VITA E TRADUZIONI DI GIGLIOLA VENTURI
di Aldo Agosti
1. «Io traduttrice accuso»
«Insomma, traduttori, perché fate questo ingrato mestiere?», ci si chiede. Per quanto mi riguarda, le ragioni sono molteplici: [ per] far partecipe di un bene a me accessibile chi, altrimenti, non riuscirebbe a fruirne. Perché mi piace […]. Mi piace specialmente cimentarmi con testi difficili, per vedere se sono capace – come quegli acrobati che da un trampolino vertiginoso si tuffano in una vasca di due metri di diametro uscendo dall’acqua col sorriso sulle labbra, agili, rilassati, eleganti – per vedere se sono capace di tuffarmi in quel mare di locuzioni tempestose che è un testo straniero ed uscirne con la stessa aisance, sì che solo gli specialisti si rendono conto della tensione, della concentrazione, della precisione, dell’equilibrio che ogni parola, ogni frase richiede per passare da una lingua all’altra senza sbavature, senza spruzzi, senza che l’acrobata linguistico vada a spaccarsi la testa sul duro cemento degli errori, o a slogarsi le giunture sul più morbido terreno dello stile originale da rendere.
Questo inno al mestiere del traduttore appariva su «Tuttolibri» del 26 aprile 1986, nella rubrica I lettori discutono. Era contenuto in una lettera, firmata Gigliola Venturi, che il giornale titolava Io traduttrice accuso, ed era una pacata risposta all’articolo che un mese prima, il 22 marzo, Vincenzo Mantovani aveva pubblicato sul supplemento della «Stampa»: un articolo definito «onestamente informativo», che tuttavia s’intitolava enfaticamente Traduttori, discolpatevi e aveva ripreso un acido corsivo di Augusto Frassineti uscito sul «Corriere della sera» il 10 agosto 1983. In quest’ultimo i traduttori di professione erano definiti «i paria dell’industria culturale, costretti al malfare, umiliati, torchiati e vilipesi», sospettati di essere «molto tristi e con forti cariche di aggressività repressa». Poco prima, ricordava Mantovani, in un convegno tenutosi a Monselice «Carlo Fruttero aveva addirittura proposto freddamente di sterminarli». Gigliola Venturi riconosceva che bisognava «elogiare le buone traduzioni, criticare le cattive, accorgersi cioè della presenza del traduttore, tallonarlo, tenerlo sotto osservazione», ma lamentava che gli editori troppo spesso non affidassero i libri stranieri a buoni traduttori e che questi non fossero pagati in proporzione alle loro fatiche, alle spese che sostenevano e alle tasse che pagavano (le une e le altre puntigliosamente elencate).
Dell’autrice di quella lettera, che aveva allora 68 anni, si contavano a quell’epoca – nell’arco di poco meno di un quarantennio – una ventina di traduzioni dal russo, di diverse delle quali si ebbero e ancora si sarebbero avute numerose ristampe. E – come ci accingiamo a vedere – quali traduzioni! Ma soprattutto, impressionano la sua passione per il mestiere, il puntiglio e la cura che dedicò ad ogni pagina. Spigolando tra le sue carte, gli esempi che si possono trovare sono innumerevoli, ma basterà citarne qui soltanto due, che paiono tra i più significativi.
Nel 1969, mentre stava per uscire la sua traduzione di Le dodici sedie di Il’f e Petrov presso la Nuova Italia, in una collana per ragazzi, fu informata da uno dei redattori della casa editrice, Francesco Golzio, che erano state apportate modifiche a «qualche brano a sfondo-erotico-sessuale», nel timore che potesse essere ostacolata l’adozione del libro nelle scuole. Gigliola, che pure già si era preoccupata di edulcorare alcuni riferimenti all’omosessualità e alla prostituzione, e se ne era giustificata con l’editore Tristano Codignola, sperando, diceva, «di non essere tacciata di ammuffito moralismo in quest’epoca di contestazioni globali», si indignò di questi «interventi censori». Era stata, denunciò, «tolta sistematicamente la parola “enteroclisma” o “clistere” (sostituita con “boccale”), là dove gli autori si beffavano del modo allora in auge di eseguire musica con strumenti non ortodossi», il che l’aveva indotta a ripristinare il suo testo e a scrivere a Codignola:
Non conosce, il vostro censore, lo sfrenato linguaggio e la scatenata fantasia dei ragazzi delle nostre medie? Sono abituati a ben altri zuccherini che non quelli ammanniti dai più che morigerati Il’f e Petrov, i quali hanno già dovuto tener conto della occhiuta e puritana censura sovietica» (UFN, Carteggi e saggi, cartella 2, Nuova Italia).
Qualche anno dopo, a proposito della traduzione di Cime abissali di Zinov’ev, che pubblicò da Adelphi nel 1977, scriveva al direttore editoriale Roberto Calasso:
pp. 120 e 158: nel testo russo viene un’usata una locuzione: obratnaja sviaz’ (letteralmente connessione di ritorno o di rimando) che penso attenga alla sociologia. Spero che lei conosca la corrispondente locuzione in italiano. Il testo francese se l’è cavata la prima volta con una, inesatta, information, la seconda volta saltandola a piè pari (malgrado venisse ripetuta due volte, nella stessa pagina). Ho interpellato al riguardo Bobbio, che suggerisce interrelazione. La mia amica matematica, Tina Rieser, mi fornisce topologia. La linguista Donatella Ferrari-Bravo consiglia reciprocità del legame. Ma nessuna di queste definizioni mi soddisfa appieno (UFN, Traduzioni 1972-1986, cartella 12).
Con questa acribia Gigliola Venturi sembra aver affrontato ogni pagina che ha tradotto. Le sue qualità di traduttrice sono ampiamente riconosciute da tutte o quasi le recensioni che ne commentarono il lavoro. Qui ci si limiterà a fornire alcune linee di inquadramento e alcune piste di ricerca in cui si è avuta la fortuna di imbattersi, con l’ambizione di tracciare soltanto un primo, rapido ritratto umano e intellettuale di una personalità che attende ancora di essere studiata come merita.
2. La «grande vacanza» della Resistenza
Se Gigliola fu una figura di assoluto rilievo del mondo della traduzione, la storia della sua vita è fatta di molti percorsi: ed è la storia di una vita ricca, straordinaria, intensa, anche tragica, come attesta la decisione assunta di porvi fine di propria volontà.
In tutte le sue traduzioni Gigliola si firmò Gigliola Venturi, cioè con il cognome del marito: e si trattò, come sembra di potersi desumere da quanto tra poco diremo, di una scelta voluta. Era nata però (a Roma, il 2 agosto 1917) Gigliola Spinelli, settima di nove figli, di cui ne sopravvissero otto. I fratelli avevano tutti nomi piuttosto bizzarri (Altiero, Veniero, Cerilo) mentre quelli delle sorelle, come il suo, richiamavano il mondo dei fiori: Azalea, Anemone, Asteria, Fiorella (Spinelli 1987, 11-24; De Luna 1995, 395 n. 66].
Il padre, Carlo Spinelli, era un personaggio abbastanza fuori del comune: di temperamento inquieto e ribelle, acceso anticlericale e con simpatie confuse per il socialismo, lavorò per il Regio ispettorato generale delle scuole italiane all’estero nello Stato di San Paolo in Brasile, prima ad Amparo e poi a Campinas, dove fu anche viceconsole reggente. Nel 1911 rientrò in Italia. Il figlio Altiero, che sarebbe diventato un protagonista della lotta antifascista e poi uno dei padri dell’unità europea, lo ricorda «per tutta la vita, commerciante, brasseur d’affaires, piccolo industriale – salvo il breve periodo consolare […] [Portava avanti] queste tre attività con altezzoso distacco, con sarcasmo verso sé stesso e verso gli altri, sognando sempre altro» (Spinelli 1987, 17). La madre, Maria Ricci, era stata maestra in Abruzzo e poi a Roma. Seguì il marito in Brasile, ma qualche anno dopo la fine della guerra il matrimonio, già in crisi da tempo, si ruppe definitivamente quando Carlo la lasciò per una donna molto più giovane. Nei ricordi di Altiero appare come prigioniera di un nugolo di malattie da lei consapevolmente usate per far desistere i figli dalla lotta antifascista, ma in realtà, quando i tre maschi finirono uno in galera e gli altri attivamente ricercati, mantenne «una ferrea determinazione a non perdere mai i contatti con i suoi ragazzi [ed a] seguirli anche lungo sentieri di cui non si condividono i presupposti ideologici e politici» (De Luna 1995, 195).
L’equilibrio di Gigliola fu messo a dura prova dalla tempestosa vita familiare. Ancora nel 1990 ce n’è traccia nei suoi versi: «La notte / invece / scatena l’angoscia / spalanca sotto i piedi vani pericoli. / Messaggio inconscio / forse / di un dolore lontano / bambino/ pedaggio che si paga/ più tardi / ad un’infanzia agra» (Venturi Spinelli 1991, 76). Non terminò il ginnasio e svolse lavori occasionali, come dattilografa e anche come infermiera, precludendosi però l’accesso al diploma in questa specializzazione perché decisa a non iscriversi al partito nazionale fascista, com’era d’obbligo. L’abbandono da parte del padre produsse in lei un duraturo rancore verso di lui, mentre rimase attaccatissima alla madre: ne risultarono compromessi, soprattutto dopo la morte di Maria Ricci nel 1950, anche i rapporti personali con i fratelli (Venturi 2018, Fofi 1993, 9). Scriverà Altiero molto tempo dopo nelle sue memorie: «Era stata fin da bambina la mia preferita fra le numerose sorelle, e considero una delle sconfitte della mia vita che qualche anno più tardi, nel tumulto del disfacimento finale della nostra famiglia, lei abbia scelto di non avere più relazioni con me» (Spinelli 1987, 405).
I contrasti con i fratelli non le avevano impedito, tuttavia, di impegnarsi come loro e accanto a loro nell’attività politica. Pare essere stata tra i primi divulgatori del manifesto federalista di Ventotene, che Altiero aveva redatto al confino nel 1941 insieme ad Eugenio Colorni e che fu proprio lei a portare sul continente (Viarengo 2014, 105; Galante Garrone 1991, 110); e pare certa la sua presenza, insieme ad Altiero e alla sorella Fiorella, alla riunione in casa Rollier in via Poerio a Milano, tra il 27 e il 29 agosto 1943, che sancì la fondazione del Movimento federalista europeo (Braga 2007, 241-242). Ma subito dopo tornò a Roma: Vindice Cavallera, uno dei fondatori di Giustizia e libertà che, arrestato nel 1935, aveva scontato otto anni di carcere, la incontrò il 9 settembre a Roma. Era stato annunciato l’armistizio, il re e il governo Badoglio erano scappati, le forze armate erano allo sbando, i tedeschi erano pronti a occupare l’Italia. Si ritrovarono su un camion, in un gruppo impegnato a procurarsi armi nelle caserme semi-abbandonate per organizzare la resistenza.
In via del Plebiscito un gruppo di carabinieri e di avieri ci ferma, riteniamo che siano dalla nostra parte […]. La verità è un’altra: ci puntano addosso le pistole e ci spingono verso il muro di Palazzo Venezia; Gigliola lasciata dapprima in disparte si scaglia contro di loro a pugni e sputi finché è in qualche modo immobilizzata (Dellavalle 1989, 175).
