Cervantes, Shakespeare e la tripla falsità

UNA STORIA DI TRADUZIONI, FINZIONI E MERCATO DELL’INTRATTENIMENTO

di Giovanni Greco

Immature poets imitate; mature poets steal; bad poets deface what they take,
and good poets make it into something better, or at least something different
(T.S. Eliot, Philip Massinger [1920], in The Sacred Wood, London, Knopf, 1921, p. 112)
I poeti immaturi imitano; i maturi rubano; i cattivi poeti svisano ciò che prendono, e i buoni lo trasformano in qualcosa di migliore, o almeno di diverso

Et je vous avais bien averti, pourtant, tout à l’heure encore: l’arithmétique
mène à la philologie, et la philologie mène au crime …
(Eugène Ionesco, La leçon, 1950)
E dire che io l’avevo avvertita un momento fa: l’aritmetica conduce alla filologia e la filologia conduce al delitto
(Eugène Ionesco, La lezione, trad. di Gian Renzo Morteo 1954, i
n «Il dramma», XXX, n. 213, (15 settembre 1954)

Non ci sono prove documentali che Shakespeare e Cervantes si siano mai incontrati in vita, pur essendo sostanzialmente contemporanei. Il primo più complessivamente stanziale (vissuto tra il 1564 e il 1616), il secondo più fortunosamente nomade (vissuto tra il 1547 e il 1616), non hanno mai incrociato direttamente i propri passi, neppure durante il grande revival che la cultura ispanica visse a partire dal 1603 oltremanica con l’ascesa al trono di Inghilterra di Giacomo I, che creò grande attesa per una risoluzione positiva delle guerre spagnole di Elisabetta, soddisfatta con il trattato di Valladolid del 1605. Ne nacque un rinnovato entusiasmo per il mondo e la cultura spagnola fino al punto che qualcuno arriva ad affermare che This was the occasion […] when the creators of Hamlet and Don Quixote met face-to-face, Shakespeare having come to Spain in the train of Charles Howard, Earl of Nottingham(Wilson 2006, 28: Questa [la firma del trattato] fu l’occasione in cui gli autori di Amleto e Don Chisciotte s’incontrarono faccia a faccia, Shakespeare essendo venuto in Spagna al seguito di Charles Howard, conte di Nottingham – Hammond 2012, 37). Ma la tesi non trova riscontri, tanto che nello stesso luogo Hammond, forse con il miglior commento a tutta la questione che mi accingo a trattare, parafrasando sarcasticamente un passo famoso dell’Amleto, ironizza: ‘tis a consummation / devoutly to be wished (è un coronamento da augurarsi devotamente). Dunque, a meno di immaginarli faccia a faccia, come in un racconto di Borges, in limine Elisii o ad portas Inferi, a seconda del giudizio morale che si attribuisce alle loro esistenze, avendo entrambi, incredibilmente lasciato questa vallée de larmes lo stesso giorno dello stesso anno, il 23 aprile 1616, l’affermazione resta un bell’auspicio. Come un bell’auspicio in verità è il fatto che siano morti nello stesso giorno, secondo una di quelle coincidenze molto amate dagli antichi, perché pare confermato che Cervantes sia morto il giorno prima.

In realtà, smontato il castello delle coincidenze, in una forma molto controversa, la relazione intertestuale tra i due viene adombrata in un testo teatrale di più di un secolo dopo, scritto da un tal Lewis Theobald, con il titolo intrigante di Double Falsehood (Doppia falsità), che va in scena nel 1727 a Londra. Ma che rapporto esiste tra Double Falsehood, Theobald, Shakespeare (e il suo sodale degli ultimi anni, Fletcher) e Cervantes? Un rapporto complesso, per certi versi autentico, per altri molto probabilmente millantato, per altri frutto del grande ritorno a Shakespeare nel XVIII secolo, sentito come non più prossimo ai gusti dell’epoca ma d’altra parte come modello inevitabile (Praz 1948, IX-XXVII).

