casi particolari: due sono autotraduzioni (Joyce in italiano, Tagore in inglese), il terzo è la traduzione di Eco stesso del testo oulipista forse meglio conosciuto di Raymond Queneau, Esercizi di stile. Benché ciascuna a modo suo (sul piano stilistico, semantico, culturale), tutte queste traduzioni sono caratterizzate da una sconcertante libertà – almeno dal punto di vista di una certa vulgata attenta al «significato» – rispetto al testo originale.
Apparentemente assecondando questa visione generale delle cose, Eco le chiama «rifacimenti radicali», mettendole così implicitamente fuori dal territorio dell’analisi traduttiva. Si tratterebbe di qualcos’altro, di un confine, se vogliamo, qualcosa di limitrofo alla traduzione stessa ma che «dice la stessa cosa» in modo talmente diverso da non poter rientrare nel «quasi» del titolo del libro di Eco. Insomma, proprio in quanto casi particolarissimi, questi «rifacimenti» servirebbero a far luce su alcuni aspetti della traduzione, ma non potrebbero aspirare a rientrare nel suo consesso.
In questo suo ultimo libro Franco Nasi riparte proprio da qui, da traduzioni che fin dal titolo vengono dette «estreme». Ma – anch’egli, credo, programmaticamente – fin dalle premesse rovescia subito il problema, definendole non già casi particolari di traduzione, bensì «possibili traduzioni» di «testi particolari», di cui, citando Galilei, l’autore ripropone di parlarne in modo sensato (dunque, galileianamente: descrittivo) e ragionevole (p. 8).
Qui il lettore potrebbe essere colto da una certa diffidenza. Perché Nasi si propone (e ci propone) di restare calmo di fronte a quanto sta per dire? Cosa c’è che non va? Di cosa dovremmo avere paura? Lui non lo dice mai esplicitamente, ma tanto vale svelarlo subito: l’autore sa, prima ancora di cominciare, che il terreno su cui ci vuole condurre è quello dei testi che Roland Barthes in Le plaisir du texte (1973) definiva, secondo la traduzione di Lidia Fonzi, «di godimento: quello che mette in stato di perdita, quello che sconforta […], mette in crisi il […] rapporto col linguaggio» ((Il piacere del testo, Einaudi, 1975, 13-14). Ovvero: ogni rapporto con il sapere si sviluppa al meglio sotto l’egida del principio di piacere, e Franco Nasi ce lo spiega prendendo a prestito le parole entusiaste di Dolores LaChapelle, pioniera dello sci alpinismo (altro sport «estremo»).
Ma quello che più sembra interessarlo nella descrizione di LaChapelle a proposito della sua relazione con lo sport estremo è l’idea del perdersi, l’abbandono di sé fino all’automatismo, lo scambio tra la propria identità e l’oggetto con cui essa si relaziona nella dinamica del pericolo. Per LaChapelle si tratta della neve, per Nasi, implicitamente, del testo scritto.
È qui che il parallelismo con la traduzione si fa fecondo per l’autore: solo la crisi, la fusione tra soggetto e oggetto (fuor di metafora: fra traduttore e testo da tradurre), quella che, sempre seguendo LaChapelle, Nasi chiama «relazione ritmica», può aiutarci a parlare di traduzione in maniera proficua:
Sono traduzioni pericolose, nelle quali il traduttore deve non soltanto mettersi in gioco, come avviene sempre nelle traduzioni, ma scendere in campo facendosi notare assai più di quello che, per statuto e indole, vorrebbe. Sono traduzioni in cui è necessario conoscere bene le tecniche apprese in palestra, ma anche essere disposti a interagire in modi nuovi e imprevisti con il testo da tradurre (p. 25).
A essere «pericolosi» non sono solo i testi presi in esame, ma anche i concetti che l’autore introduce per l’analisi del processo traduttivo: inconscio («perdita»), visibilità («farsi notare»), musicalità («relazione ritmica»).
Il perché è evidente: non siamo abituati a far entrare concetti tanto liquidi e controversi come l’inconscio e il ritmo quando si analizza il processo traduttivo. Per non parlare di un tema come quello della visibilità. Ma soprattutto non siamo abituati allo scandalo di parlare di traduzione sotto l’egida della creatività, che è un po’ il convitato di pietra nascosto dietro questi concetti. Scandalo, perché il traduttore, servo per antonomasia, non dovrebbe permettersi mai di essere creativo, nella misura in cui è responsabile per il guado linguistico e culturale della creazione altrui.
