CON UN OMAGGIO ALLA MEMORIA DI GIOVANNI NADIANI
di Massimo Bonifazio
A proposito di: Giovanni Nadiani, Un deserto tutto per sé. Tradurre il minore, Homeless Book, Faenza, 2015, pp. 354, € 31,50 (e-book € 6.99)
Non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Giovanni Nadiani, ma l’occasione di recensire il suo libro, all’inizio dell’estate scorsa, aveva stimolato la mia curiosità; e come il giovane Holden di Salinger alla fine di certi bei romanzi, volentieri a fine lettura gli avrei fatto una telefonata. Purtroppo una malattia lo ha portato via il 27 luglio scorso, prima che questo potesse accadere, e il mio dispiacere si è così unito al dolore della famiglia e di coloro che lo conoscevano e lo apprezzavano. Giovanni Nadiani era nato a Cotignola nel 1954 e aveva studiato Lingue a Bologna, specializzandosi in tedesco e addottorandosi poi in Scienze della traduzione. Dal 2001 era ricercatore presso la Scuola di Lingue e letterature, traduzione e interpretazione di Forlì. I suoi interessi di ricerca giravano intorno alla traduzione multimediale, alla teoria della traduzione, alla traduzione letteraria; ha dedicato poi un’attenzione particolare alle lingue e alle testualità minoritarie. Di quest’ultimo ambito sono testimonianza da un lato le sue traduzioni, soprattutto poetiche, dal fiammingo (1995, 1998, 2004c, 2007b; Nadiani, Faggin 1998), dal neerlandese (Nadiani et al. 1991; Nadiani, Faggin 2005), dal plattdeutsch (Nadiani 1983, 1984, 1986, 1998b, 2000) e dall’alemannico (2003b, 2004b), e dall’altro l’interesse per il genere della prosa breve (2001b, 2004a; cfr. anche 2000a, 2002). Il concetto di “minoritario” gli era molto caro, come è evidente anche negli interventi di Un deserto tutto per sé; e questa sua attenzione partiva certamente dall’esperienza personale di avere come lingua materna il romagnolo. Nadiani ha lavorato moltissimo su questa lingua minore e «sconfitta», con una produzione artistica dall’impostazione estremamente interessante. Ciò che gli stava a cuore non era una conservazione sterile in nome di una malintesa “identità”, ma un utilizzo vivo che scendesse a patti con la realtà circostante, linguistica e concreta, senza chiudersi nel sogno di un passato glorioso o altrimenti felice, di fatto mai esistito. Il romagnolo di Nadiani è un dialetto scientemente «bastardo», come lo sono in realtà tutte le lingue e tutti gli esseri viventi, costantemente in trasformazione e in ibridazione. È un dialetto «meticciato», che si impasta di italiano, di inglese e di altre lingue, ma è proprio questa mescidanza a fornirgli la possibilità di sopravvivere. Nadiani usava il dialetto sia in poesia (si veda l’elenco delle sue pubblicazioni in calce) che in spettacoli nei quali era accompagnato dal quintetto blues-jazz Faxtet (cfr. Nadiani, Faxtet 1997, 2001, 2005, 2007). Si tratta di una «scrittura orale», di un «dialet-Kabarett», che riprende esplicitamente le esperienze tedesche e nordeuropee dei primi decenni del Novecento, in contrapposizione all’attuale «vulgata […] a base di forzosa e becera comicità raskiabidet», come ha scritto lui stesso sulle pagine del suo sito personale (http://lnx.gionni.net/wordpress/?page_id=11). I testi di Nadiani, per far ridere, fanno leva sulle fragilità umane, sulla necessità di radici e insieme sulle storture dei poteri dominanti e sul bluff della globalizzazione. Sensazionali in questo senso sono per esempio i pezzi del «rapet», del «rap in dialèt», nei quali dà forse il meglio di sé come interprete; si veda ad esempio l’esilarante Tan & Taeg dedicato all’alta finanza mondiale, di cui vi è traccia anche in rete (https://www.youtube.com/watch?v=HgjOI6WhDBk, con sottotitoli in italiano).