Il 13 dicembre 1727 debutta Double Falshood; Or, the Distrest Lovers, per la messa in scena di Lewis Theobald, presso il Royal Theatre di Drury Lane: il successo e il numero di repliche è tale che nel gennaio 1728 lo stesso metteur en scène pubblica il testo su cui si basa la messa in scena, con un frontespizio che reca la dicitura The History of Cardenius. By William Shakespeare and John Fletcher. Adapted for the eighteenth century stage as DOUBLE FALSEHOOD OR THE DISTRESSED LOVERS by Lewis Theobald (di W. Shakespeare e John Fletcher. Adattato per le scene del diciottesimo secolo come Doppia falsità o gli amanti addolorati da Lewis Theobald). Double Falshood or The Distrest Loverssi basa sulla storia di Cardenio che si trova nel Don Quixote di Miguel de Cervantes, la cui prima parte fu pubblicata nel 1605 in Spagna e tradotta in inglese nel 1612 da Thomas Shelton, benché circolasse già prima di allora. In realtà Shelton conduce la traduzione, accusata di un eccesso di letteralità, ma che godette di molto successo, su un’edizione del 1607, uscita a Bruxelles. Nella dedica spiega al suo patrono, Lord Howard de Walden, che [he] translated some five or six yeares agoeThe Historie of Don-Quixote, out of the Spanish tongue, into the English [] in the space of forty daies: being therunto more than half enforced, through the importunitie of a very deere friend, that was desirous to understand the subject (ha tradotto circa cinque o sei anni fa, La storia di Don Chisciotte, dallo spagnolo in inglese… nel tempo di quaranta giorni: essendovi più che quasi costretto dalla sollecitazione di un carissimo amico, che era desideroso di comprenderne l’argomento). Completerà l’opera nel 1620, con la traduzione della seconda parte, uscita sempre a Bruxelles nel 1616, a morte di Cervantes ormai avvenuta. Nel 1725 un consorzio di stampatori capeggiati da Richard Knaplock pubblicò una ristampa dell’edizione in-quarto del 1620 della traduzione di Shelton che fu probabilmente la scintilla definitiva per Theobald. A tutt’oggi documenti di archivio dimostrano che esistesse quasi sicuramente un dramma attribuito a W. Shakespeare e John Fletcher, dal probabile titolo The History of Cardenius, andato in scena nel 1613, e perduto. Ma di cosa parla esattamente Double Falsehood e in che relazione è con l’architesto cervantiano, nonché con lo stile, la lingua, la prassi versificatoria shakespeareana?

Diciamo prima di tutto che Shakespeare non conclude la sua carriera con la Tempesta (1610-11), ma che negli anni immediatamente precedenti la morte collabora con lo scrittore che lo stava rimpiazzando presso i King’s Men, John Fletcher, sicuramente per Henry VIII, poi per The Two Noble Kinsmen e quindi, sulla base dei pagamenti registrati a corte a nome dell’attore John Heminges, per un Cardenno o un Cardenna che va in scena l’8 maggio e il 20 giugno 1613. Un riferimento a questo stesso dramma riemerge nel 1653 ad opera del libraio Humphrey Moseley, editore dell’in-folio di Beaumont e Fletcher nel 1647, che inserisce nello Stationer’s Register un’opera singolare, The History of Cardenius. By Mr Fletcher. & Shakespeare (il punto dopo Fletcher è del registro ed è molto sospetto…). Si tratta di quel Moseley che con il suo socio, Humphrey Robinson, dichiarava di possedere trentotto drammi dei King’s Men e che in più di un’occasione millanta i suoi possedimenti letterari per incrementare il suo credito morale e materiale.

Moseley dichiara dunque una relazione consolidata con una compagnia legata a Shakespeare e alla fine della sua carriera, oltre che a Fletcher e all’inizio della sua. Dopo quest’attestazione il dramma deve aspettare il 1727 per riemergere in un’epoca e in una forma molto diverse dal punto di vista politico, culturale e teatrale che va sotto il nome di Restaurazione. A seguito della fine dell’epoca cromwelliana (cioè della Repubblica che molto spesso viene rimossa dall’orizzonte del dicibile nel mondo inglese), la Restaurazione riporta in auge autori, opere, temi dell’età d’oro del teatro elisabettiano e non solo (del 1728 è per esempio The Beggar’s Opera di John Gay, che ebbe un successo travolgente fino alle riprese novecentesche di Laurence Olivier e Bertolt Brecht): su tutti Shakespeare, di cui Theobald è stato pochi anni prima editore polemico di uno Shakespeare Restored (1726) in contrapposizione all’edizione dell’Amleto di Pope. Costui in seguito si scaglierà pesantemente contro l’attribuzione di Double Falsehood (cioè The History of Cardenius)a Shakespeare da parte di Theobald: lo stesso Pope, inizialmente molto amico di Theobald, arriverà a scrivere tra il 1728 e il 1729 una Dunciad (Asineide) nella quale ricorre la messa in ridicolo di Double Falsehood. Certo corrono tra le due epoche differenze sostanziali, innanzitutto dal punto di vista compositivo: la prassi della scrittura teatrale a quattro mani per esempio è molto diffusa in epoca elisabettiana e giacobita, prima della chiusura dei teatri ad opera dei puritani nel 1642, quanto lontana dal modus operandi degli autori del XVIII secolo. Questa prassi ci racconta di condizioni produttive e di un mercato dell’intrattenimento molto diversi da quelli di altre epoche, compresa la nostra, e di un’idea dell’originalità molto poco romantica: il teatro dei Marlowe, degli Shakespeare, dei Johnson, dei Webster e dei Ford, dei Fletcher e degli Heywood, rivendica una prospettiva impura sui testi, allo stesso tempo multipla e ibrida; ha necessità del successo popolare perché deve trarre profitto dall’atto poetico; asseconda un gusto e un orizzonte d’attesa “senecano”, che è quello della riscrittura cruenta del mito, della traduzione/adattamento che non va troppo per il sottile nell’ottica barocca del drama into the drama, che tornerà utile in seguito per decodificare l’operazione “mercantile” e “ibrida” di Theobald.

