di Giulia Grimoldi
A proposito di: Donne in traduzione, a cura di Elena Di Giovanni e Serenella Zanotti, Milano, Bompiani, 2018, pp. 576, € 25,00
In che modo la traduzione è importante per gli studi di genere? E in che senso i translation studies possono far luce sugli aspetti translinguistici, transnazionali e transculturali di tali studi? Il volume Donne in traduzione nasce innanzitutto dalla volontà di pubblicare in lingua italiana saggi di studiose e scrittrici di tutto il mondo che hanno alimentato e arricchito il dibattito politico, culturale e linguistico sulla traduzione in una prospettiva di genere. Il titolo scelto si presta a una doppia lettura in quanto pone l’attenzione «sul contributo attivo dato dalle donne alla conoscenza, nel ruolo storicamente loro attribuito di traduttrici, ma anche sulla voce tradotta delle donne nella storia, esaminando l’insieme delle manipolazioni attivate nel trasferimento di testi cardine del pensiero femminista da un contesto culturale all’altro» (p. 22).
All’interno del libro, il focus sulla femminilità si articola in tre livelli: i saggi raccolgono testimonianze di donne che parlano di traduzione e a volte raccontano le proprie esperienze di donne tradotte o traduttrici di altri autori (i cui testi sono stati manipolati in chiave femminista); ci sono poi le traduttrici che hanno lavorato a questi saggi (tutte professioniste o studiose di traduzione) e un ultimo livello è dato dalla presenza del tema della femminilità e del discorso femminista in tutte le sezioni.
Per quanto riguarda la struttura, il libro è diviso in due parti che si intrecciano tra loro in una rete di continui rimandi: da una parte le voci storiche canadesi, americane e inglesi della seconda ondata femminista degli anni settanta e ottanta che non erano ancora state tradotte in lingua italiana (come Barbara Godard o Sherry Simon, il cui saggio, tradotto da Teresa Fiore, è dedicato al contributo di due grandi intermediatrici culturali, attive nel campo della critica e della teoria letteraria: Germaine de Staël e Gayatri Spivak), e dall’altra uno sguardo alla contemporaneità (tra le altre, Luise von Flotow, Olga Castro, Meena Pillai). Inoltre, ogni saggio tradotto è corredato da un apparato di note e arricchito da una breve riflessione della traduttrice che fa il punto sull’atto del tradurre, sui contenuti del testo e sulle difficoltà riscontrate durante il lavoro.
Il volume si pone un obiettivo dichiaratamente politico: affrontare questioni che hanno a che vedere con il genere nella lingua, la rappresentazione della soggettività femminile attraverso la traduzione e la traduzione come mezzo per dare rappresentazione a questa soggettività. Nella prefazione, tradotta dalle curatrici, Susan Bassnett propone di ridefinire l’oggetto di indagine dei translation studies: è necessario studiare la traduzione, intesa come riscrittura, sia in termini linguistici sia in relazione ai concetti di potere nella cultura di partenza e di arrivo. Ma se la traduzione diventa un atto politico, che ne è dell’invisibilità del traduttore? Nei saggi raccolti in questo volume la neutralità è pressoché impossibile e le tematiche di genere spesso si intrecciano ad altre questioni politiche come il colonialismo, il postcolonialismo, la globalizzazione e la diaspora. Come afferma Rosemary Arrojo, nella traduzione di Elena Di Giovanni: «Se le relazioni di potere asimmetriche hanno dimostrato che l’autorialità, il patriarcato e il colonialismo hanno molto in comune, di riflesso il difficile lavoro di interpreti o traduttori-traduttrici può essere paragonato sia a quello delle donne che dei soggetti colonizzati» (p. 127). I teorici del postcolonialismo si sono dati come obiettivo quello di sovvertire le narrative asimmetriche generate dal colonialismo promuovendo il riconoscimento e la valorizzazione dell’eterogeneità, attraverso un approccio non violento alla differenza, che lasci integra l’alterità andando oltre la ricerca del dominio. Lo stesso vale per la traduzione