Crediamo opportuno accompagnare questa recensione del suo ultimo lavoro con un elenco, probabilmente parziale, degli scritti di questo particolare intellettuale dei tempi nostri. Il lettore lo troverà in fondo.
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Nella smilza Premessa al suo libro, Giovanni Nadiani dà conto al lettore dei motivi che lo hanno spinto a ripubblicare questi «scritti di varia natura sorti in diverse occasioni e a loro tempo pubblicati in sedi disparate» nel decennio a partire dal 2004 (p. 7). In particolare rileva (cogliendo perfettamente nel segno) la «forza dialogante quando non provocatoria» (p. 8) di alcune affermazioni, intuizioni e spunti di riflessione che ritornano, approfondendosi e aggiornandosi, di testo in testo. Gli articoli e i saggi della raccolta, per quanto eterogenei, sono infatti espressioni di una voce che pone serrate domande a sé e al lettore, fornendo con discrezione alcune risposte. Le posizioni di Nadiani non sono mai astratte e arroccate, ma sempre dolentemente orientate verso «la carne e il sangue» dell’incontro (p. 230), verso la concretissima realtà dei rapporti umani, locali, “minori”; ed è proprio sul “minore” che si incentra la gran parte degli interventi.
Il suggestivo titolo della miscellanea trae spunto da una frase del saggio Kafka. Per una letteratura minore, di Deleuze e Guattari (Pour une littérature mineure, 1975, tradotto in italiano da Alessandro Serra per Feltrinelli lo stesso anno), che ritorna più volte nei vari interventi, a partire dall’esergo della Premessa, dove si cita l’edizione Quodlibet 1996, p. 33:
Anche chi ha la sventura di nascere nel paese d’una grande letteratura deve scrivere nella propria lingua come un ebreo ceco scrive in tedesco, o come un uzbeko scrive in russo. Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per sé (p. 7).
Notoriamente, per Deleuze e Guattari la letteratura «minore» non è quella di una lingua considerata tale, bensì quella prodotta da una minoranza in una lingua maggiore, come appunto nel caso dell’ebreo ceco Kafka che sceglie di scrivere in tedesco. L’aggettivo «minore» viene così a rappresentare la condizione rivoluzionaria delle letterature prodotte da minoranze, rispetto allo strapotere dell’altro ricorrente polo di riflessione, ossia la «language of the capital [la lingua del capitale / della capitale / del centro / dei grandi immaginari» (p. 27), che Nadiani riprende da The language of the mountain di Harold Pinter (1988; atto unico Il linguaggio della montagna tradotto da Alessandro Serra per il Teatro di Pinter pubblicato da Einaudi nel 1996, vol. II). Lungo i vari testi si fa chiara – fra ironia e convinzione – la posizione di Nadiani rispetto al potenziale rivoluzionario del “minore”: da un lato la scettica presa d’atto che i dialetti sono lingue sconfitte in partenza; dall’altro la speranza che il loro utilizzo possa giovare a chi li parla.