Ma veniamo alla vicenda di Double Falsehood. Si tratta del rifacimento drammatico-adattamento-traduzione dei capitoli che vanno dal XXIII al XXXVI della prima parte del Quixote, nei quali si racconta non continuativamente la storia della follia di Cardenio, intrecciata alla vicenda principale di Don Chisciotte e Sancho Panza. Sullo sfondo esotico dell’Andalusia, il libertino Henriquez (Don Fernando in Cervantes) stupra Violante (Dorotea) e quindi cerca di sposare Leonora (Luscinda), fidanzata del suo miglior amico Julio (Cardenio). Il fratello di Henriquez, Roderick, denuncia e dipana la doppia perfidia, riconciliando Henriquez con Violante e con suo padre, il Duca, e ricongiungendo Leonora a Julio che nel frattempo era fuggito sui monti, folle per l’amore tradito. Hanno un ruolo nello svolgimento anche i padri di Leonora e di Julio, Don Bernardo e Don Camillo: il primo inizialmente contento di rompere l’accordo matrimoniale con Camillo e Julio, in vista di un matrimonio migliore offertogli dal nobile Henriquez; finché la piega che gli eventi prendono non lo farà ricredere e i due padri saranno felici di benedire l’unione dei loro figli e dei rispettivi consorti. Una delle differenze fondamentali con l’opera di Cervantes è l’assenza dall’intreccio di Don Chisciotte e di Sancho Panza. Cardenio/Julio, preda di accessi di follia, e per questo rifugiato sui monti, s’imbatte in Sancho Panza e don Chisciotte e li picchia sonoramente. I due si erano avventurati sugli stessi monti sulle tracce letterarie di Amadigi di Gaula, per far penitenza nei boschi. L’altra differenza di fondo è proprio la questione della pazzia d’amore di Cardenio che fa in qualche modo da controcanto en abyme a quella dell’hidalgo nel romanzo e alla quale nell’opera teatrale si allude solo remotamente.

La trama di Theobald rispetto a quella di Cervantes è molto più lineare, senza intrecci secondari (peraltro caratteristici della drammaturgia shakespeareana) e il vero filo rosso è quello della virtù minacciata più che quello della follia: molte sono le eroine di Shakespeare – come Viola, Porzia, Imogene, Rosalind – che subiscono o potrebbero subire al pari di Violante, direttamente o indirettamente, un attentato alla virtù e che sfuggono o si camuffano finché gli eventi non volgono al meglio. Anche Violante/Dorotea si traveste da pastore e si rifugia sugli stessi monti di Julio/Cardenio (e di Don Chisciotte), dopo essere stata sedotta e abbandonata: lì i due s’incontreranno in una provvidenziale, quasi finale agnizione. La cornice intertestuale viene esibita senza troppi fronzoli da Theobald e il riferimento a Shakespeare e alla prassi drammatica del teatro elisabettiano è disvelata: il travestitismo, che è pratica sociale diffusa nel mondo elisabettiano e giacobita, pervade quel teatro che si serve di soli uomini per interpretare tutti i ruoli e gioca con grande sapienza e con grande malizia sulla questione dell’ambiguità di genere, che è consustanziale alla natura stessa del teatro fin dalle sue origini. Si pensi, tanto per fare un esempio, proprio al gioco di Shakespeare con Viola nella Dodicesima notte: un attore maschio che interpreta un personaggio femminile, che si traveste da uomo e che alla fine della vicenda ritorna donna essendo stato un uomo “travestito” da uomo per quasi tutto il dramma.