femminista, il cui obiettivo è: «usare il linguaggio per esprimere la differenza e parlare con la propria voce, attraverso una ricerca linguistica volta a sabotare creativamente la logica patriarcale del linguaggio stesso, lavorando sulla lingua per attivarne dimensioni che non escludano il femminile» (p. 119). Nel saggio tradotto da Serenella Zanotti, Barbara Godard affronta il tema della differenza come topos positivo nella traduzione femminista: la studiosa invita ad abbandonare il modello della traduttrice umile che scompare tra le righe del testo a vantaggio di una pratica traduttiva femminista, con la quale «la traduttrice diventa scrittrice, celebrando il modo in cui ha “femminizzato” (“womanhandled”) il testo» (pp. 95-96). La traduzione diventa allora «atto critico di riscrittura» (p. 28), strumento di trasformazione critica del discorso dominante, a partire dall’assunto che tutti i testi «sono costruzioni narrate dalla prospettiva interessata di qualcuno. Tutte possono essere riscritte, rese in maniera diversa, in modo da rivelare nuove cose» (p. 94). La traduttrice femminista, inoltre, può scegliere di esibire i segni della sua manipolazione testuale corredando i lavori di materiale paratestuale, prefazioni e note e possibilmente pubblicando un diario della traduzione dove inserire riflessioni sull’atto stesso del tradurre. «In questo modo si rende visibile il lavoro difficile del tradurre: il lavoro di rivoltare i discorsi, […], di farne emergere le stratificazioni, i rapporti di potere e conoscenza, la prospettiva interessata da cui sono costruiti» (p. 92).
Degna di nota è la lunga riflessione presentata nel saggio di Luise von Flotow e Joan W. Scott (tradotto da Emilia Di Martino) sull’utilizzo e la traduzione di gender: attinto e adattato dai testi di medicina, in seguito il termine fu utilizzato per indicare l’attenzione alla situazione delle donne, assumendo presto uno statuto teorico e una connotazione politica durante la seconda ondata femminista, che «rifiutava la naturalizzazione delle differenze di sesso insistendo che l’anatomia non è il destino, che l’aspetto dei genitali non preannuncia o determina le capacità e i desideri delle singole donne e dei singoli uomini» (pp. 206-207). Le femministe si appropriarono del termine per mettere in discussione il rigido binomio biologia/destino e per affermare che la disuguaglianza era il portato di determinati contesti storici, culturali e politici. Ma come è possibile tradurre il concetto di gender, adattandolo alle diverse realtà locali, se già nella lingua inglese non esiste un significato univoco e concordato? «Le divergenze nella traduzione del termine “gender” sono dovute alla resistenza di quelle che i teorici della traduzione chiamano lingue o culture “di arrivo” alla logica della denaturalizzazione, cioè all’idea che non solo i ruoli sociali, ma gli stessi significati di uomo e donna sono socialmente determinati» (pp. 214-215). A volte «la decisione di rinunciare del tutto alla traduzione e di ricorrere a un neologismo, “gender”, è un modo per indicare l’adesione a un progetto politico globale» (p. 212). Parlare anche in italiano di gender «implica dunque una critica agli accordi sociali/propri della società. […] Tradurre testi che criticano le relazioni di genere o le strutture di genere porta con sé influenze sovversive in altre culture e lingue e viene percepito come una minaccia» (p. 227). Non a caso, è nota la critica mossa dalla Chiesa cattolica alla “teoria del gender”, che secondo Benedetto XVI metteva pericolosamente in discussione le differenze immutabili, create da Dio, tra uomini e donne: secondo i cattolici più estremisti il concetto di gender, negando la differenza sessuale binaria, condurrebbe inevitabilmente alla libertà di orientamento sessuale. Il volume fa un passo avanti introducendo una riflessione sul termine queer, che porta con sé il rifiuto dell’eteronormatività binaria, e invita a muoversi in direzione di un ampliamento del concetto stesso di identità di genere.