La sezione iniziale del libro porta il titolo Il minore e la traduzione. Il primo dei suoi saggi, Le Alpi tirolesi in Romagna. Alcune note sulla (discutibile) necessità di tradurre il minore col maggiore (Nadiani 2015, 11-24), è molto denso e raccoglie vari spunti che in altri interventi vengono ripresi e rielaborati. Vi si riflette per esempio sul concetto di “minore”, che per Nadiani ha in sé il senso della subordinazione culturale e politica efficacemente focalizzato da Lawrence Venuti nella introduzione al numero speciale di «The Translator» da lui curato nel 1998 su Translation & Minority: the politically weak or underrepresented, the colonized and the disenfranchised, the exploited and the stigmatized (p. 12: i politicamente deboli o sottorappresentati, i colonizzati e non emancipati, gli sfruttati e gli stigmatizzati). Il rischio paventato più volte è quello del fenomeno che i francesi chiamano patoisement, la svalutazione ufficiale di una lingua minoritaria, vista come meno prestigiosa e incapace di rinnovamento, e il suo conseguente abbandono da parte dei suoi parlanti. A questo rischio concorre la tendenza a «riterritorializzare il minore in un altro minore» (p. 19), nell’illusione che esista o sia mai esistita una integrità culturale locale, della quale la lingua minore sarebbe espressione. Il problema non è quindi museificare i dialetti o le altre lingue minoritarie, ma inserirle in una «relazione osmotica» con la lingua maggiore e con il mondo circostante; e allo stesso tempo imparare a considerarsi «migranti fra habitat di significato» (p. 17). Significativamente, Nadiani rileva (citando l’antropologo svedese Ulf Hannerz) come questo habitat non sia paragonabile a quelli ecologici, perché – a differenza delle varietà biologiche – le varietà culturali posseggono la capacità di una «continua auto-ricostruzione nella trasformazione» (p. 17). Il problema con cui si apre il saggio è quello che si presenta al traduttore bilingue, la cui lingua madre è una lingua «minore» (come il dialetto romagnolo), e che quindi usa la lingua «maggiore», la varietà standard e prestigiosa, (per esempio l’italiano di cultura) di fatto come una seconda lingua. La scelta di tradurre verso la propria lingua madre è resa complicata da una serie di fattori, alcuni dei quali oggettivi, per esempio l’esiguità del pubblico che può godere appieno dell’opera di traduzione. Altri sono invece legati al prestigio – che è sempre prestigio di persone, e non delle lingue in sé e per sé – e alla tendenza alla svalutazione e al patoisement di cui sopra, alla quale non è estraneo un problema già rilevato da Nadiani in altri interventi, ossia la «lampante contraddizione» di intere società che, scegliendo di «disintegrarsi, anche linguisticamente» e di optare «acriticamente e visceralmente, senza un pizzico di sano e ragionevole scetticismo, per gli stili di vita più lustri e i mercati internazionali, per uno sviluppo privo di reale progresso», hanno finito per sperimentare una «immedicabile Heimatlosigkeit», uno «spaesamento integrale (storia, memoria, territorio, animo, lingua)», come dice nel suo Flash del 2004 (pp. 27-28) lo stesso Nadiani.
Una parziale risposta a queste questioni viene data da Nadiani in un altro intervento, Esiste il fenomeno della ricaduta traduttiva su una lingua sconfitta? (pp. 69-90), nel quale focalizza come i tentativi di tradurre verso le lingue «minori» siano in ogni caso positivi, perché le inseriscono in una dinamica viva. Gli sforzi lessicali e i calchi obbligati dal maggiore, se da un lato rischiano di diluire la lingua «minore», dall’altro apportano innovazioni e allargano le possibilità espressive, con vaste ripercussioni positive:
La traduzione per la sua intrinseca capacità di introdurre nelle lingue-culture accoglienti modelli testuali, in senso lato, non esistenti in esse, cioè opzioni pre-organizzate pronte all’uso sotto forma di istruzioni per produzioni future […] potrebbe, dunque, costituire un gradino operativo niente affatto secondario nel tentativo di far risalire “tecnologicamente” dal baratro dove sta sprofondando il fantasma del dialetto, ovvero, molto più realisticamente, di lasciarlo scendere almeno un po’ più lentamente […] (p. 87).
A questo proposito, in più interventi Nadiani caldeggia la creazione di una grafia «unificata e il più semplificata possibile» (p. 337) del dialetto romagnolo, che aiuterebbe anche i parlanti a sentire maggiormente le sue possibilità di prestigio e a “fissarlo” visivamente. Questo comporta, com’è chiaro, la disponibilità a considerarlo una lingua viva e non un «inamovibile tesoro che non va intaccato» (p. 87).