Nasi lo sa, e infatti non appena passa ad analizzare i casi che vuole prendere in esame lo fa con rigore non comune. Ma il suo rigore, sebbene limpidissimo, sembra quasi un grimaldello per ribaltare di volta in volta l’argomento trattato verso qualcosa di più generale, quasi che, donchisciottescamente, parlare di traduzioni estreme fosse come guardare «gli arazzi fiamminghi dal rovescio», come dice Cervantes nell’italiano di Vittorio Bodini; eppure, in modo forse ancor più sornione, questo rovescio di trama illuminasse ogni volta un aspetto più ampio e generale dell’esperienza del tradurre.
Ogni capitolo del libro, infatti, mentre si occupa di alcuni esempi specifici di traduzioni estreme, serve in realtà da specchio, da cartina di tornasole per un versante specifico della traduzione, intesa proprio come atto creativo.
Si comincia, guarda caso, con le problematiche ritmiche e sonore della traduzione di versi, rime e testi pubblicitari, il cui cortocircuito tra senso e suono viene analizzato dall’autore attraverso le immagini «doppie» che la psicologia della Gestalt utilizza appunto per descrivere le predisposizioni del nostro sguardo sulla realtà (ovvero: la nostra disposizione interpretativa). Nasi sembra così suggerirci tra le righe che il lavoro del traduttore possa trovare una sua possibile definizione nella forma del testo fonte (tra le varie possibili) illuminata implicitamente dal suo sguardo.
Si passa poi a un’attenta quanto gustosa analisi di giochi linguistici di sparizione quali il lipogramma (dove si deve scrivere un testo senza una o più lettere dell’alfabeto). Seguendo l’analisi dell’autore, al di là delle difficoltà insite nel tradurre questo tipo di testi, non si può non ravvisarvi un altro parallelismo, stavolta tra la scomparsa delle lettere dell’alfabeto e quella della figura del traduttore (traghettatore di un testo a cui si impone di non lasciar vedere né il barcaiolo che lo porta né la barca su cui esercita la sua azione di guida).
Il gioco di specchi si fa vertiginoso se pensiamo che sempre, nei testi presi in esame, la sparizione linguistica è segno della sparizione di qualcos’altro (un uomo, il verso di una poesia, la libertà di parola). In questa girandola di rimandi, l’invisibilità del traduttore va assumendo così un significato opposto a quello che normalmente immaginiamo: non più un farsi da parte dovuto, ma un celarsi sornione.
Un altro grande gioco a nascondino linguistico è l’acrostico (dove, in un componimento, le iniziali di ciascun verso o riga celano un’altra parola o frase); e infatti è lì che l’analisi dell’autore si sposta subito dopo, partendo addirittura – tanto per non lasciare adito a dubbi sull’importanza di quanto si cela dietro a questo tipo di sparizioni – da un salmo biblico.
Ma la parte del capitolo che da questo punto di vista colpisce di più il lettore è quella sul Contracrostipunctus di Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach, dove l’acrostico musicale che nasconde la firma del compositore nell’Arte della fuga serve al filosofo statunitense per una riflessione su quanto sia difficile separare la vita che troviamo nel macrocosmo dalla sua pure evidente assenza nel microcosmo molecolare, quasi a suggerire che sia un nostro dovere cercare la firma del demiurgo proprio là dove sembra del tutto assente.
Anche qui Nasi, parallelamente, sembra suggerire che l’assenza del traduttore dal macrocosmo del testo tradotto sia lo specchio della sua presenza attiva nel microcosmo del lavoro interpretativo sulla lingua, e che proprio la presenza del suo sguardo nella trama nascosta del testo tradotto infonda vita alle parole dell’autore primo, su quest’altra sponda del fiume linguistico e culturale.
Non è finita, però: se questo è vero, sembra sussurrare ancora Nasi nella vertigine dei suoi esempi estremi, allora la vita, che nel nostro caso è vita letteraria, sarebbe giocoforza legata proprio all’imperfezione della relazione ambivalente tra autore e traduttore. La letteratura tradotta vibrerebbe davvero solo grazie a questo legame contrappuntistico tra i due, e le due visioni (quella dell’autore – la cui parziale casualità peraltro, alla fine del capitolo su lipogrammi e anagrammi [ p. 54] viene tranquillamente posta come una delle condizioni di base del suo stesso agire – e quella del traduttore, che per definizione vive di parzialità e di imperfezione) verrebbero a essere così tutt’altro che indipendenti.
È come se la vita letteraria scaturisse proprio dalla relazione tra le loro distanze: «Quando il testo si muove non si allontana dalla propria essenza, ma si avvicina a essa, costruendola nella molteplicità» (p. 69).