Di taglio più descrittivo i saggi di Emily Apter e Toril Moi (tradotti da Daniela La Penna e Franca Cavagnoli), che sottopongono a disamina critica le due traduzioni inglesi di Le Deuxième sexe (Gallimard, 1949) che hanno scatenato riletture e revisioni della ricezione di Beauvoir: la versione epurata del 1953 uscita per Random House a cura di Parshley ignora, secondo Toril Moi, i riferimenti a Hegel e Lacan, mette scompiglio nella terminologia filosofica di Beauvoir e fa errori elementari di interpretazione del francese; la nuova traduzione inglese di Borde e Malovaney-Chevallier del 2010 (Knopf) presenta errori filosofici ancora più marcati che rivelano un’incomprensione di fondo del complesso sostrato filosofico del testo originale (le traduttrici confondono “donna/ woman” con “la donna/ the woman”, come se Beauvoir sostenesse una teoria della differenza sessuale, concetto che invece rigetta come mito patriarcale).
Il saggio di Mary Phil Korsak tradotto da Ira Torresi è coraggioso perché va a scomodare la Bibbia e la sua traduzione in lingua inglese. Scritto e tradotto da uomini, il testo biblico presenta una visione patriarcale e androcentrica della vita, del mondo, della società, ma dato che ogni traduzione rappresenta un momento storico, politico e sociale ben preciso, è oggi possibile proporre una nuova traduzione inglese della Genesi ebraica che si basi «sul principio di una parola inglese per ciascuna parola ebraica» (p. 348): una ricerca lessicale certosina per sfrondare la lingua della Genesi delle ideologie che si sono cementate sull’originale ebraico.
Olga Castro, tradotta da Silvia Bruti, suggerisce che: «la linguistica femminista può essere attualmente considerata come un ambito fiorente della ricerca e dell’attivismo politico, il cui scopo è promuovere un nuovo ed equilibrato trattamento delle disuguaglianze sociali legate al genere attraverso cambiamenti nella/e lingua/e » (pp. 375-376). Il modo in cui le donne e gli uomini sono rappresentati nella lingua influenza, infatti, il modo in cui concettualizzano la realtà; per questo, di recente «a seguito della denuncia delle pratiche di sessismo linguistico e di una maggiore consapevolezza del ruolo vitale dell’uso inclusivo della lingua nel raggiungere l’uguaglianza sociale» (p. 377) in numerosi paesi occidentali sono state promosse diverse campagne e approvate leggi per incoraggiare l’uso di forme espressive non sessiste. La traduzione, come già sottolineato, diventa così un atto ideologico di mediazione interculturale, uno strumento di azione politica e di attivismo sociale: «Tradurre significa (ri)creare significati radicati al contempo in entrambe le realtà, in uno spazio liminale i cui i traduttori hanno una doppia e simultanea responsabilità (con)testuale nei confronti del sistema di partenza e di quello di arrivo» (p. 379). Il problema non è tanto mirare a sovvertire un testo in una direzione precisa, ma cercare di evitare un uso sessista e stereotipato del linguaggio in favore di un linguaggio che sia realmente inclusivo. Le strategie per realizzare questo intento sono molteplici: la neutralizzazione (uso di un termine generico/neutro), la specificazione (del genere linguistico), la duplicazione (che comprende sia il femminile sia il maschile), i neologismi, i simboli / e @. «I translation studies e il pensiero femminista condividono un’esigenza e volontà di trasformazione della lingua come luogo in cui si esprime e rappresenta la differenza» (p. 527): se per il pensiero femminista la lingua non è neutra, ma è espressione della visione androcentrica del mondo e della subalternità della donna, e se la parola è strumento di potere, allora tradurre diventa «presa di parola» (p. 528) e appropriazione del testo di partenza. «A mio avviso, nei casi in cui il testo di partenza è del tutto neutro, sarebbe