L’idea stessa dell’agnizione, anagnorisis o agnitio, sulla quale il teatro occidentale ritorna ossessivamente, si fonda sul riconoscimento cioè sul disvelamento finale dell’identità reale come motore imprescindibile dell’azione scenica e si costruisce quasi sempre en travesti, si gioca sul nascondimento e sulla rivelazione. Certo l’agnizione finale in Cervantes è un capolavoro di sguardi e di colpi di scena incrociati, nonché di conflitti camuffati e dissimulazioni trattenute a stento, figli di una scrittura che torna su sé stessa, non paga di una soluzione consolatoria. L’agnizione finale in Double Falsehood è, non priva di enfasi, ridotta nella sua portata emotiva, per certi versi preannunciata fin da molto prima della sua realizzazione, come un coup de théâtre mancato.

La critica ha speso molto ingegno a sceverare quel che in Double Falsehood è di Theobald, quel che sarebbe più propriamente di Shakespeare (soprattutto di Hamlet), quel che sarebbe di Fletcher (le parti stilisticamente più involute, nonché una passione per ambientazioni e autori di provenienza ispanica), quello che si può attribuire a passaggi intermedi a partire dalla traduzione di Shelton. Ha pertanto esibito uno scetticismo di fondo, che origina dall’enfatica introduzione che lo stesso Theobald antepone all’edizione a stampa, nella quale tra le altre cose afferma di possedere ben tre copie dell’originale – di cui non si trovano e non si sono mai trovate fino ad oggi tracce concrete, fino all’ipotetico, ultimo esemplare, tra i molti registrati nel tempo, che potrebbe essere bruciato nell’incendio del Museo del Teatro di Covent Garden, nel quale era custodito fino al 1808, anno della distruzione del Museo stesso (Hammond 2012, 10). La storia della trasmissione di questo testo ebbe grande seguito a suo tempo, anche perché nell’introduzione Theobald, oltre al ritrovamento di questo Shakespeare perduto, rivendicava in un preciso momento storico l’inglesità del suo teatro, solleticando gli istinti nazionalisti dei Whigs allora in auge. Eppure è una storia ricca di lacune e di congetture come nella migliore tradizione filologica (cfr. Chartier 2011). La filologia è sempre alla ricerca di un archetipo (indicato usualmente con lettera greca) il quale non s’identifica mai con l’originale d’autore, per assioma è andato perduto e deve essere ricostruito dalla collazione di ciò che è sopravvissuto della tradizione. Il catalogo delle lacune più o meno involontarie sarebbe lungo: si va dalla perduta commedia Don Chisciotte de la Mancia di Guillén de Castro, scritta tra il 1605 e il 1608 – contemporanea alla traduzione di Shelton nella fase precedente alla pubblicazione, che rielabora proprio la storia di Cardenio e che potrebbe essere passata tra le mani di Theobald – fino all’omissione della presenza di Chisciotte e Sancho dal plot che alcuni suppongono essere proprio di Theobald e non di Cardenio, perché Shakespeare e Fletcher li avrebbero integrati nella storia proprio a partire da Shelton stesso. In molti, ad esempio, si sono interrogati sui nomi dei personaggi che non corrispondono a quelli di Cervantes (Hammond 2012, 54-63): il cambiamento sarebbe dovuto forse alla corrispondenza con una commedia musicale, Comical History of Don Quixote (1694) di Thomas D’Urfey, dove i nomi dei personaggi coincidono con quelli di Cervantes, che riscosse molto successo in quello stesso torno di tempo e con la quale Theobald non volle entrare verosimilmente in competizione.