L’autore rende esplicito questo aspetto della sua concezione nel momento in cui passa a parlare di filastrocche e nonsense, quando afferma di voler fare: «alcune riflessioni, da una parte, sulle nozioni di creatività e vincolo, e, dall’altra, su alcune forze (caso, amore, logica) che dovrebbero essere sempre in campo quando si decide di cimentarsi nell’arte della traduzione (estrema) (p. 78).
Il riferimento è a Charles S. Peirce e al suo Chance, Love and Logic (1923; la traduzione italiana di Nicola Abbagnano e di Marion Taylor Abbagnano, Caso, amore e logica, è stata pubblicata da Einaudi nel 1956); e questo, rimandando alla catena di interpretanti che ben può simboleggiare quella delle interpretazioni tra testo fonte e testo in traduzione, dà all’autore il destro per ricordare al traduttore le proprie responsabilità: «Anche chi traduce pensando di non avere un “progetto traduttivo” ce l’ha: non c’è scampo» (p. 89).
Ecco che il gioco – finalmente l’autore può dirlo apertamente – anziché, come in Eco, fungere da limite, si fa centro: «Prendere in considerazione traduzioni di testi così leggeri eppure complessi come sono le filastrocche, i giochi di parola, i nonsense, gli scioglilingua, i lipogrammi, gli anagrammi ecc., può essere un modo per riflettere su questioni rilevanti della traduttologia, ma anche della ontologia del testo» (p. 114).
Si comincia a intravedere come questo saggio apparentemente dedicato a dei «casi particolari» nasconda invece, in trasparenza, un’idea coraggiosa che trascende, e di molto, questi casi particolari. Ovvero l’idea che l’atto del tradurre (estremo o meno), ben lungi dal nascondere se non addirittura mettere in pericolo le caratteristiche insite in un testo letterario (dunque creativo), sia destinato a illuminarle, a condizione però che anch’esso parta dalle stesse premesse di creatività del testo fonte, che non abbia paura di partire dall’io del soggetto traducente, né di confonderlo con l’oggetto della sua azione specifica.
L’ultimo capitolo, fin dal titolo, tratta esplicitamente proprio di creatività e vincoli. L’autore, con la sistematicità che gli è propria, stila un’esauriente tabella dei vincoli di un testo a cui ogni interpretazione creativa dovrebbe saper guardare per rendere conto di se stessa.
Ma tanta insistenza sul vincolo non tragga in inganno. L’ultimo capitolo , infatti, torna proprio su uno dei concetti con cui il libro si apriva, addirittura nell’introduzione: la creatività. Lì (p. 21), dove Nasi, citando il saggio di Stefano Bartezzaghi sulla creatività (L’elmo di Don Chisciotte, Laterza, Bari 2009, p. 15), ci ricordava che se, come dice Bartezzaghi stesso, questa è anagramma di cattiveria, il cattivo (captivus, prigioniero in latino) è a sua volta etimologicamente legato ai ceppi del vincolo, il che riporta la creatività a pieno diritto proprio nell’alveo del processo traduttivo (di tutto il processo, non soltanto di quello di testi estremi).
Così, se il testo originale può essere illuminato dal testo tradotto solo attraverso un suo apparente allontanamento per mezzo della creatività del suo interprete, per converso è proprio attraverso il vincolo che il captivus si fa cattivo, in quanto consapevolmente creativo.
A mio modo di vedere, qui si pongono chiaramente le basi per un vero e proprio ribaltamento di paradigma. L’«invisibilità» del traduttore, con tutte le conseguenze che comporta (di assenza non solo del soggetto traducente, ma anche di un suo progetto e dunque di una sua responsabilità nei confronti del testo tradotto – e, in ultima istanza, del lettore di traduzioni), viene rovesciata, attraverso il parallelismo con i testi «estremi», in una presenza nascosta che non può più sottrarsi né al suo essere soggetto interpretante né, tantomeno, alle responsabilità che questo comporta.
Ma è proprio questa presenza, questa parzialità dell’interpretazione, che presuppone una molteplicità di sguardi possibili sul testo fonte (e, dunque, apparentemente una sua implosione), ci dice Franco Nasi, a rendere quello stesso testo nuovamente (e molteplicemente) passibile di essere goduto, come voleva Barthes. È quella presenza molecolare a infondere al testo vita, come vuole Hofstadter, nel macrocosmo della lingua e della cultura verso cui viene di volta in volta tradotto.
Così, dal caso particolare si passa alla teoria generale; dalla libertà si passa al vincolo che è espressione vera di ogni sguardo creativo; dagli sport estremi si torna al concetto più puro di testo. Il cerchio si è chiuso.