La seconda sezione ha per titolo Il minore e la letteratura, e verte soprattutto sulla prosa breve, altro centro di interesse “minore” su cui Nadiani ha lavorato molto, il cui “maggiore” è costituito dai generi più frequentati e prestigiosi, a partire dal romanzo. La prosa breve è sfuggente da definire in quanto genere; mentre altrove, ad esempio in Germania, gode di un certo rispetto, essa è assai poco frequentata in Italia, nonostante l’interesse mostrato da Italo Calvino nelle Lezioni americane (si veda la lezione intitolata Rapidità). Nel saggio Il verso infrantosi nella storia interrotta. Appunti sul concetto di “prosa breve” come iperonimo (pp. 189-212),Nadiani parte dalla propria esperienza personale di performer per fare una lunga e interessante disamina delle sfaccettature di questo genere letterario, ricca di suggestioni e richiami a studi internazionali. Il saggio per certi versi più interessante della sezione è però I “Quiebra ley” della lingua. Fenomeni di meticciamento nella narrativa tedesca contemporanea (pp. 225-241), nel quale il ragionamento sulla letteratura tedesca prende le mosse da una dolente riflessione sui migranti contemporanei e sul «pensiero sacrificale» (p. 227), il quale prevede che il bene dei pochi debba passare attraverso il sacrificio di molti. Questi molti sono per esempio i migranti che «puliscono abusivamente il culo» (pp. 225-226) degli anziani occidentali, e in generale che accettano i lavori più umili, protagonisti di molti testi artistici di Nadiani (ad esempio la bellissima poesia Scorar, riportata a p. 299 a commento di un intervento), di cui l’autore riconosce appieno la capacità di scombinare le carte e di arricchire le culture nelle quali arrivano, trasformando anche gli stanziali in «migranti tra habitat di significato», come già si diceva (p. 229). Esperienze come quelle di Feridun Zaimoglu e Wladimir Kaminer mettono in luce una tendenza che Nadiani considera assolutamente positiva, quella del meticciamento delle culture, che parte clandestinamente proprio dalla forma artistica «per eccellenza – la letteratura – poiché direttamente dipendente […] dallo strumento con cui si esprime: il codice linguistico» (p. 238). Il meticcio diviene un «terzo» che rende possibile la comunicazione fra i gruppi: «il meticcio come colui su cui nessuno dei due interlocutori ha presa, la cui esistenza però permette la comunicazione, il dialogo: solo esito possibile per uscire dalla violenza» (238). Due interventi della sezione sono poi dedicati a un autore tedesco sul quale Nadiani è tornato più volte negli anni, sia con traduzioni che con commenti, ossia Friedo Lampe.
La terza sezione, Il minore e la lingua, è composta per lo più da interventi brevi, dedicati a riflessioni sul dialetto romagnolo (ma il discorso vale evidentemente per qualsiasi lingua “minore”) e sui modi di rinvigorirne la vitalità. Particolarmente interessante mi sembra Verso il luogo di una nuova identità (pp. 335-338), breve e pregnante intervento seminarrativo nel quale Nadiani individua una relazione precisa fra lo «spaesaggiamento» dei luoghi di Romagna dove è cresciuto e l’afasia linguistica dei loro abitanti. La lingua ormai esangue, insieme a coloro che la parlano o sarebbero in grado di parlarla, è il «correlativo oggettivo» dei paesaggi trasformati in sequela di capannoni, rotonde, uscite autostradali, ipermercati e del proliferare delle villette, in un movimento che ha trasformato i centri delle piccole città nelle vere periferie urbane, dove i negozi chiudono senza venire più aperti e la gente non si reca se non per dormire. La proposta che fa l’autore è quella di «riuscire ad abitare questo nostro nuovo luogo spaesaggiato», di accettare di riconoscersi in esso, «per poi gradualmente tentare di plasmarlo in modo tale che esso possa essere identi-ficato, possa assumere una qualche identità». Questa identità passa però necessariamente per il riconoscimento degli altri codici che attraversano il luogo, sia quelli «imperiali», anglofili e legati al Mercato, che quelli, inediti, dei migranti e dei nuovi gruppi; con questi codici bisogna «entrare in una relazione attiva e propositiva» affinché lo spazio abitativo vissuto diventi una entità «in cui sentirci a casa nuovamente» (p. 337).