sessista tradurre sistematicamente tutti i neutri come maschili, […] ma sarebbe inclusivo alternare entrambi i generi […]. Questa strategia potrebbe essere etichettata come “scelta contrappuntistica”» (p. 391). Caso emblematico di quanto l’uso inclusivo della lingua trovi però ancora poco spazio all’interno delle politiche editoriali è quello della traduzione in galiziano del romanzo di Mark Haddon The Curious Incident of the Dog in the Night-Time: dopo un conflitto divenuto pubblico, l’editore Barcia ha rescisso il contratto della traduttrice Reimóndez a causa delle sue scelte volutamente inclusive e ha ritradotto il testo, e lei lo ha portato in tribunale per violazione del contratto. La casa editrice ha dichiarato che la traduttrice aveva manipolato l’originale, non era stata fedele al testo fonte. Tuttavia, ci si chiede «su quali basi si possa dire che la traduzione del neutro “a windsurfer” con il maschile “un windsurfista” sia più fedele a rispetto a “unha surfeira”» (p. 399). È vero che la norma prevede che in galiziano il maschile abbia valore generico, ma forse era possibile aprire il testo a una lingua più inclusiva per evitare di riflettere una visione androcentrica della lingua che limita e marginalizza la rappresentazione della soggettività femminile.
Il libro presenta in chiusura una breve riflessione sull’uso di metafore femminili e matrimoniali per parlare della traduzione, che è stato uno degli ambiti professionali tradizionalmente riconosciuti come femminili: «Non solo la traduzione viene rappresentata in termini femminili e subordinati, ma viene anche caricata di un ulteriore stereotipo culturale e sessista attraverso il doppio parallelismo tra i concetti di fedeltà-bruttezza e infedeltà-bellezza» (p. 537). Secondo Baccolini e Illuminati sarebbe utile cercare nuove immagini più inclusive e delineare alternative per parlare della traduzione: «all’interno di queste proposte occorre distinguere due tipi di metaforizzazione: le metafore della “frontiera” (“borderland metaphors”) e le metafore “mitologiche” (“feminine myths or stereotypes”)» (p. 539). Nel primo gruppo la traduzione è associata positivamente alla frontiera come spazio ibrido, attivo e produttivo (attenzione: non riproduttivo!); il secondo gruppo di metafore recupera dall’oblio personaggi reali o immaginari e riscrive le loro vite avvicinandole al processo traduttivo: il mito di Pandora viene riletto in chiave positiva («il “pericoloso” vaso diventa una cornucopia, […]. Pandora è quindi ricchezza, pluralità, molteplicità, creatività» p. 539), così come la storia della Malinche diventa metafora della complessità della traduzione.
Nel finale si invita alla lettura di In altre parole (Milano, Guanda, 2015), libro in cui Jhumpa Lahiri riflette sull’atto dell’auto-traduzione e quindi sul tema dell’identità e rivendica la propria libertà di essere imperfetta e di posizionarsi negli interstizi tra lingue e culture: «Mi auguro che ogni libro al mondo appartenga a tutti, oppure a nessuno, da nessuna parte» (p. 551).
Possiamo senz’altro affermare che la percezione delle questioni di genere in traduzione sia cambiata negli ultimi decenni: la presenza di riflessioni sul genere nelle traduzioni si manifesta con segni tangibili, per esempio attraverso sempre più materiale paratestuale sull’argomento, così come è evidente la volontà di sempre più donne di discutere della propria attività traduttiva. Un esempio di questo mutato clima si ritrova nel premio Women Writers in Translation, istituito nel 2017, di cui parla Susan Bassnett nella prefazione.
Per concludere: «Questo volume sottrae le donne e la traduzione alla tradizionale invisibilità, restituendo la ricchezza e la complessità che caratterizzano non solo lo studio e la ricerca, ma anche la pratica traduttiva in questo ambito» (p. 522).