Hanno preso Pietro Paolo Fortress

Marta Boneschidi Marta Boneschi

A un certo punto dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo in traduzione italiana, John Reed fa irrompere un messaggero, il quale annuncia: «Hanno preso Pietro Paolo Fortress!», e il lettore dovrebbe compiangere il poveretto che, ormai privato della libertà, sarà certo ammazzato dai perfidi bolscevichi, forse qualche pagina più avanti, in quel tumulto sanguinario che è stata la rivoluzione d’ottobre.

Purtroppo niente di tutto questo è vero, salvo lo strafalcione: il 25 ottobre 1917 i bolscevichi si sono impadroniti della Peter Paul Fortress, come la chiama Reed, cioè della fortezza di Pietro e Paolo, come è nota in italiano. Benché fossi a quei tempi un virgulto, ero anche una ragazza ben imbottita del mito della rivoluzione d’ottobre, quindi consapevole di come era andata effettivamente la vicenda. Però ho mandato qualche maledizione all’ignoto traduttore, temperata soltanto più tardi dalla compassione per la sua ignoranza (oppure, chissà, dalla fretta di mettere insieme quel tanto di cartelle a esigua tariffa, giusto per tirare a campare).

Quando leggo, sento che il traduttore mi sta vicino, compagno invisibile e silenzioso. (Uso di proposito il termine al maschile, “traduttore”, come se fosse neutro, perché non aderisco alla moda pseudo femminista di voltare ogni professione, funzione e carica in neologismi come “ministra”, “direttora”, “falegnama” che dovrebbero, nelle intenzioni delle promotrici, far trionfare la piena parità dei sessi, e invece conducono la lingua italiana sull’orlo del ridicolo).

Il traduttore, dunque, mi disturba se non ha fatto bene il suo lavoro, ma mi delizia se non trovo intoppi nella lettura. Persone che non ho mai conosciuto hanno avuto un’influenza forte nelle mie letture. Per un bel pezzo ho creduto che Moby Dick fosse un libro esoterico, un’opera da maniaci della baleneria. L’ho piantato prima di aver toccato le trenta pagine, seccata di essere tagliata fuori da quel navigare incomprensibile tra parole cucite insieme da una sintassi e da una logica che non capivo. Tutta colpa, ho appreso diversi anni dopo, ormai raggiunta la mezza età, della traduzione di Cesare Pavese. Non è stato facile prendere Herman Melville nell’originale inglese, ma è sempre possibile chiedere aiuto a un dizionario, ragionarci sopra, intuire e indovinare, ma non sentirsi traditi.

Il problema, caso mai, sorge quando ci viene voglia di leggere autori giapponesi, svedesi, arabi. Allora dobbiamo fidarci, e diffidare quando incontriamo qualche cosa che non fila liscio. Non ricordo in quale testo saggistico ho letto che le operaie di una fabbrica cinese andavano nella stanza del riposo, presumibilmente nella “rest room”, ovvero a incipriarsi il naso, come succede di tanto in tanto alle signore dei romanzi vittoriani, dopo una cena elegante. Il compagno invisibile e silenzioso, in questo come in altri casi, mi ha regalato una bella risata. Ma come credere alle parole, alle pagine successive, quando si incontrano errori di tale portata?

Il compagno invisibile e silenzioso può fare come la zanzara, pungere e procurare un irritante prurito. E’ quel che capita quando troviamo in una storia poliziesca il “sistema giuridico” che in italiano si chiama “sistema giudiziario”, oppure la “corporazione” che nella nostra lingua definiamo la “società”. Che cosa dobbiamo fare? Una grattata metaforica, e il prurito è presto dimenticato. Una risata all’ignoranza, e tutto finisce lì, purché non si tocchi l’eccesso dello sposalizio tra ignoranza e provincialismo quando la traduzione, semplice semplice, è in una lingua straniera: è un fatto di cronaca degli anni cinquanta che ai Musei capitolini di Roma era esposta la statua del “Gallo morente” con il cartellino per i turisti francesi: “Le Coq mourant”.

Da Pietro Paolo Fortress in poi ho imparato che il traduttore cammina sull’orlo del burrone: un passo più in là e precipita, bollato come un traditore. Resta però una gratitudine infinita a tutti quei compagni invisibili e silenziosi che ci permettono di leggere senza intoppi: un tuffo nella trama, un mescolarsi ai personaggi, un volo nei mondi affascinanti della buona letteratura di paesi lontani. Immagino quanto abbiano faticato per tradurre, senza tradire, la lettera e lo spirito dell’opera. E alla fine non posso neppure ringraziarli, perché sono invisibili e silenziosi.