La recensione / 9 – Da scrittore per ragazzi a grande interprete dell’ambivalenza americana

di Mario Marchetti

A proposito di Elisa Francesca Conselvan, La fortuna editoriale di Mark Twain in Italia, Editoriale Documenta, Cargeghe, 2015, 220 pp., € 20

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Mark Twain a quindici anni

Un lavoro di ricerca ottimo, quello di Elisa Francesca Conselvan, ottimo per la precisione e l’esaustività. Grazie ad esso possiamo sapere tutto su quello che è stato pubblicato di Mark Twain (nom de plume di Samuel Langhorne Clemens) in Italia. Possiamo sapere tutto su chi sono stati i suoi traduttori. Tutto su quando e da chi è stato pubblicato. Non a caso il volume è stato insignito del Premio Bibliographica 2013. Aggiungiamo subito che contiene anche note sintetiche sulle vicende delle case editrici (e anche delle collane) che abbiano pubblicato qualche titolo di Mark Twain: a occhio e croce tutte le più significative e importanti, per non dire delle piccole e piccolissime (in totale, circa 200). Ci troviamo di fronte così anche a una preziosa storia dell’editoria italiana in compendio dall’inizio del Novecento ai giorni nostri. A questo proposito, un indice analitico delle case citate sarebbe stato molto utile (in realtà, un elenco c’è, ma senza indicazione delle pagine nelle quali se ne parla); analoga osservazione vale per i traduttori citati (circa 150). Il libro è completato da una biografia di Mark Twain, da qualche cenno alla critica italiana sulla sua opera e, infine, da un capitolo dedicato specificamente alla fortuna di Tom Sawyer, con un breve excursus comparativo su quattro diverse traduzioni del romanzo e con un rapido e assai interessante esame dei suoi più notevoli illustratori (da Attilio Mussino, a Libico Maraja, Gianni Benvenuti, AntonGionata Ferrari e Franco Matticchio). A completamento delle informazioni fornite da Conselvan, segnaliamo l’interessante iniziativa della Mattioli 1885 di Fidenza, che sta procedendo a una sistematica pubblicazione delle opere di Mark Twain inedite in Italia, tra le quali The American Claimant (Il pretendente americano,2014), e scritto nel 1891 in soli settantuno giorni da un Twain sotto pressione per la sua fallimentare speculazione sulla linotype Paige, in cui vide sfumare ben 200.000 dollari: un libro di gran divertimento da cui emerge il disincanto dell’ultimo Twain nei confronti dell’uomo. Ultimi titoli pubblicati nel 2016 sono In quest’Italia che non capisco (pagine tratte da The Innocents Abroad, la dissacrante e insieme un po’ grossolana satira che Twain nel 1867 fece della vecchia Europa e, in particolare, dell’Italia) e Come andarono i fatti,a cura di Livio Crescenzi, una raccolta di pezzi risalenti agli anni sessanta e settanta dell’Ottocento nei quali lo scrittore si presenta nelle vesti di originale reporter.

Che cosa possiamo ricavare da questa miniera di dati?

Innanzitutto che Twain è stato uno degli autori americani più pubblicati e tradotti in Italia, a partire sin dal lontano 1891, quando uscì anonimo un riadattamento per «fanciulli» di The Prince and the Pauper (1881), intitolato Masino e il suo re. Si intensificarono via via le pubblicazioni nel corso del primo Novecento e anche nel corso del ventennio fascista (e qui c’è il solito zampino di Gian Dàuli, ma non solo) quando furono addirittura pubblicate edizioni in lingua madre di suoi testi ad uso scolastico: ulteriore smentita della vulgata chiusura editoriale dell’epoca nei confronti degli autori stranieri, e in particolare americani, tesi cui Conselvan sembra dare un qualche credito. Per poi esplodere nel secondo Novecento e ancora all’inizio degli anni Duemila.

In secondo luogo, che all’inizio l’editoria e la critica italiane videro Mark Twain nel prisma riduttivo dell’umorismo, come perfetto esemplare dell’ingenuo e insieme spaccone narratore americano di tall tales, ovvero di panzane, che, insomma, le spara grosse per suscitare il riso. Oppure lo inquadrarono nel letto di Procuste dei libri per ragazzi, privilegiando in un primo tempo l’edificante The Prince and the Pauper (variamente tradotto come Il principe e il povero o come Il principe e il mendico), che sarà sempre particolarmente amato dall’editoria cattolica (celebre e diffusissima l’edizione 1945, più volte ripubblicata, nei «Superverdi» della S.A.S con la traduzione di Clotilde Massa, che circolava nel secondo dopoguerra, in tempi pacelliani e democratico cristiani), per poi presto planare su The Adventures of Tom Sawyer, in chiave normalizzata (come illustra bene per gli Stati Uniti Gianni Celati nella prefazione al suo Tom Sawyer edito dalla BUR nel 1979; ma un discorso analogo può valere per l’Italia). Un primo cambiamento di registro da parte della critica lo si dovrà a Cesare Pavese, che nell’articolo Le biografie romanzate di Sinclair Lewis («La cultura», maggio 1934, ora in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, 1951, ma più volte ripubblicato) sposta lo sguardo sul linguaggio di Mark Twain: «originalissimo, nella tradizione stilistica dell’America, nutrito di vari dialetti della vallata del fiume», mettendo in luce la superiorità artistica di Twain su Sinclair Lewis, che utilizzò lo slang eminentemente in chiave di colore, senza lasciarsene influenzare nella struttura della lingua, la quale resta un gergo giornalistico. Nello stesso 1934 appare anche la prima traduzione di Mark Twain effettuata con criteri moderni: si tratta delle Avventure di Huck Finn, volto in italiano da Luigi Berti – che mantiene peraltro parecchie riserve nei confronti del valore letterario dello scrittore − per Frassinelli, il tipografo-editore torinese ispirato da Franco Antonicelli. Toccherà poi a Vittorini e a Enzo Giachino consacrare Twain come un grande della tradizione americana: il primo inserendolo nella sezione Nascita della Leggenda di Americana (Bompiani 1941); il secondo con la sua prefazione al «Millennio» Einaudi dedicato a Tom Sawyer e a Huckleberry Finn, indicato, quest’ultimo, come il capolavoro indiscusso di Twain. È stato poi scritto molto altro su di lui e Conselvan elenca con cura i vari contributi che si sono susseguiti fino ai primi anni Duemila. Tra questi ricordiamo in particolare il volume curato da Italo Calvino nel 1972 per la “sua” collana einaudiana «Centopagine», che si segnala per la nota introduttiva e per aver dato piena visibilità a due testi del tardo Twain, due indiscutibili capolavori, come The Man that Corrupted Hadleyburg (L’uomo che corruppe Hadleyburg)del 1899 e The $ 30,000 Bequest (Un legato di trentamila dollari)del 1906, nella traduzione di Bruno Fonzi.

Ma ormai il grande passo era fatto, e anche per la critica italiana Mark Twain era entrato nel pantheon dei grandi scrittori americani.

La cosa trova tra l’altro conferma nel fatto che con le opere di Twain si sono cimentati non solo molti tra i più noti americanisti e traduttori dall’inglese, come Luigi Berti, Enzo Giachino, Bruno Fonzi, Bruno Oddera, Franca Cavagnoli, Vincenzo Mantovani e Barbara Lanati, ma anche tanti scrittori come Eugenio Montale, Margherita Guidacci, Libero Bigiaretti, Gianni Celati, Ottiero Ottieri, Giuseppe Culicchia.