Nelle settimane successive la giovane Spinelli si spostò di nuovo avventurosamente da Roma a Torino: anche perché già nei “quarantacinque giorni” badogliani aveva conosciuto Franco Venturi e si erano innamorati. Nato nel 1914, Franco era figlio di Ada Scaccioni e di Lionello, insigne storico dell’arte. Nel 1932 Lionello Venturi si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e si era trasferito con la famiglia a Parigi, dove il giovane Franco aveva aderito al movimento antifascista di Giustizia e libertà, da poco fondato lì da Carlo Rosselli, collaborando attivamente alla sua stampa. Alla Sorbona cominciò anche le sue ricerche sull’illuminismo che, insieme allo studio sul populismo russo, ne avrebbero fatto uno dei maggiori storici italiani del Novecento. Dopo l’occupazione tedesca di Parigi, nel giugno del 1940, aveva cercato di raggiungere la famiglia, nel frattempo trasferitasi a New York, ma, arrestato in Spagna, vi era rimasto detenuto quasi un anno, per essere poi consegnato alle autorità italiane nel marzo del 1941, incarcerato a Torino e poi confinato ad Avigliano, in Lucania. Qui aveva incontrato, tra gli altri, Manlio Rossi Doria, e attraverso di lui era entrato in contatto con i fondatori del movimento federalista europeo, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Fu poi nelle riunioni del gruppo federalista nella capitale che conobbe la sua futura moglie.
Al Nord, a Torino ma anche a Milano, Gigliola Spinelli fu una protagonista straordinaria della lotta di liberazione, durante la quale combatté fianco a fianco con i militanti del Partito d’Azione, del quale però non prese mai la tessera (Venturi 2018): «se mai, si sentiva più vicina a Colorni che non ad altri, al suo idealistico socialismo» (Galante Garrone 1991, 110). I suoi contatti con il movimento federalista, molti dei principali esponenti del quale si erano spostati in Svizzera, proseguirono anche in questo periodo, tanto che l’Archivio di Stato del Canton Ticino di Bellinzona segnala il suo ingresso in Svizzera nel marzo del 1944, «minacciata da un mandato di cattura per aver partecipato all’evasione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat» dal carcere di Regina Coeli a Roma, il 24 gennaio (Braga 2007, 271 n.). La notizia è infondata, visto che nel marzo del 1944 Gigliola – da diverse testimonianze – risulta impegnata nella lotta clandestina a Torino , e può anche darsi che in questo caso sia confusa con la sorella Fiorella. Ma questo non fa che accentuare l’impressione che si ha della sua attività nella Resistenza come di quella di una specie di Primula rossa. Ancora a caldo, nel 1945, Leo Valiani ha scritto di Gigliola un ritratto felicissimo:
E’ una forza della natura. E’ anche sorella di Altiero, è la fidanzata di Franco e una delle mie corriere, ma tutto questo è accessorio, così come sono accessori il suo esuberante fisico bruno, il suo largo riso che suscita analogo riso in chi non è incartapecorito, e perfino la sua capacità, ignota ai più, di scrivere delicate e nostalgiche poesie […] Di chiunque altro si trattasse, sarebbe stato assurdo spingere a imprese pericolose la fidanzata del proprio migliore amico, ma con Gigliola sarebbe stato assurdo il non farlo […]. La assegnammo perciò alle nostre squadre armate (Valiani 1995, 188).
In effetti, gli atti per i quali Gigliola si segnala portano tutti l’impronta di un’audacia straordinaria. Il più famoso, forse, è quello ricordato da Ada Marchesini Gobetti nel suo Diario partigiano:
1° marzo [1944] Torino. Stamane, appena giunti a Torino, ecco Gigliola, raggiante, con una magnifica rivoltella d’ordinanza tedesca. Iersera, nel ristorante in cui pranzava con Franco, un ufficiale tedesco appese all’attaccapanni il mantello col cinturone e l’annessa rivoltella. Gigliola lo coprì col suo, poi, al momento andarsene, tolse la rivoltella dal fodero, se l’infilò nella borsetta, richiuse la busta e se ne andò tranquillamente. Le ho consigliato di non farsi più vedere in quel ristorante almeno per un po’ di giorni; ma è proprio questo il genere di lavoro a cui è adatta Gigliola col suo esuberante coraggio fisico e la sua monelleria da ragazzaccio (Gobetti Marchesini Prospero 1956, 85-86).
Una volta che occorreva d’urgenza del cuoio per fare scarpe per i partigiani, «entrò in un grande albergo di Torino frequentato da fascisti, si sedette in una delle poltrone di pelle dell’atrio e, senza parere, con una lametta da barba, ne tagliò via dei larghi pezzi coi quali se ne andò come e nulla fosse» (Alloisio-Beltrami, 181). Ancor più pericolosa fu l’azione condotta a Milano per liberare Lisetta Giua, la compagna di Vittorio Foa, che, incinta del primo figlio, era stata arrestata dalla Banda Koch. I tedeschi avevano ordinato che dalla famigerata Villa Triste fosse trasferita e detenuta in ospedale, e lì arrivò Gigliola – in divisa da crocerossina – affiancata da quattro gappisti travestiti da infermieri: ebbero ragione della blanda resistenza dei poliziotti di guardia e la fecero evadere insieme a un’altra compagna nelle sue condizioni. «Simile a questa ragazza vigorosa e intrepida, pronta al riso e alle furie, doveva essere apparsa nella fantasia di Virgilio e Dante la vergine Camilla», commenterà molti anni dopo il fratello Altiero che le aveva augurato buona fortuna prima dell’impresa (Spinelli 1987, 405; testimonianza di Gigliola Venturi in Alloisio, Capponi, Galassi Beria, Pastorino 1965, 186-192).
All’audacia e, si direbbe, al gusto del rischio si accompagnava il piacere della beffa. «Eravamo allegri», ricorderà Vittorio Foa agli amici raccolti per dare a Gigliola l’estremo saluto, nel 1991 (Galante Garrone 1991, 112); e un altro protagonista della Resistenza in Piemonte, Dante Livio Bianco, aveva scritto in una lettera del 1947: «Nella mia vita c’è stata una grande vacanza: ed è stato il partigianato, venti mesi di virile giovinezza, sradicato davvero, e staccato da ogni vecchia cosa» (De Luna 2007, XXXI). Una volta, con il marito Franco, Gigliola riuscì a stampare clandestinamente una perfetta imitazione del «Popolo di Alessandria», il più diffuso giornale repubblichino in Piemonte, con l’integrale riproduzione di un rapporto di polizia (autentico) sulla temibile consistenza ed efficacia delle forze partigiane: il giornale andò a ruba in poche ore. In un’altra occasione, mentre viaggiava da Milano a Torino con tre valige di stampa clandestina, visto salire a Chivasso un plotone di brigatisti neri, alla stazione di Porta Susa li pregò di trasportare loro quei pesanti «libri di studio» e riuscì a eludere il controllo dei bagagli che a volte la polizia effettuava nelle stazioni (Galante Garrone 1991, 111-12).
Questo atteggiamento spavaldo e irridente non era privo di autoironia. Nell’abitazione clandestina che condivideva con Franco in una soffitta di via Balbis a Torino, Gigliola svolgeva inevitabilmente lavori “donneschi”, come la rammendatura di mutande e calzini, per i quali non nascondeva la sua insofferenza: tanto che poco prima di lasciare il posto scrisse di sua mano una specie di giornale murale che figurava edito da un immaginario «Comitato di mutandazione nazionale» e lo affisse all’interno della porta. Ancora si divertiva, raccontando l’episodio al figlio, a immaginare che faccia avevano fatto i fascisti quando arrivarono a perquisire la stanza, fortunatamente dopo che era stata già abbandonata (Venturi 2018).
Con questa vena di sarcasmo irridente coesisteva però in lei una sensibilità delicata, che trovava modo di riflettersi nelle poesie evocate da Valiani. Ce n’è una, in particolare, certo scritta o almeno riscritta dopo, che ha comprensibilmente colpito Alessandro Galante Garrone e che porta due date significative: «Torino, 1990 (settembre 1943)»:
Torino dei vent’anni.
Mi lasciavo impregnare
dalla città
da te
dall’amore.
Tutto aveva un sapore speciale
da vigilia
di quella data fatale.
Dopo quel settembre
cominciò una nuova vita
ammaliante
stregata
di membra avvinghiate
di passione
di morte
di lotta.
La città respirava a fatica.
Il morbo dell’odio avvelenava l’aria
le strade.
Ma nella misera stanza l’amore trionfava
luccicava
prezioso
negli occhi.
Dava colori alla città smarrita.
Nutriva.
Il corso
la corsa
della giornata era per giungere alla sera
per ritrovarsi
per stare accanto la notte intera.
La città
viveva
nascosta nelle nostre vene (Venturi Spinelli 1991, 118)
Poi venne la Liberazione, finì «il tempo del furore» (Bobbio 1999], e Gigliola Venturi (che tale ufficialmente diventò quando la vicesindaco Ada Gobetti la sposò con Franco in Comune il 15 settembre 1945) si dedicò anima e corpo ad un’altra iniziativa, l’assistenza all’infanzia: sino alla fine dei suoi anni i bambini ebbero una parte importantissima nella sua vita, come ricorda bene chi l’ha conosciuta e ha goduto della sua vena di amica complice e scherzosa. Nella Torino semidistrutta dai bombardamenti, con Carmelina Piccolis, che con lei aveva condiviso l’epopea della lotta partigiana in città, mise in piedi un asilo per bambini lasciati orfani o privi di mezzi dalla tragedia della guerra. Ci si impegnò a fondo, come in tutte le cose che faceva. C’è traccia di questo impegno in una sua lettera del 15 settembre 1945 a Ernesto Rossi, che era stato nominato sottocommissario alla ricostruzione nel governo Parri. Val la pena di riportarla con ampiezza.
Carissimo Ernesto, come va la vita? Per non costringerti a guardare precipitosamente la firma ti dico che sono Gigliola, la “terribile Gigliola” che spero non avrai già dimenticato. Qui a Torino mi sto occupando della formazione di nidi per bambini, nidi che dovrebbero avere lo scopo non solo di raccogliere i fanciulletti fino all’età di sei anni, ma specialmente di lasciare alle donne la possibilità di occuparsi dei casi loro senza il perpetuo assillo dei figli. Non so se tu credi all’esistenza di una “problema della donna” o se da bravo antifemminista pensi che nessun problema possano avere quei poveri esseri quasi inutili perché quasi sprovvisti di cervello, eccetera ecc. Per conto mio penso che i problemi siano molti più di uno, ma che il primo, l’essenziale appunto, sia di dare loro un po’ di tempo libero per occuparsi del loro sviluppo in tutti i campi. E perciò nella tua veste di sottocommissario della ricostruzione e di insigne economista ti chiedo un consiglio: non si potrebbe in qualche modo, ora che si tratta in Italia di ricostruire migliaia di case – incrementare in esse la costruzione di nidi? Si tratterebbe in fondo di stabilire che – come in ogni stabile è obbligatorio adibire dei locali a lavanderia o a scantinato – un locale a pianterreno deve essere usato per raccogliere i bambini del casamento. Naturalmente all’assistenza potrebbe pensarci l’Opera Maternità e Infanzia o qualche istituto del genere (fotocopia in Archivio Gigliola Venturi).
Non sappiamo se Ernesto Rossi abbia risposto a questa lettera, mentre possiamo presumere che il progetto di Gigliola, salvo forse qualche fortunata eccezione di quartiere, sia rimasto lettera morta. Del resto, la vita dei coniugi Venturi conobbe non molti mesi dopo una svolta che avrebbe lasciato in entrambi un segno profondo.
3. La scoperta della Russia
Già nell’estate del 1946, finita l’esperienza del Partito d’azione e chiuso il suo quotidiano torinese «GL», dove aveva lavorato, si poneva per Franco Venturi il problema di una nuova collocazione lavorativa. E l’occasione arrivò qualche mese dopo, con la proposta di Manlio Brosio, già membro del CLN piemontese per il Partito liberale e ora in procinto di diventare ambasciatore a Mosca, di seguirlo in qualità di addetto culturale. Franco accettò.