Oltre alle indubbie qualità scientifiche di molti interventi, mi pare stia qui, nel tentativo di leggere i problemi della lingua come problemi umani tout court, uno dei più grandi pregi di questa miscellanea, e della riflessione di Giovanni Nadiani, sempre così piacevolmente aperta al positivo e al propositivo: «Tocca alla nostra creatività, alla nostra inventiva peregrinante, trovare la (auto)strada verso il luogo nuovo di un’esperienza condivisa, che per comodità possiamo chiamare identità» (ibidem).
Scritti di Giovanni Nadiani
Traduzioni e interventi sulla traduzione
1983: Giovanni Nadiani, Plattdeutsche Literatur der Lüneburger Heide. Friedrich Freudenthal, Hans Ludolf Flügge, Willi Eggers, Faenza, Tipografia faentina
1984: Greta Schoon, Dagli assetati campi. Poesie e traduzioni dall’opera poetica di Greta Schoon, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Ravenna, Guidarello
1986: Oswald Andrae, Orme d’ombra, a cura di Giovanni Nadiani (dal Plattdeutsch), Ravenna, Guidarello
1990: Lingue in poesia. Atti del convegno internazionale (Faenza, 1° luglio 1989) a cura di Giovanni Nadiani, Andrea Fabbri ed Elio Cipriani, Faenza, Mobydick
1991: L’equilibrio delle parole. [Poeti traducono poeti]. Laboratorio di traduzione poetica italiano-neerlandese, neerlandese-italiano, Faenza, 26 giugno-6 luglio 1991), a cura di Giovanni Nadiani, Charles van Leeuwen e Andrea Fabbri, Faenza, Mobydick
1991: Över verlaten Plaasterstraten – Per abbandonati selciati (poeti basso-tedeschi 1961-1990), a cura di Giovanni Nadiani, Faenza, Mobydick
1995: Willem M. Roggeman, L’invenzione della tenerezza, a cura di Giovanni Nadiani (dal fiammingo), Faenza, Mobydick
1996: Il mestiere di scrivere,(relazioni degli autori europei tenute al “Tratti Folk Festival 1993-1995”), a cura di Giovanni Nadiani e Andrea Fabbri, Faenza, Mobydick
1998: Poesia fiamminga contemporanea, a cura di Giovanni Nadiani e Giorgio Faggin, Faenza, Mobydick
1998a: Pol Hoste, High key, a cura di Giovanni Nadiani (dal fiammingo), Faenza, Mobydick
1998b: Jürgen Kropp, Nix för Fremde – forestieri escluso (racconti in Plattdeutsch), a cura di Giovanni Nadiani, Bremen/Hamburg/Friesland, Achilla Presse
1999: Michael Augustin, Prendo le sigarette e torno. Prodotti brevi, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2000a: Friedo Lampe, Ai margini della notte, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2000b: Klaus Johannes Thies, Tacchi a spillo sulla tastiera di Monk, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2001a: Ror Wolf, Tentativi di mantenere la calma, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2001b: Ror Wolf, Danke schön. Nichts zu danke. Grazie tante. Non c’è di che. Kürzestprosa ironica per un ipertesto traduttivo, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Bologna, CLUEB
2002: Friedo Lampe, Temporale a settembre, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2003: Hans Haid, Così parlò la montagna. Poesie in dialetto tirolese, a cura di Giovanni Nadiani, Faenza, Mobydick
2004a: Prosa breve tedesca, a cura di Giovanni Nadiani in collaborazione con Nicolina Pomilio & Vanio Preti, Bologna, Gedit [CD-Rom]
