di Katia De Marco, curatrice di
Tove Jansson, Fair play, Milano, Iperborea, 2017 (da Rent spel, Stockholm, Bonnier, 1989), tradotto da Silvia Canavero, Gabriella Diverio, Samuela Fedrigo, Fabio Giuliari, Selena Magni, Giulia Pillon, Alessandra Scali e Andrea Stringhetti.
Questo libricino, scelto insieme alla casa editrice Iperborea che aveva già dato alle stampe alcuni dei libri «per adulti» di Tove Jansson, è stato tradotto a sedici mani nella seconda annualità del seminario di traduzione finanziato dallo Svenska Kulturrådet e dal FILI, enti per la promozione della letteratura svedese il primo e finlandese il secondo.
Per quanto gli otto partecipanti fossero già rodati alla traduzione collettiva dall’esperienza dell’anno precedente, l’impresa di rendere un testo di una certa lunghezza con un’unica voce costituiva di per sé una bella sfida. Pur essendo diviso in racconti indipendenti, il volume è costruito come un romanzo (semi)autobiografico: la descrizione di una relazione pluridecennale tra due donne unite dall’amore e dal rispetto reciproco non meno che dalla passione per l’arte in ogni sua forma. I racconti ce le raffigurano intente a dipingere, viaggiare, fotografare, scrivere, intagliare il legno, pescare e soprattutto discutere, su qualsiasi argomento, dai western ai cactus, dalla pesca alla natura umana, nella cornice degli appartamenti gemelli all’ultimo piano di un caseggiato affacciato sul porto di Helsinki o della «loro» isola nell’arcipelago – poco più di uno scoglio con una minuscola casetta di legno – ma anche nei loro viaggi intorno al mondo, dall’Arizona al Messico alla Corsica.
A fare da elemento aggregante c’è la voce dell’autrice, univoca e riconoscibile dalla prima all’ultima pagina del libro, malgrado l’apparente frammentazione del racconto. Noi invece eravamo in nove, ognuno con la propria idea di come rendere quella voce e il proprio bagaglio di fissazioni e idiosincrasie, parole-feticcio e parole-tabù. La più grande lezione di questo laboratorio, sia per gli otto partecipanti che per me che li coordinavo, è stata quindi quella dell’ascolto: sia dell’autrice, ma anche dei colleghi, delle loro opinioni sulle nostre «fantastiche» soluzioni, sulle sfumature sempre diverse che ciascuno di noi trovava anche nella frase apparentemente più banale: ore di discussioni bellissime ed estenuanti, concluse a volte per convinzione, a volte per sfinimento, altre ancora per votazione… salvo magari venire riaperte alla rilettura «veloce» dell’incontro successivo. Come il gioco di parole sul pane di Graham, che uno dei personaggi ribattezza «Graham Green» quando ammuffisce: abbiamo dato sfogo alla fantasia collettiva, per poi approdare a una sobria fedeltà all’originale.
Una seconda sfida, forse la più importante, è stata rappresentata dalla scrittura della Jansson, apparentemente piana e semplice, ma tutta costruita sul sottinteso, sul non detto, sulle sospensioni cariche di significato, che ci hanno costretti a destreggiarci tra la Scilla della banalizzazione e la Cariddi dell’esplicitazione (in?)volontaria.
E poi c’era la lingua, il cosiddetto «svedese di Finlandia», una varietà regionale molto simile allo svedese standard, ma che a volte usa termini apparentemente banali in modo diverso, creando un ulteriore rischio di scivolata. Anche parole di uso comune come l’avverbio ännu, per esempio, nascondono infidi trabocchetti: mentre in svedese significa «ancora, tuttora», in finno-svedese è usato nel senso di «ancora una volta, di nuovo», con effetti completamente diversi sulla consequenzialità del narrato.
I racconti ambientati sull’isola, infine, fanno ampio uso di un vocabolario specifico legato alla barca e alla pesca, con termini di difficile resa perché riferiti a strumenti e tecniche spesso diversissime da quelle italiane. A darci particolare filo da torcere è stato… un ago da reti, che in Finlandia evidentemente viene usato anche come impugnatura per la rete stessa durante la pesca.