«L’aereo che, nel maggio del 1947, dall’Italia, via Stoccolma, recava a Mosca Franco e Gigliola Venturi – ha scritto il biografo del primo – portava […] due giovani entusiasti alla scoperta di un mondo, quello del comunismo realizzato, al quale essi guardavano con infinita curiosità e attesa» (Viarengo 2014, 156). In effetti, per quanto né l’uno né l’altra fossero stati mai sedotti dal comunismo nel corso della lotta antifascista, l’esperienza sovietica della costruzione di un mondo nuovo esercitava su di loro un certo fascino, e nel primo periodo del loro soggiorno a Mosca vi guardarono con occhio scevro da pregiudizi.
Se Franco sapeva un po’ di russo, Gigliola non ne conosceva neanche una parola. Si può immaginare quali fossero le difficoltà: un paese chiuso agli stranieri e in cui ancora di più, incipiente ormai la guerra fredda, era un’impresa parlare con le persone comuni. La scelta fu quella di mettersi a studiare la lingua con continuità e sistematicità, e insieme di cercare di approfittare di ogni occasione possibile per avere contatti con la gente. Gigliola si innamorò della Russia, soprattutto della Russia profonda, contadina. Si innamorò della sua lingua, ridondante, immaginifica, e non a caso cominciò ad appassionarvisi con la lettura e poi la traduzione delle fiabe.
Il soggiorno in Russia non durò moltissimo: tre anni dopo i coniugi Venturi erano di ritorno in Italia, a Torino, che era ormai la loro città. Dopo altri tre anni nacque il loro unico figlio, Antonello. Franco, che a Mosca aveva raccolto il materiale per uno studio ineguagliato sulla storia del populismo russo, intraprese la carriera universitaria, insegnando, prima di essere chiamato a Torino, a Genova e a Cagliari. Divenne uno dei più importanti consulenti della casa editrice Einaudi, partecipando con assiduità alle famose riunioni del mercoledì.
Gigliola cominciò a mettere a frutto la sua esperienza e iniziò la sua attività di traduttrice, collaborando in particolare con la Einaudi. Firmò già nel 1952 con la casa editrice torinese un contratto per la traduzione del libro di Michail Bogoslovskij, La gioventù di Pietro il grande. Del libro Franco aveva accettato nel 1950 di proporre un’edizione ridotta, come risulta dalle bozze complete presenti nel suo archivio, ma mai pubblicata (Archivio Gigliola Venturi; Archivio Einaudi, fasc. 3041). Nel 1953 Einaudi pubblicò invece la traduzione delle Antiche fiabe russe raccolte da Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev. Il libro era introdotto da una prefazione di Franco Venturi, che inquadrava mirabilmente la figura dell’autore, un funzionario dell’Archivio centrale del ministero degli Esteri zarista che fra il 1855 e il 1864 aveva raccolto per la prima volta, «in una versione fedele e vivace, quelle favole che per secoli avevano accompagnato la vita dei contadini, che le balie avevano raccontato ai figli dei signori, che erano state stampate talvolta su fogli volanti che i mužiki si erano comperati al mercato» (Venturi 1953, VIII).
La scelta di tradurre quelle fiabe esprimeva la simpatia profonda di Gigliola per il mondo contadino russo: un mondo che, avrebbe scritto qualche anno dopo nella nota introduttiva a un altro libro da lei tradotto, quello di Vladimir Jakovlevič Propp sui Canti popolari russi, «apparentemente chiuso in una rattenutezza, un contegno, un moralismo tutti contadini, gode invece di una straordinaria libertà interna» (Venturi Spinelli 1966, XIV).
Questo atteggiamento di simpatia, da cui pare emergere, è stato osservato, «forse anche un suo personale sentimento di fiera gratitudine per i suoi antenati, contadini abruzzesi» (Galante Garrone 1991, 123), è probabilmente anche la ragione per cui fu coinvolta in un’altra operazione editoriale di Einaudi: la pubblicazione, nel 1959, dei Quaderni di San Gersolè, nella quale è anche visibile il suo interesse sempre vivissimo per il mondo dell’infanzia. Nell’uno come nell’altro caso il suo diretto interlocutore, dentro la casa editrice, fu Italo Calvino. I quaderni e i disegni dei bambini della scuola elementare di San Gersolè, in Val d’Orcia, erano stati raccolti dalla loro maestra, Maria Maltoni, fin dagli anni trenta, ed erano stati oggetto di attenzione da parte di un ispettore scolastico del regime, impegnato nell’attività dell’Ente Nazionale di Cultura di Firenze presieduto da Ernesto Codignola, che operò fin dal 1928 nelle scuole di campagna e di montagna dell’Emilia, della Romagna e della Toscana. Non sgradita al regime per l’aura di ruralismo e di «sanità morale di schietta cristianità» che la circondava, l’esperienza di Maria Maltoni portava in realtà l’impronta di una pedagogia alternativa, «rivolta, più che all’istruzione, all’educazione nel bambino del carattere e dei tratti dell’adulto di domani [e] appariva portatrice di un segno di libertà e di impegno civile» (Scattigno 1985, 20). E infatti attrasse l’attenzione, dopo la Liberazione, del mondo toscano del Partito d’azione, a cui la maestra Maltoni, che era stata anche partigiana, aveva aderito.
Era un’esperienza di cui probabilmente Gigliola era venuta a conoscenza frequentando – come si vedrà – quel mondo della pedagogia progressista che aveva avuto una parte importante nel sostenere l’attività di Danilo Dolci tra i contadini siciliani: fu in quell’ambito che conobbe personalmente Maria Maltoni e fu affascinata dalla freschezza e dall’originalità dell’esperimento di San Gersolè. A quel punto – si era nel 1959 – la casa editrice Einaudi, che aveva già firmato un contratto per la pubblicazione di una scelta di quei materiali «una decina d’anni prima», si convinse che proprio Gigliola Venturi era la persona più adatta a riprendere i contatti con la maestra toscana. Dalla collaborazione nacque una calorosa amicizia, documentata da un fitto carteggio tra il 1959 e il 1964 (UFN, Carteggi e saggi, fasc. 2, I quaderni di San Gersolè 1959-1968, corrispondenza Gigliola Venturi con Maria Maltoni). Uscirono così due volumi, entrambi «a cura di Maria Maltoni, con la collaborazione di Gigliola Venturi». Il primo, I quaderni di San Gersolè, riproduceva soprattutto le pagine scritte dai bambini, e fu pubblicato nel 1959 con una prefazione di Italo Calvino, che in verità Maria Maltoni confessò a Gigliola di non aver apprezzato, reputandola «poco comprensiva del vero carattere dei ragazzi » (ivi, fasc. 4). Il secondo, che uscì nel 1963 con il titolo Il libro della natura, conteneva una scelta dei loro disegni di piante, fiori e piccoli animali, e fu seguito passo passo dalla sola Gigliola, suscitando l’entusiasmo della maestra: «Carissima signora ed amica – le scrisse il 9 dicembre 1963 – bello, bello, bello, direi perfetto». Entrambi i volumi ebbero diverse ristampe. Ancora nel 1989 Gigliola Venturi si mise il contatto con il Fondo Maria Maltoni proponendo di pubblicare – con il titolo Il libro dei libri – anche un nuovo volume di disegni, il cui menabò era pronto dal 1964, ma l’iniziativa non ebbe seguito (UFN, Carteggi e saggi, Scuola San Gersolè 1989-1991).
Il caso dei quaderni di San Gersolè è solo un esempio della instancabile iniziativa che Gigliola Venturi mostrò, per tutta la durata della sua vita, nel campo del lavoro editoriale. Tra la fine degli anni cinquanta e la fine degli anni ottanta arrivarono spessissimo sue proposte e sollecitazioni a diversi editori. Era evidentemente un aspetto della sua attività a cui teneva parecchio, perché ne ha conservato una documentazione molto dettagliata e ben organizzata, che rappresenta una fonte di grande interesse e da esplorare in dettaglio: questo ricco archivio è consultabile, anche se non ancora ordinato, nella sede dell’Unione Nazionale Femminile a Milano. Frugandovi, si possono trovare una serie di proposte, indirizzate alla Nuova Italia, di traduzioni dal russo per la collana per ragazzi «Primo scaffale». Non meno interessante è la segnalazione, contenuta in una lettera del 1970 a Inge Feltrinelli, di una serie di titoli che avrebbero dovuto figurare in una «raccolta di novelle» di autori sovietici contemporanei da lei proposta: vi compaiono – in altrettante precise schede informative – i nomi di Vasil’ Bykov, Fëdor Abramov, Natalija Baranskaja, B. Zolotarev, Pavel Nilin, Vladimir Tendrjakov, Nikolaj Dubov (UFN, Carteggi e saggi, cartella 10, Feltrinelli). Si trattava di racconti che per lo più rappresentavano la vita quotidiana sovietica e la storia di persone comuni, «vietandosi con coraggioso puntiglio – come veniva detto di Bykov – di accondiscendere alla retorica del regime» (UFN, Saggi e carteggi, cartella 2, Nuova Italia). Soltanto il racconto della Baranskaja, Nadelja Kak Nedelja, venne pubblicato, diversi anni dopo, dagli Editori riuniti, nella traduzione di Gianna Carullo. Anche la maggior parte dei racconti e romanzi di Jurij Trifonov – un autore che sarebbe stato molto apprezzato dal pubblico italiano – segnalati in quella stessa lettera a Feltrinelli del 1970, vennero tradotti sì, ma da altri editori: l’ultimo, pubblicato postumo, lo affidarono come si vedrà proprio a lei gli stessi Editori riuniti. Fra gli autori ricordati pare esserle stato particolarmente a cuore Vasil’ Bykov, e soprattutto il suo lungo racconto Il ponte sulla Krugljanka, che toccava evidentemente una corda autobiografica, visto che nella scheda lo descriveva come «un quadro realistico e non di urtante esaltazione della vita partigiana, che riporta vivamente alla memoria una esperienza non soltanto russa, ma comune a tutti coloro che, anche in Italia, hanno partecipato alla Resistenza».
Nel 1971 discusse anche con l’editore Garzanti di possibili traduzioni dal russo. Propose Andrej Amal’rik, che sarebbe diventato famoso per il suo Prosuščestvuet li Sovetskij Sojuz do 1984 goda? (Amsterdam, Fond imeni Gercena, 1970, pubblicato in Italia dalla romana Coines nella traduzione di Caterina Darin nel 1970 col titolo Sopravviverà l’Unione sovietica fino al 1984?). Di Amal’rik era infatti uscita l’anno prima da Gallimard la traduzione francese, di Hélène Châtelain, di Neželannoe putešestvie v Sibir (Viaggio indesiderato in Siberia), che all’editore non interessò. Con Garzanti Gigliola firmò invece, il 16 novembre, un contratto per la traduzione del lungo racconto di Bulat Okudžava Bud’ zdorov’ skoljar (Stammi bene, studentello), che per ragioni ignote (forse una questione di diritti, come accadeva spesso per le opere sovietiche) non vide mai la luce (UFN, Carteggi e saggi, cartella 8, Garzanti).
Dal 1974 entrò in stretto contatto con Adelphi, dove conosceva bene Luciano Foà, che quando lavorava all’Einaudi era stato il suo principale interlocutore per la traduzione di Saltykov Ščedrin. Alla casa editrice milanese suggerì subito (UFN, Carteggi e saggi, cartella 7, Carteggio G. Venturi – L. Foà 1974-1990) di tradurre i romanzi storici di Juryi Tynjanov, uno dei massimi esponenti della scuola formalista, di cui in Italia erano apparse fino a quel momento – eccezion fatta per Il Vazir-Muchtar, sulla vita di Aleksandr Griboedov, tradotto da Giuliana Raspi per Silva di Milano nel 1961 – soprattutto i lavori teorici. Segnalava soprattutto Kjuchlija, la biografia di Vil’gel Karlovič Kjuchel’beker, compagno di liceo e amico di Puškin, che fu condannato a quindici anni di fortezza per la sua partecipazione alla congiura dei decabristi: si scorge anche qui, come vedremo per altri casi, una corrispondenza con le ricerche storiche del marito Franco, che ai decabristi aveva rivolto il suo interesse pubblicando nel 1956 da Einaudi Il moto decabrista e i fratelli Poggio. Kjuchlija sarebbe stato pubblicato in Italia solo molto più tardi (Metauro, Pesaro 2004, traduzione di Agnese Accattoli).