2004b: Markus Manfred Jung, Parole come l’erba. Poesie in alemannico, a cura di Giovanni Nadiani, Faenza, Mobydick
2004c: Willem M. Roggeman, L’utile della poesia. Poesie dal fiammingo, a cura di Giovanni Nadiani, Faenza, Mobydick
2004d: Giovanni Nadiani, Door Tuin naar Town ovvero come saltare i muri senza l’asta. Appunti su traduzione e minorità, Faenza, Vrije WoordArbeid
2005: Rutger Kopland, Prima della scomparsa e dopo. Poesie 1966-2004,a cura di Giovanni Nadiani e Giorgio Faggin (dall’olandese), Venezia, Edizioni del Leone
2006: David Castillo, Un presente abbandonato. Poesie in catalano, 1981-2005, a cura di Giovanni Nadiani e Maria Carreras i Goicoechea, Faenza, Mobydick
2007a: Tone Avenstroup, Robert Lippok, marbel & matrikel (dal tedesco),Faenza, Mobydick (libro + CD-rom)
2007b: Willem M. Roggeman, Blue notebook (poesia jazz), a cura di Giovanni Nadianisulle musiche originali eseguite e composte dal Faxtet (dal fiammingo), Faenza, Mobydick
2007c: Giovanni Nadiani, TAGS – Translation of Artificially Generated Stories – Letteratura digitale, Traduzione, Teoria della Traduzione, Faenza, Mobydick
2009a: Matthias Politycki, La verità sui bevitori di whiskey. Poesie 1988-2008,a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco),Faenza, Mobydick
2010: Günter Kunert, Uomo in mare. Prose, a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2012: Nicolas Born, Nessuno per sé, tutti per nessuno. Poesie 1969-1978,Prima traduzione italiana a cura di Giovanni Nadiani (dal tedesco), Faenza, Mobydick
2015: Giovanni Nadiani, Un deserto tutto per sé. Tradurre il minore, Faenza, Homeless Book
Raccolte poetiche
1989: È sèch. Poesie 1977-1988, prefazione Gianni D’Elia, Faenza, Mobydick
1994: TIR, prefazione di Gianni D’Elia, Faenza, Mobydick
1997: Giovanni Nadiani & Faxtet, Invel, Faenza, Faredollars (libro+CD)
1999: Feriae,Venezia, Marsilio
2000: Email@unpendolare, in Lorenzo Buccella, Giovanni Nadiani, Sergio Rotino, Le poesie del Navile 2000, Faenza, Mobydick, pp. 33-52
2000a: Beyond the Romagna Sky. Litanie dal mondo inascoltato, prefazione di Fabio Zinelli, Faenza, Mobydick
2000b: Sens. Cinque suites romagnole, prefazione di Rocco Ronchi, Rimini, Pazzini
2001: Giovanni Nadiani & Faxtet, Insen, Faenza, Faredollars/Mobydick (libro+CD)
2004: Eternit®, Roma, Cofine
2005: Giovanni Nadiani & Faxtet, Romagna Garden CaBARet, Faenza, Faredollars/Mobydick (libro+CD)
2005a: RAM. Versi dalla Romagna-Italia, 1996-2005, Faenza, VrijeWoordArbeid
2005b: Rapèt (un rap in dialèt). Tre monologhi, Faenza, Mobydick
2007: Giovanni Nadiani & Faxtet, Best of e’ sech, Faenza, Mobydick (libro+CD)
Prosa
1986: Il sole oltre la nebbia. La Romagna e l’altrove. Racconti, Lugo, Walberti
1987: All’ombra mancante. Testi brevi (con fotografie di Gottfried Achberger), Faenza, Mobydick
1992: Nonstorie, Faenza, Mobydick
1995: Solo musica italiana. Nonstorie, Faenza, Mobydick
2004: Flash. Storie bastarde, Faenza, Mobydick.
2006: S-cen/People (esseri persi in una lingua da bar) – Dialet-Cabaret, Imola, Bacchilega(CD-libro)
2009: Spiccioli. Kurzprosa, Faenza, Mobydick
2010: Low Society. Storie da CaBARet, Forlì, CartaCanta
2012: Piadina blues. Altre storie da CaBARet, Bagnacavallo, Discanti