A Luciano Foà piacque invece l’idea di tradurre, di Tynjanov, il romanzo Voskovaja persona (Persona di cera): testo difficile, incentrato, come scriverà Cesare De Michelis, su «una situazione paradossale e fortemente metaforica» (De Michelis 1986) in cui Tynianov trasforma la statua di cera di Pietro il Grande, realizzata da Bartolomeo Rastrelli dopo la sua morte, in un automa grottesco, con tanto di struttura in legno e fili di ferro, che vive una sua vita autonoma mentre l’imperatrice Caterina fa tenere per quaranta giorni aperta la bara in cui giace lo zar imbalsamato. Scritto nel 1931, il romanzo non poteva non evocare il mausoleo di Lenin nel frattempo eretto sulla Piazza rossa, e ovviamente non guadagnò al suo autore il favore del regime. La traduzione di Gigliola fu portata a termine probabilmente tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta: 165 cartelle dattiloscritte, corredate di note storiche esplicative per le prime 57, che sono conservate nell’archivio della UFN. Dalla corrispondenza con Foà emerge che alla traduttrice venne richiesta una revisione, che fu incominciata ma non finita: ancora nel 1985, come dimostra la corrispondenza con Viktor Zaslavsky che citeremo più avanti, vi si stava cimentando, arrovellandosi in particolare sul titolo, che per lei era «Il personaggio di cera». Alla fine il libro non uscì da Adelphi: nel 1986 fu pubblicato invece dagli Editori riuniti, tradotto da Igor Sibaldi e con una sua introduzione.
Le proposte di Gigliola Venturi, peraltro, non riguardavano soltanto traduzioni dal russo: particolarmente a cuore, per esempio, le stavano le poesie di Katherine Mansfield, che aveva tradotto dall’edizione inglese del 1923, e la cui versione in italiano è interamente conservata nel suo archivio. Le propose nel 1962 tramite Leo Valiani al Saggiatore per la collana «Le Silerchie», ma Il Saggiatore la rinviò a Mondadori, tuttavia senza successo, «sebbene – le rispose Alberto Tenenti – le sue traduzioni siano state considerate dai nostri consulenti il frutto di un raffinato gusto letterario» (UFN, Traduzioni 1987-1991, cartella 17). Si scoprono nel suo archivio, da lei tradotte dal francese, anche 77 poesie vietnamite e due pièces di Henri Galy Carles, L’événement e Les visiteurs, che non risultano essere state pubblicate né oggetto di trattative con editori (UFN, Traduzioni 1987-1991, cartelle 18 e 19).
4. «Bisogna aiutare, fare qualcosa»: l’Associazione per l’iniziativa sociale
L’attività di Gigliola Venturi è lontana, negli anni cinquanta, dall’essere racchiusa nell’impegno di traduttrice e consulente editoriale. A partire dall’autunno del 1953 iniziò un suo rapporto strettissimo con Danilo Dolci, che si protrasse per almeno sei anni, e che è documentato da un archivio di straordinario interesse.
Danilo Dolci, sociologo e architetto triestino allora non ancora trentenne, dopo una prima esperienza come educatore a Nomadelfia con Don Zeno Saltini, si era impegnato dal 1952 nel riscatto di una delle zone più depresse d’Italia, l’area dei comuni che si affacciano sul Golfo di Castellammare, vicino a Palermo. Tra le prime iniziative vi fu quella della fondazione a Trappeto, presso Palermo, del «Borgo di Dio», con la costruzione di un asilo per trenta bambini e l’istituzione di una «università popolare». La sua opera instancabile di intervento sociale per il riscatto delle comunità locali dalle condizioni di miseria continuò negli anni seguenti, ispirandosi ai principi della “non-violenza attiva” (con digiuni, “scioperi alla rovescia”, inchieste sul territorio) e lo sviluppo della cooperazione e della solidarietà, attraverso la ricerca di un dialogo costante con la società locale (Dolci 1954). Quando il 2 febbraio 1956 Danilo Dolci, messosi a dissodare con alcuni sindacalisti e braccianti delle terre incolte di proprietari latifondisti a Partinico, fu arrestato con altre diciannove persone, e processato per direttissima, il suo caso ebbe un’ampia risonanza nazionale e poi anche internazionale. Benché assolti dalle imputazioni più gravi e vistesi riconosciute le attenuanti del «particolare valore morale» delle loro azioni, gli accusati – difesi tra gli altri da Piero Calamandrei, che in quell’occasione evocò «il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire» – furono condannati a 50 giorni di carcere, che scontarono all’Ucciardone. Il processo ebbe vasta eco anche al di fuori dell’Italia, mobilitando celebri intellettuali in suo appoggio (da Sartre a Galtung a Myrdal) e portando alla formazione di comitati di sostegno della sua azione in molti paesi, soprattutto del Nord Europa (Battaglia et al. 1956; Fontanelli 1984; Casarrubea 2014).
Ben prima di allora Gigliola Venturi era stata molto colpita dall’esperienza di Borgo di Dio: come si è detto, già dalla fine del 1953 entrò in corrispondenza con Dolci, e diede vita a Torino a un Comitato Amici di Trappeto, presieduto da Angiolina Peretti Griva, moglie del magistrato Domenico Riccardo Peretti Griva che aveva fatto parte del CLN piemontese. L’appello che ne annunciava la nascita, quasi certamente redatto da Gigliola, era eloquente.
Trappeto è un nome che da qualche tempo risuona al nostro orecchio, ma ancora più risuona nel nostro cuore: bambini morti di fame, fogne scoperte, ragazzi nudi, pane – solo pane (e ce ne fosse tutti i giorni!) come unico nutrimento, odio, assassinî, banditismo che nascono dalla miseria. Trappeto: dal cuore si sale alla coscienza; è un tarlo sordo che rode ogni minuto; bisogna aiutare, fare qualcosa. C’è un uomo che in quel paese ha deciso di dare la sua vita perché questo stato di cose finisca [….]. Noi madri, donne che abbiamo voluto fondare il Comitato Amici di Trappeto, ci rivolgiamo a tutti i generosi perché aiutino Danilo Dolci a risollevare quel paese e quegli uomini a un livello di dignità umana (AIS, busta VIII, 1).
Le firme apposte a questo appello erano quelle delle donne facenti parte del Comitato, la cui composizione, interamente femminile, era assai significativa. Oltre alla presidente e a Gigliola Venturi ne facevano parte – indicate tutte, quando non erano nubili, con il loro nome da sposate, come si usava allora – Nini Agosti, Barbara Allason, Valeria Bobbio, Olga Böhm, Giovanna Carrara, Clara Castelnuovo, Maria Teresa Galante Garrone, Giulia Greco, Anna Montel, Lidia Palomba, Carla Penati, Anita Rho, Tina Rieser, Nanni Vasari. Erano tutti o quasi cognomi ben noti nell’antifascismo torinese di matrice giellista e azionista; e del resto Gigliola stessa scriveva tre anni dopo, a proposito della rete nazionale dei comitati: «Danilo […] dice che i simpatizzanti sono in prevalenza professori, studenti, medici, e qualche operaio (insomma, il vecchio, ineffabile p.d’a.)» (AIS, Busta II, 13, peretti_angelina, 113).
Nel marzo del 1954 Dolci venne a Torino e la sua causa fu sposata dal quotidiano «La Stampa», il cui direttore Giulio De Benedetti accettò di raccogliere le offerte di una sottoscrizione promossa dal Comitato torinese (Agosti 2005, 29). Gigliola si prodigò instancabilmente: si recò lei stessa più volte in Sicilia condividendo l’esperienza dei volontari, ma soprattutto fu il vero motore dell’intera attività dei comitati locali, che facevano capo a un Comitato nazionale di solidarietà con Danilo Dolci, con sede a Roma. Il solo comitato torinese raccolse dal marzo del 1954 al maggio del 1955 complessivamente 1.042.000 lire (pari a circa 15.600 euro odierni), e fu infaticabile nell’assicurare la massima assistenza a Dolci in tutte le sue vicende giudiziarie (AIS, Busta VIII, 4).
Nel marzo 1957 nacque l’Associazione per l’iniziativa sociale (AIS), che raggruppava all’inizio circa 300 soci, con sedi a Roma, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Parma, Padova, Arezzo, Siena, Alassio e Genova. Il suo centro effettivo era a Torino (il timbro portava l’indirizzo dell’abitazione dei Venturi) e Gigliola ne fu la segretaria e la vera e propria anima, redigendo anche un bollettino mensile fino alla fine del 1959 quando, per le ragioni che vedremo, il rapporto con Dolci si esaurì. Stabilì così una rete di fitti rapporti con un mondo per lei nuovo. Tra questi, il più rivelatore del suo carattere generoso ed entusiasta è forse quello con Goffredo Fofi, che a 18 anni, appena diplomato maestro, era stato tra i primi a raggiungere Dolci a Partinico. Nacque tra lui e Gigliola un’amicizia intensa, e in particolare tra il 1957 e il 1958 si scrissero quasi quotidianamente: fu quasi un’adozione a distanza di Goffredo, che stava prima a Palermo nella poverissima abitazione di Cortile Cascino, poi a Roma, dove frequentò la scuola di assistenza sociale del CEPAS di Angela Zucconi, con una borsa di studio di Adriano Olivetti che aveva ottenuto proprio tramite Gigliola Venturi e l’AIS. Fofi riceveva anche, dall’AIS di Torino, un assegno mensile di 10.000 lire, e attraverso Gigliola vestiti e scarpe usati, con consigli e raccomandazioni incessanti. Il 6 marzo 1958, per esempio, Gigliola scriveva: «Ti curi? Mangi? Hai finito i ricostituenti? Debbo fartene mandare altri? Mandami a dire quanto pesi. Non ti capitinizzare troppo» (il riferimento era ad Aldo Capitini, il filosofo della non violenza, che aveva subito abbracciato la causa di Danilo Dolci); e il 24 ottobre dello stesso anno Goffredo per l’ennesima volta la ringraziava «per quello che continui a fare per me. Sei il mio angelo custode (e di tanta altra gente!)» (AIS, Busta XXIX, 202 e 193).
In effetti, sempre tramite Gigliola anche altri giovani, soprattutto torinesi, si erano impegnati con passione a fianco di Dolci, con il quale avevano stabilito un rapporto anche attraverso la comunità valdese di Agape e il pastore Tullio Vinay. Tra i nomi di questi ragazzi non ancora ventenni spiccano quelli di Vittorio Rieser, Giovanni Mottura e Emilio Soave, che sarebbero poi stati tra i fondatori dei «Quaderni rossi» a Torino. Ricorda Rieser a proposito dell’inchiesta che Dolci aveva promosso a Palermo nel 1956, e che coinvolse soprattutto Giovanni Mottura:
L’impostazione ci lascia subito un po’ perplessi: ad esempio, la domanda «Dio vuole che tu sia disoccupato?» crea imbarazzo sia in noi che la dobbiamo porre, sia in molti dei nostri interlocutori, che non ne capiscono il senso. Ma Danilo sostiene che è quella a cui sono state date «alcune delle più belle risposte» – e questo rivela il criterio che influirà anche sulla presentazione dei risultati: selezionare le risposte “più belle” letterariamente, più che analizzare/organizzare le risposte in modo da costruire un’analisi di come era vissuto il problema della disoccupazione (tema centrale dell’inchiesta) (Rieser 2014).
Anche da questi accenni emerge che la collaborazione con Dolci di chi pure aveva sentito l’enorme fascino della sua esperienza e della sua testimonianza non fu facile. Emersero abbastanza presto differenze d’impostazione nel metodo di lavoro. L’AIS espresse il timore che l’estendersi del lavoro di Dolci in sempre nuove zone della Sicilia occidentale «andasse a scapito della profondità e della continuità del lavoro già impiantato in modo strettamente commisurato alle forze disponibili»: «spesso vedevamo interrompere l’opera già intrapresa con la popolazione di una determinata zona, per iniziarne una nuova, lasciando così deluse speranze ed energie suscitate tra la gente del luogo» (AIS, Busta XIII, 3). Gigliola aveva scritto personalmente a Danilo una lunghissima lettera già il 2 aprile del 1956, in cui criticava fra l’altro la decisione di aver spostato le iniziative di Borgo di Dio da Trappeto a Partinico, che Dolci considerava «la trincea dove più dura e fervida è la battaglia». E così gli si rivolgeva: «Tu Danilo, sei il contadino che va avanti con l’aratro, e spezza la terra, e butta il grano. Perché la spiga cresca ci vuole dietro di te una schiera di lavoratori che con la zappetta riportino la terra su ogni seme. Senza questa collaborazione arare e seminare non servirebbe a niente – e viceversa» (AIS, Busta XXI, 5). E gli rimproverava di non responsabilizzare adeguatamente i suoi collaboratori. Queste critiche si ripeterono quasi immutate negli anni seguenti, seppure sempre espresse in forma affettuosa e costruttiva.
Nel frattempo, un altro episodio aveva creato qualche tensione. Alla fine del 1957, Danilo Dolci era stato insignito del premio Lenin per la pace, conferitogli dai sovietici. Benché le sue dichiarazioni avessero subito reso chiaro che l’accettazione del premio – destinato nelle sue intenzioni all’istituzione di un centro di studio e di iniziativa per la piena occupazione nella zona di Partinico – non implicava alcuna scelta di campo da parte sua, il fronte che lo sosteneva in Italia, di ispirazione laica e progressista ma nettamente anticomunista o almeno antisovietica, reagì con preoccupazione. In una lettera del 19 gennaio 1958 a Danilo, scritta subito dopo essere venuta a conoscenza della sua «chiacchierata» a Palermo nella sede dei Partigiani della pace, Gigliola Venturi gli esprimeva il timore che potesse diventare – anche inconsapevolmente – un “compagno di viaggio” dei comunisti:«Tu che sempre mediti sulle parole che scrivi, sei sicuro di aver ben ponderato il significato politico della manifestazione? Io vi scorgo una polemica decisa a favore di un blocco, non una obiettiva considerazione di dati di fatto».
E si lanciava in una vera e propria filippica in cui riecheggiavano tutti i temi della polemica antisovietica condotta in quegli anni dalla “terza forza”:
Non credi che sarebbe buona propaganda chiedere che quei quattrini vadano per i quartieri miserabili di Mosca (potrai farteli mostrare quando ci andrai) – così come è giusto che tu chieda non che i missili non vengano “basati” in Italia o altrove in Europa occidentale, per far comodo a Kruscev, ma che non si fabbrichino affatto e che i soldi vadano per i quartieri negri a New York e per i miserabili di tutto il mondo? (AIS, Busta XXII, 68).
Nei toni accesamente polemici di Gigliola, insoliti nella sua corrispondenza con Dolci, si avvertiva l’indignazione ancora viva per la repressione – che infatti veniva citata – della rivolta antisovietica in Ungheria poco più di un anno prima; ma forse anche il riflesso della fine definitiva di un’illusione, quella che aveva nutrito nella possibile evoluzione dell’Unione sovietica. Chi ha studiato la biografia di Franco Venturi ha sottolineato quanto dopo il XX Congresso del Pcus si fossero riaccese in lui le speranze in un possibile anche se tormentato «sbocco liberale della rivoluzioni socialiste degli ultimi cinquant’anni», e quanto le drammatiche vicende ungheresi dell’ottobre novembre 1956 le avessero brutalmente stroncate (Viarengo 2014, 224-227]: non vi è ragione di dubitare che anche sua moglie abbia condiviso questi sentimenti.
Accedendo alla richiesta di Gigliola, Dolci non diffuse il testo del suo intervento a Palermo. Dopo una franca spiegazione tra i due l’episodio apparentemente si chiuse lì, e riprese l’intensa collaborazione tra Dolci e l’AIS, che lo assistette anche con il solito impegno in un nuovo processo in cui comparve imputato. Tuttavia l’accresciuta notorietà internazionale che il premio Lenin gli aveva guadagnato indusse Dolci ad accentuare i caratteri della sua azione, imperniata sulla centralità del proprio ruolo di testimone, che anche inconsapevolmente si traduceva in insufficiente attenzione ai problemi organizzativi concreti: proprio ciò che già aveva creato delle crepe nei rapporti con l’AIS.
Nel dicembre del 1958 le critiche che gli venivano da tempo formulate in sordina, sia dai collaboratori diretti sia dai sostenitori esterni soprattutto in telefonate e scambi epistolari privati, assunsero la forma di una presa di posizione della intera AIS. Gigliola la inviò a Dolci, accompagnandola con una propria lettera personale: la lettera – firmata dai comitati di Roma, Milano, Genova e Torino – reiterava le critiche di non portare a termine le imprese iniziate, di non gestire adeguatamente i rapporti con i volontari, di dare ai collaboratori e ai sostenitori informazioni «sovente troppo vaghe, incomplete e imprecise». Il nocciolo delle accuse era questo: «Tu tendi a non prendere in considerazione le critiche dei tuoi collaboratori lontani e vicini; ché se poi il loro intervento diventa più pressante, è capitato spesso che tu, invece di discutere a fondo, accettando le conseguenze della discussione hai – indirettamente e sia pure tuo malgrado – indotto a staccarsi dal tuo raggio d’azione più stretto coloro che […] avevano espresso giudizi critici» (AIS, Busta XXI, 6, lettera di Gigliola a Danilo del 16 dicembre 1958).
L’11 gennaio 1959 l’AIS, che non aveva fino ad allora una veste giuridica, sì costituì formalmente in associazione davanti al notaio torinese Leopoldo Bertolé: lo scopo sociale era «lo studio e la realizzazione di progetti di sviluppo sociale ed economico delle aree depresse del mezzogiorno d’Italia sollecitando l’iniziativa e le risorse locali» (AIS, Busta XIV,1), una formulazione in cui era implicita la possibilità di un una specie di divorzio consensuale da Dolci. E in effetti, nel corso dell’anno, si consumò la rottura fra l’AIS e il Centro studio e iniziative per la piena occupazione, in cui Dolci aveva cercato di conglobare i comitati di sostegno alle sue iniziative, sia italiani che esteri. Anche un gruppo dei suoi più stretti collaboratori, ai quali era stata affidata la sezione «lavoro sociale» del nuovo ente (tra gli altri Alberto L’Abate, Gisella di Juvalta, Goffredo Fofi e Giovanni Mottura), si riconobbero nella posizione critica dell’AIS, che così la sintetizzava nel suo bollettino n. 16 del novembre-dicembre 1959: «Pur apprezzando la grande virtù di Danilo Dolci, che è quella di denunciare i problemi e di agitarli con grande impegno e proprio sacrificio, attirando così l’attenzione nazionale e internazionale, l’AIS si è andata sempre più convincendo, nel corso degli anni, che la denuncia è utile solo se accompagnata da un’opera costruttiva e continuativa» (AIS, Busta V, 4).
In una riunione congiunta dei suoi comitati locali, svoltasi a Roma il 4 dicembre, l’AIS confermava la sua fiducia nella segretaria Gigliola Venturi, decideva di cessare l’attività a Partinico e approvava la continuazione del proprio lavoro in un’altra località da stabilire. Questa località fu poi individuata, nel corso di un viaggio in Calabria che ebbe luogo nel febbraio 1960 e a cui – con Fofi, Juvalta e Mottura – partecipò anche Gigliola, nell’altipiano del Poro, nel Vibonese, e la sede operativa fu fissata nel comune di Zungri. Ma, di fatto, l’iniziativa – benché avesse trovato qualche finanziamento ancora una volta grazie ad Adriano Olivetti e si fosse anche ipotizzato di collegarla ai progetti ancora attivi concordati fra il governo italiano e l’UNRRA (la United Nations Relief and Rehabilitation Administration dell’ONU) – non ebbe seguito. Il gruppo dei torinesi più giovani – influenzato dal fascino intellettuale di Raniero Panzieri, che si era nel frattempo trasferito a Torino – guardava ormai ad altri orizzonti: «mi pare – scriveva Fofi nel suo diario il 12 luglio 1960 – che Raniero prema per il lavoro in altre direzioni e non voglia disperdere il gruppo in rivoli meridionali, ma tenerlo concentrato qui attorno alla classe operaia della FIAT» (Fofi 1993, 129). Era l’annuncio dell’esperienza dei «Quaderni Rossi», il cui primo numero avrebbe visto la luce poco più di un anno dopo. Ma Fofi riconosceva anche che l’AIS non era in grado di continuare il suo lavoro perché erano venute meno «quelle garanzie di continuità o di avere le capacità di trascinare e convincere che sono di Gigliola quando sta bene» (Fofi 1993, 128-129). E Gigliola, da alcuni mesi, non stava bene: forse anche stressata dal tormentato distacco dell’AIS da Danilo Dolci e consapevole che un’esperienza altrettanto coinvolgente non era più possibile, era entrata in uno di quei periodi di depressione che l’avrebbero accompagnata per il resto dei suoi giorni. Una fase breve ma intensissima della sua vita si era conclusa.
5. «Vivo dentro le parole»
Non conosco il passaggio delle ore.
Vivo dentro le parole
in un mondo rinato
(Torino 1990)
(Venturi Spinelli 1991, 96)
Anche nel periodo più intenso di impegno nell’AIS, Gigliola Venturi non aveva cessato la sua attività di traduttrice. Lavorò, negli anni cinquanta e sessanta, soprattutto per la Einaudi. Della casa editrice conosceva e frequentava numerosi collaboratori, anche il “cerchio magico” più interno: il diario di Daniele Ponchiroli (2017), per esempio, redatto fra la fine del 1956 e l’inizio del 1958, abbonda di riferimenti a gite, pranzi, cene e serate con «i Venturi», che vedono partecipare anche i Fruttero, i Bollati e, con la moglie Renata Aldrovandi, lo stesso Giulio Einaudi: nei Frammenti di memoria del quale Gigliola compare almeno una volta, quando l’editore raggiunge lei e Franco a Stoccolma in occasione del Congresso mondiale degli storici, e insieme prendono un traghetto per Leningrado, proseguendo poi il viaggio in auto fino a Mosca (Einaudi 1988, 119-121). Attraverso queste frequentazioni, e soprattutto attraverso il marito, Gigliola era perfettamente a conoscenza delle travagliate vicende che la casa editrice attraversò all’inizio degli anni sessanta.
Significativa per esempio è la lettera che il 27 novembre 1963 scrisse a Goffredo Fofi, il cui “caso” era diventato un grosso problema per la Einaudi. Il rifiuto di pubblicare la sua inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino – a meno che vi fossero apportate sostanziali modifiche – stava provocando nel gruppo dirigente della casa editrice una grave frattura, che sarebbe culminata nel licenziamento di Panzieri e Solmi (Mangoni 1999, 884-888). «Non stare a prendertela per aver portato confusione nella casa editrice Einaudi, come scrivi», raccomandava Gigliola a Fofi:
Semmai è un chiarimento. Sono anni, assai prima che il tuo astro sorgesse sull’orizzonte cultural-politico di Torino, che sento parlare dell’incompatibilità di Panzieri e Solmi con l’indirizzo editoriale che si è andato esplicando e affermando dai tempi ormai lontani del famoso rapporto Kruscev. Naturalmente ognuno ha diritto (anzi dovere) d’asserire le proprie idee. Quel che secondo me manca ai nostri due amici è la capacità di collaborare in un gruppo vario (per fortuna) come quello della casa editrice in parola; la capacità dico di collaborare essendo in minoranza. Pensa che Franco l’ha fatto per più di vent’anni, senza porre drammatici aut-aut, senza imporre un’idea, un’esperienza, un libro. Semplicemente esponendo il proprio pensiero, i propri punti di vista, facendosi forte unicamente della propria preparazione scientifica. Non sentirti dunque pieno di rimorsi se – del tutto casualmente e solo perché c’è, horribili dictu, il pericolo di un governo di centro-sinistra – Solmi e Panzieri si fanno prendere da crisi isteriche (AIS, Busta I, 5).
Personalmente, l’atteggiamento di Gigliola era stato certo molto paziente. Dopo la traduzione della raccolta di fiabe curata da Afanas’ev, quella dell’epistolario di Čechov, da lei curato insieme a Clara Coisson, che era già pronta nel 1957, uscì solo nel 1960, incontrando un larghissimo apprezzamento della critica (UFN, Traduzioni 1954-1979, Cartella 2, Recensioni). E il 9 giugno 1964 si lamentava di nuovo con Fofi: «Le mie traduzioni dal russo aspettano da tre anni ormai. Una volta erano i frati che nei loro conventi facevano esercizio di pazienza ed obbedienza. Nella città laica le case editrici tengono luogo, evidentemente, di convento. Per fortuna non si richiedono i voti di castità, anzi…» (AIS, Busta I, 2).
Non sappiamo esattamente a quali traduzioni si riferisse: una doveva essere comunque quella del libro di Vladimir Jakovlevič Propp sui canti popolari russi, di cui lei stessa aveva curato una scelta premettendovi una nota introduttiva, e che uscì nel 1966. E’ da notare che Propp era stato “scoperto” e segnalato alla casa editrice Einaudi (in particolare a Cesare Pavese) da Franco Venturi quando era ancora in Russia, nel 1948: egli aveva raccomandato per una possibile traduzione nella “collana viola” (quella di antropologia e folklore fondata da Cesare Pavese ed Ernesto De Martino) il libro Istoričeskie korni volšebnoi skazki (Le radici storiche dei racconti di fate), che in effetti fu pubblicato nel 1949 nella traduzione di Clara Coisson (Mangoni, 387). Tra le molte traduzioni di Gigliola, quella di Propp fu forse la sola che suscitò qualche perplessità. L’amico Carlo Dionisotti, per esempio, le scrisse da Londra il 18 novembre 1966:
Ci sono questioni di lingua e di metrica italiana in cui non possiamo e forse non potremmo essere d’accordo. Perché ciascuno porta in queste cose un intrico di nascoste preferenze o ripulsioni che neanche l’analisi del sangue basta a spiegare. E chi non fa, e non sa fare versi, peggio che mai. Riconosco che la mia insofferenza dei troncamenti e dei diminutivi, ad esempio, è irrazionale ed eccessiva, ma così è (UFN, Traduzioni 1954-1970, cartella 4).
Anche Umberto Albini le inviò la copia di una recensione destinata alla «Rassegna di letterature slave» in cui, pur elogiando nel complesso la versione, proprio sui troncamenti si mostrava molto critico (ivi). Nel complesso, comunque, il successo del libro fu ampio e la traduzione lodata anche all’estero.
A quell’epoca, oltre alle fiabe e all’epistolario cechoviano, Einaudi aveva intanto pubblicato un’altra traduzione di Gigliola Venturi, una delle più impegnative, quella del libro Pošechonskaja starina (Gli antichi tempi di Pošechone). Si tratta dell’ultima opera dello scrittore Michail Evgrafovič Saltykov, poi noto con lo pseudonimo Ščedrin, che già nei suoi Gubernskie očerki (Bozzetti provinciali) – una serie di schizzi e racconti sotto forma di cronaca raccolti in volume nel 1857 – aveva mosso «un corrosivo attacco alla società, [compiendo] una scorribanda nel mondo della burocrazia concussionaria e spietata, delle carceri, dei pellegrino, del raskol’» negli ultimi anni del regno di Alessandro I, scriveva nella Prefazione la traduttrice e curatrice.
In nessun’altra opera della letteratura russa – ha scritto Ettore Lo Gatto – è stato mostrato senza maschera e senza belletti il volto della Russia serva della gleba. […] Ferocemente satirica, si contrappone alle descrizioni più o meno idilliache della campagna russa date da Aksakov, Tolstoj, Turgenev e Gončarov [e produsse] un’impressione enorme, non minore certo di quella prodotta a loro tempo delle Anime morte di Gogol’ (DBO 2006, 408).
Saltykov Ščedrin era stato segnalato a Einaudi dai Venturi quando ancora si trovavano a Mosca. Franco ne aveva parlato a Calvino in una lettera da Mosca del 2 gennaio 1950, annunciando che Gigliola stava traducendo uno dei bozzetti, e Calvino aveva mostrato di apprezzare lo scrittore, pur manifestando perplessità «su una possibile sistemazione editoriale del volume» (Archivio Einaudi, fascicolo 3041). L’autore era del resto una figura non secondaria di quell’universo del populismo russo che Venturi stava studiando nella preparazione del suo libro del 1952, poi ripubblicato con lunga introduzione nel 1972: «Con quella sua meravigliosa violenza satirica che esprimeva la macerazione delle coscienze più sensibili di fronte alla pesante e bruta realtà russa […] era capace di controbattere tutti quei fenomeni di ottusità morale, politica, sociale che venivano emergendo e riconsolidandosi dopo la scossa e l’urto delle riforme» (Venturi 1972, II, 210).
Nel giugno del 1956 Gigliola aveva presentato a Luciano Foà un dettagliato progetto per la pubblicazione di due volumi di racconti e romanzi di Saltykov, per quasi 1200 pagine di testo (Archivio Einaudi, fasc. 3043): esso includeva anche i due romanzi Gospoda Golovlevy (I signori Golovlev) e Gli antichi di tempi di Pošechone. Alla fine la scelta cadde sul secondo, che, dopo una lunga anticamera, fu pubblicato nel 1961. Gigliola vi si impegnò con passione, tanto che consegnò il manoscritto tradotto già il 4 giugno 1958 e un anno prima, nel maggio del 1957, per non esserne distolta declinò una proposta di Calvino di tradurre per l’Einaudi un romanzo di Vladimir Tendrjakov, ambientato in un kolchoz sovietico: «dev’essere – diceva dell’autore – un tipo alla Erenburg, che ha fatto in fretta a capire da che parte tira il vento», e d’altra parte «dal punto di vista letterario [non le sembrava] gran cosa» [Archivio Einaudi, fasc. 3043). La nota introduttiva della traduttrice agli Antichi tempi di Pošechone delineava un vivido ritratto di uno scrittore «antiromantico, ironico, satirico, sferzante, realista»: «anche se – notava – il suo sarcasmo, la sua “cattiveria” sono spesso nient’altro che una maschera, la pelle d’asino di cui si ammanta la sua bontà e semplicità» (G.V. Prefazione, IX). Evidente, oltre alla denuncia del «fondo autoritario, padronesco, sul quale poggiava la società al tempo della servitù della gleba», era la sua simpatia per Saltykov: che, «animato dal suo istinto morale, spinto dalla sua inestinguibile sete di giustizia e di libertà», denunciava l’assolutismo zarista e l’inconcludente opposizione liberale ed era malvisto e perseguitato per le sue «idee malsane» (ivi, VII).
Frutto della collaborazione intellettuale di Gigliola e Franco, che ne figurarono curatori insieme, fu anche un’altra iniziativa: la pubblicazione nel 1972, per l’editore De Donato, di Viaggio da Pietroburgo a Mosca (la traduzione da Putešestvie iz Peterburga v Moskvu di Aleksandr Radiščev, in questo caso, era di Costantino Di Paola e Sergio Leone: il ruolo di Gigliola nella curatela sembra essere consistito nella revisione e nelle note apposte in calce sia all’introduzione che al testo). Nell’introduzione da lui firmata, Venturi definiva il libro «una sorta di versione russa del diderotiano Jacques le fataliste», «ambedue giocati su un medesimo contrasto fondamentale, sul conflitto fra il despotismo e l’avventura, fra la necessità e la libertà» (Venturi 1972a, 46). Radiščev, un protagonista della vita intellettuale russa negli anni ottanta del Settecento, sarebbe poi stato oggetto di attenzione approfondita nelle pagine del Settecento riformatore di Venturi: cresciuto nel corpo dei paggi alla corte di Caterina II, aveva soggiornato per un certo tempo a Lipsia, sedotto dall’illuminismo francese e tedesco. Dopo aver prestato a lungo servizio nella burocrazia dello stato, diventando direttore della dogana di San Pietroburgo, decise di mettersi in viaggio per descrivere la realtà politica e sociale del proprio paese. Pubblicato in proprio nel 1790, il Viaggio costò all’autore la condanna a morte, poi commutata in dieci anni di confino in Siberia.
Il viaggio più normale per la principale strada dell’impero, quella che unisce la nuova alla vecchia capitale, – scriveva Venturi nell’introduzione del 1972, che avrebbe ripreso alla lettera nel 1984 nella sua grande opera – diventa una viaggio di scoperta, un’avventura straordinaria, in un mondo riposto e segreto che egli è solo a rivelare, il mondo morale di chi vive in servitù e non si rassegna, di chi è suddito di un despota e sogna e spera di ribellarsi, di chi è privilegiato e non accetta più il proprio privilegio, di chi si sente piccolo e debole di fronte all’immensa pianura russa e sotto il giogo di un ferreo potere, ma che trova in sé la forza di rialzare la testa, di dirsi e sentirsi libero e, se necessario, di rinunciare alla ricchezza, al potere e magari alla vita (Venturi 1972a, 45-46; Venturi 1984, 868-69).
Ma intanto Gigliola andava mostrando sempre più interesse per la letteratura sovietica contemporanea. Già aveva tradotto per Einaudi un romanzo di Emmanuil Genrichovič Kazakevič, Sinjaja tetrad’ (Il quaderno azzurro), uscito in russo nel 1961, che raccontava la storia del tredicenne Kolja e del suo rapporto d’amicizia con Lenin durante le settimane, immediatamente precedenti alla rivoluzione d’ottobre, in cui questi si era rifugiato in Finlandia: la traduzione restò nel cassetto per ben dieci anni, fino a quando, il 1° settembre 1971, Vittorio Strada le comunicò che l’editore aveva deciso di non pubblicarlo, e del resto lei stessa, pur apprezzandone la qualità letteraria, lo aveva giudicato eccessivamente «edificante» (UFN, Traduzioni 1972-1986, cartella 20). Ben diverso era il tono di Dvenadcat’ stul’ev di Il’f e Petrov, un romanzo del 1928 a cavallo tra genere picaresco e genere poliziesco, che era in realtà una satira della NEP, e che colloca i suoi autori, accanto a Zoščenko e Bulgakov, tra i grandi della prosa satirica sovietica. Già arrivato in Italia attraverso altre traduzioni, una delle quali, Le dodici seggiole di W. Citakoff per Longanesi del 1950, Gigliola giudicava «semplicemente indegna del nome di traduzione» (UNF, Carteggi e saggi, cartella 2, lettera a F. Golzio del 29 gennaio 1969), fu ritradotto da lei per la Nuova Italia nel 1969, col titolo Le dodici sedie e con un’introduzione che ne restituiva bene lo stile definito «cinematografico»:
Le loro pagine sono un vero filmato della vita di quei tempi, che ci viene presentata con brio ed ironia, applicando l’antico detto “Castigat ridendo mores”. Senza indulgere ad una stucchevole apologia del comunismo, essi dimostrano con il loro avvincente romanzo come l’unico principio vitale di un mondo nuovo e moderno non possa essere che il godimento dei beni da parte di tutti- non il benessere pochi privilegiati, pagato dalle sofferenze dei più» (p. II).
Mentre i rapporti con Einaudi si diradarono fino a cessare (benché ancora in una lettera a Giulio Einaudi del 20 luglio 1963 si faccia cenno a una traduzione di Delitto e castigo in corso e a una possibile di Memoria della casa dei morti di Dostoevskij, delle quali non vi è traccia né nell’archivio della casa editrice né nel suo), la collaborazione con la Nuova Italia continuò: come si è già accennato, Gigliola fece tutta una serie di proposte di libri russi da pubblicare nella collana per ragazzi, ma una sola di queste andò in porto. Uscì nel 1970 la sua traduzione di Arktur – Gončij pes (Arturo cane segugio), una raccolta racconti di Jurij Kazakov: uno scrittore, così lo presentava sul bollettino delle novità editoriali della Nuova Italia, che possedeva «il dono di descrivere la sterminata natura e i minimi fatti essenziali che ci rivelano il cuore e la mente di quella immensa realtà dolorosa ed allegra che è l’uomo sovietico oggi, schiacciato in nome di sfuggenti ideali».
In questo medesimo filone, almeno in parte, si inseriva Belyj Parochod (Il battello bianco) di Čingiz Ajtmatov. Gigliola lo propose nel 1969 alla Nuova Italia e l’anno dopo a Mondadori, presentandolo come la storia «di un ragazzetto di una decina d’anni, solitario e mal sopportato», che vive immerso in una natura incantata nel cuore delle montagne kirghise, sulle rive di un grande lago nel quale sogna che ogni giorno appaia un battello bianco, su cui deve essersi imbarcato il padre scomparso, un marinaio. La storia ha un finale tragico: privato della compagnia prediletta, quella della Madre-Cerva, proprio dalla persona che più ama, il nonno, che è costretto ad ucciderla dal perfido e prepotente Orozkul, il bambino si tuffa nel lago per raggiungere il battello bianco e annega. Apparso a Mosca nel 1970, il racconto aveva suscitato, soprattutto sulla «Literaturnaja Gazeta», un vivace dibattito, perché molti lettori «erano stati scossi dal sotteso significato morale, e in largo senso politico, anzi polemico, di quelle pagine» (Galante Garrone 1991, 124). Ajtmatov si era dovuto difendere dall’accusa di aver dato alla sua storia un finale tragico e disperato, evidentemente non adeguato alla realtà luminosa della civiltà socialista.
Di tutto questo Gigliola Venturi tenne conto nell’introduzione che premise alla sua traduzione, alla fine uscita da De Donato nel 1972: un’introduzione che si intitolava significativamente Il battello bianco approda a Mosca, e in cui era messo bene in luce «l’iniziale sconcerto e poi, man mano, il libero rinfrancarsi di molti cittadini sovietici di fronte al dramma epocale evocato da quella poetica favola» (Galante Garrone 1991, 125). Così, riprendendo le parola di Ajtmatov, chiosava il suo pensiero, ma lasciava trasparire anche il proprio:
Non sempre gli ideali vincono; più spesso la sottomissione obbliga a piegare il collo [ … ]. Le ribellioni vanno condotte a fondo, senza paura. Che se la sottomissione manca – e con essa la forza fisica – non resta che la stoica morte liberatrice. Ma l’importante è che «qualunque sorte ci attenda in questo mondo, la verità durerà eterna, finché al mondo ci saranno uomini che nascono e muoiono …», finché ci saranno germogli umani pronti a morire (vuoi affogando in un fiume, vuoi bruciando in una fiammata), a morire per ideali eterni: la giustizia, la libertà, la dignità umana – vengano essi simboleggiati da un battello bianco o da una bandiera rossa (Venturi Spinelli 1972).
Non aveva un finale altrettanto tragico né metaforicamente politico ma apparteneva allo stesso mondo, tra magico e naturalistico (vi compare anche la figura mitica della Madre-Cerva), anche un altro libro tradotto da Gigliola sette anni dopo per Adelphi: Ginseng, di Michail Prišvin. Scritto nel 1933, racconta l’avventura di un giovane chimico russo che, durante la guerra russo-giapponese del 1904, abbandona il fronte, valica la frontiera con la Cina e si mette alla ricerca del ginseng, «radice di vita», una pianta a cui dall’antichità si attribuiscono grandi poteri magici. Nella scheda con cui lo aveva presentato all’attenzione di Foà, la traduttrice ne riassumeva molto efficacemente il contenuto, spiegando come il protagonista acquisisse pian piano «il senso della natura, del controllo dei sentimenti, dell’amore per il creato, della saggezza, della felicità», e così ne sintetizzava il fascino:
Bellissime descrizioni delle terre in cui vive, in tutto il variare delle stagioni e delle ore diurne e notturne, sotto il sole e sotto la furia dei tifoni. Interessantissime osservazioni sulla vita degli animali, specialmente dei branchi di cervi. Avventure e disavventure della caccia. Fini immagini dell’amicizia tra il giovane colto europeo e il vecchio cinese dalla saggezza primigenia. Stile piano e dal fascino discreto (UFN, Tarduzioni 1972-1986, cartella 11).
Ma dall’inizio degli anni settanta Gigliola Venturi aveva dato voce nelle sue traduzioni soprattutto alla letteratura sovietica del dissenso, l’attenzione per la quale si stava sviluppando intensamente anche in Italia (Baselica 2014). Non necessariamente si trattava di scrittori non pubblicati in patria. Nel 1970, per esempio, accettò con entusiasmo la proposta di Cesare De Michelis di tradurre per l’antologia da lui curata per Mondadori, Poesia sovietica degli anni ’60, i versi di una serie di autori che appartenevano alla nuova generazione poetica poststaliniana, cui il disgelo aveva consentito una certa libertà di ispirazione e il distacco dalla retorica ufficiale: a lei toccarono Iosif Brodskij, che di lì a poco sarebbe emigrato, Bella Achatovna Achmadulina, Bulat Šalvovič Okudžava, Aleksandr Kisner e Andrei Voznesenskij, che tutti, pur tra molte difficoltà, non avrebbero invece lasciato il paese.
Ci fu un seguito polemico: Vittorio Strada pubblicò su «Rinascita» una recensione che suonava abbastanza critica nei confronti delle traduzioni, ma il settimanale omise l’ultimo capoverso, in cui si specificava che quelle critiche si riferivano in particolare alle versioni degli altri due traduttori, Giovanni Giudici e Joanna Spendel. Gigliola si arrabbiò moltissimo e ottenne da «Rinascita» la rettifica con il ripristino del passo tagliato. In verità, comunque, condivideva molte delle riserve sulle traduzioni dei suoi colleghi, tanto che si tolse lo sfizio di ritradurre alcune poesie e di farle circolare fra gli amici, con il testo da lei ritenuto insoddisfacente a fronte: questo curioso documento, presumibilmente una “chicca” per i traduttori professionali dal russo, si può trovare nel suo archivio depositato preso l’UFN.
Nel 1977 la collaborazione da tempo iniziata con Luciano Foà e con Adelphi produsse il suo primo frutto concreto con la traduzione di Zijajuščie vysoty (Cime abissali) di Aleksandr Zinov’ev, il professore di logica matematica all’Università di Mosca di rinomanza mondiale che aveva messo in gioco la sua posizione dandosi alla letteratura. Il romanzo era stato pubblicato in Svizzera l’anno prima e costò al suo autore l’espulsione dal partito e poi l’esilio dall’Unione sovietica. Fu la casa editrice a proporre a Gigliola la traduzione, e lei, dopo una prima lettura, se ne disse entusiasta.
Lo stile sardonico dell’autore – scrisse a Foà il 2 ottobre 1976 – sfiora ad ogni piè sospinto il surrealismo, in una chiave di allegro-amara ironia. L’uso delle frasi fatte e il riecheggiamento dei discorsi ufficiali sono a volte spiritosissimi, a volte più difficile sarà afferrare – per chi non sia calato addentro nel mondo e nella lingua sovietica – il valore sarcastico delle parole di Zinov’ev, Il suo stile discorsivo passa dal pettegolezzo e il divertimento all’acre denuncia del fallimento non solo della politica russa, ma del comunismo in quanto ideologia (UFN, Traduzioni 1972-1987, cartella 12).
Si trattò probabilmente della traduzione più difficile che dovette affrontare: mille e più pagine intessute di giochi di parole, bisticci, calembours, che era importante cercare di rendere in italiano se non si voleva perdere l’acre sarcasmo che ne era la cifra. A cominciare dal titolo, Zijajuščie vysoty, che giocava sull’ assonanza tra sijajuščie (radiose) e zijajuščie (vuote, spalancate, abissali). Ne discussero più volte lei e Foà; quest’ultimo optava per «cime voraginose», Gigliola per «cime ruinose». La soluzione finale la propose lei, e la spiegò in una breve nota iniziale: l’espressione «cime radiose» corrispondeva al «sol dell’avvenire» dell’iconografia socialista: così che «è sufficiente un cambio di consonante perché il socialismo trionfante si tramuti in un abisso mortale». Ed è quello che è evidentemente accaduto nell’immaginario ma riconoscibilissimo paese di Ibansk (Ibania), che«evoca un triplice richiamo: a Ivanov, che è il cognome più diffuso in Russia […]; a Ivan Ivanovič, eufemistico modo di indicare il cesso; e al verbo ebat’ (pronuncia “ibat”) che vuol dire «fottere», sia nella specifica accezione sessuale, sia in quella più diffusa di ingannare, di truffare, insomma di fregatura (nota della traduttrice, p. 8)».
Il libro ebbe un grande successo, e Gigliola ricevette i complimenti di personaggi autorevoli come Aleksander Gerschenkron e Isaiah Berlin (UFN, Traduzioni 1972-1987, cartella 12).
Dello stesso Zinov’ev Adelphi affidò poi a Gigliola, nel 1983, la traduzione di un precedente romanzo, scritto nel 1975 (quando l’autore non era ancora stato espulso dall’URSS), non pubblicato in patria: Zapiski nočnogo storoža (Appunti di un guardiano notturno), che anticipava i temi e il tono di Cime abissali: il Guardiano Notturno che parlava nel libro apparteneva alla specie dei «refrattari», esseri inservibili per la società ibanese: «Con il suo occhio di fantasma maligno, – racconta il risvolto di copertina – egli osserva lo svolgersi di una vita che non vuole rinunciare, in nessuna sua forma, a produrre l’avvilimento delle persone e delle cose».
Accanto agli scrittori del dissenso, censurati in patria e costretti a pubblicare all’estero, Gigliola Venturi diede però anche a voce a due autori come Irina Grekova e Jurij Trifonov, che pubblicavano i loro libri in URSS, esprimendo le inquietudini e le frustrazioni della vita quotidiana dell’età brezneviana. Di Irina Grekova (psuedonimo di Elena Wentzel, una docente e studiosa di matematica e cibernetica notissima in Unione Sovietica, autrice di monografie tradotte in tutto il mondo), Gigliola tradusse nel 1985 – per Sellerio – Damskij master (Parrucchiere per signora), un lungo racconto che narrava della curiosa amicizia fra la direttrice di un istituto di computer e un giovane apprendista parrucchiere, tanto ricco di iniziativa nel suo lavoro da incorrere nelle critiche del “sistema” ed essere indotto a cambiar mestiere. Il libro fu proposto alla casa editrice da Victor Zaslavsky, sociologo e storico sovietico che era emigrato in Canada per poi approdare in Italia, alla LUISS, e che aveva lui stesso appena appena pubblicato presso la stessa casa editrice un gustoso racconto satirico, Il dottor Petrov parapsicologo. Con l’occasione Gigliola entrò in corrispondenza con Zaslavsky, che le scriveva fitte lettere in russo, mentre lei gli rispondeva in italiano, chiedendogli consigli linguistici, per esempio a proposito della traduzione di Tynjanov (UFN, Carteggi e saggi, cartella 9).
Di Trifonov – che, come abbiamo visto, Gigliola aveva segnalato molto presto a Feltrinelli – tradusse l’ultimo romanzo (lo scrittore morì precocemente a 56 anni) e lo fece – per la prima e unica volta – per gli Editori riuniti, la casa editrice “organica” al PCI che aveva già fatto conoscere Trifonov in Italia soprattutto attraverso il suo libro più intenso e struggente, La casa sul lungofiume (1977; traduzione di Vilma Costantini da Dom na naberežno). Sembra che sia stato lo stesso Trifonov, prima della morte, a chiedere che fosse lei a tradurre Vremja i mesto (Il tempo e il luogo). Il romanzo ripercorreva le atmosfere di quel primo libro, «una riflessione crudele e insieme accorata […] sui meccanismi psicologici della rinuncia, del compromesso, del potere, nell’epoca tardostaliniana», come scriveva Venturi Spinelli nella Nota al testo: «Con mano leggera e sicura, Trifonov incide, col suo bisturi psicologico, l’enorme corpo sociale del suo paese – tagli brevi ma profondi, che pian piano lo scarnificano, mettendone a nudo l’ossatura. Ed ecco rivelarsi ai nostri occhi i punti di forza e le piaghe, la trama dei segni che il tempo ha impresso a questo organismo» (p. X).
Ma oltre a questo tributo alla qualità del suo lavoro, Gigliola Venturi decise di rendere un altro omaggio postumo all’autore, e un servizio ai suoi colleghi traduttori: su «Tuttolibri» del 3 marzo 1984 diede conto delle numerose censure che il testo apparso in Unione Sovietica presso la casa editrice Družba narodov aveva subito rispetto al manoscritto originale: soppressioni e modifiche di frasi riguardanti soprattutto la politica e l’apparato poliziesco, ma anche la vita in fabbrica e perfino le descrizioni erotiche. Nell’insieme erano circa 250 gli interventi «integrativi o ripristinatori» che Trifonov aveva apportato alla copia che aveva consegnato all’estero a una persona fidata e che fu poi tradotta in italiano, francese e tedesco.
Nell’ultimo decennio della vita di traduttrice di Gigliola figurano anche due “fuor d’opera”. Uno era il breve saggio di Roj Medvedev, Il regime stalinista in URSS, opera di uno storico dissidente allora molto conosciuto in Occidente, e di cui in Italia erano stati pubblicati almeno due libri importanti. Uno era Lo stalinismo. Origini, storia, conseguenze, Milano, Mondadori, 1972, tradotto da Raffaello Uboldi dall’inglese Let history judge, London, Macmillan, 1972, a sua volta traduzione di Colleen Taylor dal manoscritto originale intitolato K sudu istorii. Genezis i posledstvija stalinizma. L’altro era Ascesa e caduta di Nikita Kruscev, Roma, Editori riuniti, 1982, traduzione di Roberto Toscano da N.S. Chruščëv. Političeskaja biografija. La versione italiana del saggio, di cui non conosciamo le coordinate originali in russo, comparve nel 1984 nel quarto tomo del IX volume dell’opera La storia, diretta da Nicola Tranfaglia e Massimo Firpo e uscita per i tipi della UTET; esso dimostra come la traduttrice, oltre che con i testi letterari, si trovasse perfettamente a suo agio anche con quelli storici e politici.
L’altro testo insolito per la sua produzione di traduttrice fu, nel 1982, la traduzione del libro di Kirill Chenkin Ochotnik vverch nogami, ovvero Il cacciatore capovolto. Il caso Abel, edito da Adelphi nel 1982. Chenkin era un giornalista sovietico, ex agente del KGB, emigrato in Israele all’inizio degli anni settanta, e la storia che raccontava era quella di Rudolf Abel, alias Willie Fisher, la spia sovietica che nel febbraio del 1962 fu scambiata con Gary Powers, il pilota americano abbattuto col suo areo-spia U-2 il 1° maggio del 1960 (la vicenda è stata di recente ricostruita dal film di Steve Spielberg Il ponte delle spie, e questo è valso al libro – ancora nella traduzione di Gigliola – l’onore di una nuova edizione nel 2017). La trama si svolge sul filo sottile del doppio e triplo gioco, come è proprio delle spy stories, ma in più restituisce l’immagine di un apparato statale – quello sovietico – insieme immobile e attivissimo nell’adoprarsi perché nulla cambi: non a caso nell’edizione italiana vi figura una prefazione di Aleksandr Zinov’ev, maestro nel descrivere le atmosfere di quel sistema nella fase terminale del suo declino. Nell’archivio di Gigliola Venturi non esiste però una sua corrispondenza con l’editore riguardo a questo libro: non abbiamo perciò una traccia dell’impressione che ne ebbe. Per contro, sappiamo che l’autore le scrisse una calorosa lettera di congratulazioni (UFN, Traduzioni 1972-1986, cartella 13).
In quella che doveva essere la sua ultima traduzione pubblicata, uscita ancora da Adelphi nel 1987, Gigliola diede voce a Vasilij Grossman, il grande scrittore morto nel 1964 senza vedere pubblicato il suo capolavoro, Žisn’ i sud’ba, che – stampato in russo a Losanna nel 1980 da una copia fortunosamente sfuggita al sequestro – in Italia arrivò come Vita e destino in una prima traduzione di Cristina Bongiorno per Jaca Book nel 1982. Ma, prima che attraverso Vita e destino, la straordinaria statura letteraria di Vasilij Grossman era già emersa da una sua prima opera, Vse tečet, pubblicata postuma in Francia come Tout passe… nella traduzione di Jaqueline Lafond per la parigina Stock. Tutto scorre… in Italia circolò dapprima nella traduzione di Pietro Zveteremich pubblicata da Mondadori nel 1971. Era la storia di un reduce da trent’anni di gulag e del suo lento, dolente adattamento a una nuova quotidianità che lo fa sentire talvolta più prigioniero di prima: «Uscito dal lager, facendo un lavoro liberamente scelto, vivendo accanto ai suoi cari e ai parenti, quell’uomo si condannava talvolta a una detenzione suprema, più completa e profonda di quella a cui lo costringeva il filo spinato» (Tutto scorre…, 105).
Quando uscì per Adelphi il suo Tutto scorre…, Gigliola Venturi aveva appena compiuto settant’anni. Malgrado avesse continuato a lavorare come traduttrice con la continuità e l’impegno che abbiamo documentati, la sua vita non era facile. Da anni ormai alternava periodi di grande entusiasmo e attivismo ad altri di profonda depressione. Questi ultimi si andarono aggravando e intensificando per il diabete che alla fine la portò alla perdita quasi completa della vista. Soffriva anche del declino fisico di Franco, affetto da una grave forma di morbo di Parkinson. Il desiderio di continuare a tradurre non l’aveva del tutto abbandonata, ma – confessava in una lettera a Luciano Foà del 7 luglio 1990, «anche il desiderare […] richiede una energia che io non ho più». Perciò gli comunicava di avere «con tristezza rifiutato» di tradurre «libri ponderosi come Passato e pensieri di Herzen o anche come il Bagrov nipote di Aksakov», ma gli assicurava:
Sono ancor sempre in grado (ti prego di tenerlo presente) di applicarmi a traduzioni di mole ridotta, in cui dar sfogo alla mia voglia di rendere in italiano un bel testo, elegante e preciso, ma che non esiga uno sforzo troppo prolungato (anche i miei occhi non sono più quelli di una volta), Qualcosa del tipo del bellissimo libricino della Berberova, Il giunco mormorante, o La scheggia di Zazubrin, così pieno di trovate linguistiche, o tante altre belle cose apparse nella “Piccola biblioteca”. Mi piacerebbe anche tradurre poesie […]; non dimenticare che ne scrivo di mie (UFN, Carteggi e saggi, cartella 7).
Ne scriveva, in effetti, da sempre, perfino durante la Resistenza, come si è visto; aveva continuato negli anni successivi, componendone anche in francese (spesso) e in inglese (più raramente: ma di una, che porta la data «Oxford 1973», merita di essere citata almeno la conclusione: «I don’t like my self-mocking name / I, whose rough and calamitous youth/ looks like an hurricane of thundering violence / Gigliola», che può rendersi approssimativamente così: Non mi piace l’autoirridente mio nome / A me, di cui la giovinezza tempestosa e calamitosa / appare un uragano di travolgente violenza / Gigliola). Ne scrisse durante i frequenti e spesso lunghi viaggi in cui accompagnava Franco all’estero per soggiorni di studio: nei quali «cercò di giungere alle radici della realtà politica e sociale dei paesi che veniva a conoscere, nutrendo insieme l’animo suo dei versi che andava scrivendo» (Venturi 1992, 143). Non le pubblicò, se non – alcune – in una forma particolare: in due eleganti raccolte di fogli sciolti, stampate in esemplari numerati presso il tipografo torinese Toso, e distribuite agli amici. La prima, Come un albero sono, è del 1977, la seconda, Manate di colombi sembravano, del 1981. Altre sono conservate in una busta apposita dell’archivio depositato presso la UFN. Una sola raccolta destinò alla pubblicazione: Paglia a paglia (Venturi Spinelli 1991), 140 poesie tra le quali erano ricomprese anche alcune delle raccolte precedenti. Come scrive Franco nella Notizia che vi appose alla fine, «era pronta sul suo tavolo di lavoro quando Gigliola si uccise, il 19 marzo 1991».
Non sono in grado di valutare queste poesie come critico, posso solo dire che molte mi paiono bellissime: e tali parvero a Alessandro Galante Garrone, che nel commosso omaggio che dedicò a Gigliola dopo la sua morte ne parlò a lungo, con sensibilità. Sono versi che spaziano su temi diversi: immagini di stagioni della natura e dell’anima, di sentimenti, di ricordi, scorci di paesaggi. Curiosamente, non compare quasi mai il lavoro di traduttrice a cui Gigliola dedicò tanta parte della sua vita: il verso citato in esergo a questo paragrafo è una rara eccezione. Certo, nelle poesie pubblicate in Paglia a paglia (che per buona parte sono degli anni 1989-1990) il pensiero della morte si è insinuato con crescente insistenza; ma anche negli anni precedenti non era mai stato assente. Aveva scritto nel 1970 pochi semplici versi che dimostrano come l’idea di essere padroni della propria vita l’avesse sempre assillata: «Saper finire a tempo / una poesia / come una vita. / Nel lento volgere dell’armonia/ il difficile è / mettere il punto.» (Venturi Spinelli 1977, 96). E lo mise lei, quel punto, «lasciando al mondo – come scrisse nell’annuncio della sua morte che aveva scritto di propria mano – il rimpianto di non aver fatto abbastanza».
Fonti archivistiche
Archivio Einaudi: Archivio di Stato di Torino, Archivio Giulio Einaudi editore, Corrispondenza con autori e collaboratori italiani , I serie, cartella 215, fascicoli 3041 (Franco Venturi) e 3043 (Gigliola Venturi)
AIS: Associazione per l’Iniziativa sociale, Archivio Gigliola Venturi (digitalizzato da Francesca Leder, che ringrazio per la gentile assistenza prestatami)
Archivio Gigliola Venturi (da ordinare)
UFN: Archivio Unione Femminile nazionale, Fondo Gigliola Venturi Spinelli
Riferimenti bibliografici
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