Double Falsehood è un prodotto del suo tempo: presenta tagli, omissioni, adattamenti di un gusto e di una sensibilità mutati, talora frutto dei limiti di Theobald e d’altra parte innovazioni rispetto alla trama e allo svolgimento di Cervantes, che introducono elementi interessanti dal punto di vista di un’idea ampia della traduzione teatrale da non intendersi solo come travaso interlinguistico. Alcuni esempi. Nella prima scena del primo atto il Duca Angelo, padre di Henriquez, è angosciato per la non irreprensibile condotta del figlio libertino, ma il rapporto padre/figlio evocato e abbozzato in potenza come suscettibile di dialettica drammatica, non viene minimamente sviluppato in seguito. Nella seconda scena Leonora (archetipo della “fanciulla restia” di molti drammi) stuzzica Julio rifiutandogli la mano, ma anche questo spunto viene subito e definitivamente fatto cadere nel seguito. Nella terza scena s’introduce il corteggiamento di Henriquez nei confronti di Violante, ma né qui né altrove si spiega il rapporto di Violante con gli altri personaggi (chiaro invece in Cervantes) e quando nel quarto atto si verifica il riconoscimento tra lei e Julio/Cardenio sui monti, nessuno ha avuto contezza di come, se mai, si siano conosciuti prima. La confessione dell’avvenuto stupro da parte di Henriquez viene udita da due personaggi neppure nominati tra le dramatis personae, Fabiano e Lopez, che raccolgono con disagio quelle parole, ma non ricompariranno più dopo la prima scena del secondo atto. C’è chi nota in questo caso la possibilità che sia stato soppresso un intreccio secondario. Altri invece ritiene che il modello cui Theobald attinge sia quello de Il ratto di Lucrezia ovvero di Troilo e Cressida di Shakespeare, testi a lui molto noti, che più volte tornano citati quasi letteralmente. Si potrebbe andare avanti a lungo, integrando alle “goffaggini” drammaturgiche e talora linguistiche (come l’alternanza tra thou e you riferita talora allo stesso personaggio), alcune innovazioni interessanti come la canzone di Violante in 4.2, Sciocca Eco, abbandona il tuo canto leggero, viatico all’agnizione, che, se da un lato richiama il canto di Ariel ne La tempesta, dall’altro sigilla un nodo fondamentale dell’azione in una forma non banale. E comunque si sottolinea da più parti come gli ultimi due atti di Double Falsehood siano comunque quelli meglio riusciti e per certi versi più vicini all’originale di Cervantes. Si potrebbe exempli gratia tra le altre evidenziare, di nuovo in 4.2, una citazione quasi letterale del Don Quixote: Since she’s not Leonora, she’s heav’nly, che corrispondono alle parole pronunciate da Cardenio nell’originale di Cervantes – no es Luscinda, no es persona humana, sino divina (Primera parte, capítulo XXVIII) – come veicolate da Shelton. Ma nel viluppo indistricabile tra conservazione e innovazione, nel continuo rimescolamento delle carte è probabile che nell’evoluzione del dramma, oltre al contributo di Fletcher, se ne siano insinuati altri, taciuti o mascherati, di Messinger e poi di autori della Restaurazione come Davenant e Betterton, Gildon e Tonson, da molti indicati come ulteriori tappe intermedie prima dell’avvento di Theobald.

La forma nella quale alla fine si presenta Double Falsehood è quella di un palinsesto (su cui, in contesto differente, si può vedere Mambrini 2012), di un ibrido suo malgrado, di un prodotto meticcio a tutti i livelli, in un intreccio di consapevolezza e di attenzione spasmodica agli orizzonti d’attesa del suo tempo da parte dell’autore. Persino l’aspetto metrico, nella dialettica che sistematicamente investe i testi shakespeareani tra poesia e prosa, intese come motori distinti e concorrenti dell’azione drammatica, viene molto spesso ridotto, non concluso, svuotato della coerenza e della pregnanza che assume in drammi come l’Amleto o l’Otello dove l’alternanza è sempre significativa. I versi restano spesso monchi e il passaggio dalla poesia alla prosa o viceversa non risulta sempre perspicuo e cogente come è quasi sempre in Shakespeare e nei suoi contemporanei.

Certo ci sono quelli che parlano delle molte rime interne di Double Falsehood come di un segnale inconfondibile di “shakespearismo” e quelli che lanciandosi sul terreno scivolosissimo dei criteri stilometrici, degli anacronismi della grafia, dell’uso frequente di certe figure retoriche come l’endiadi (parrebbe molto amletica…), di certi algoritmi che ingabbiano prevalenze di terminazioni femminili su quelle maschili (tipici di Fletcher) nella ricorrenza dei pentametri giambici, rivendicano l’autenticità di larghe parti del dramma, della loro irrevocabile testimonianza di un’epoca e di una scrittura diverse da quelle di Theobald. A me pare invece, al di là delle patenti di autenticità, che sia proprio questa configurazione stratigraficamente disomogenea che ha comportato la relativa sfortuna dell’opera e dell’autore nei decenni e nei secoli successivi: questa impurità ne ha decretato l’anatema sia dal punto di vista della ricerca filologica che dal punto di vista delle messe in scena. Tanto che tutta la carriera di Theobald viene marchiata come quella di un falsario incallito, talora non senza fondamento. Si pensi che tra le molte accuse di essere un ladruncolo e un plagiario c’è quella di Henry Mesteyer, orologiaio, che, dopo la messa in scena di The Perfidious Brother del 1716 ad opera di Theobald, che ne curava anche la drammaturgia, dichiara nella prefazione alla propria pubblicazione dello stesso anno che quel testo è il rimaneggiamento del suo copione messo in mano l’anno precedente a Theobald stesso che, come al solito, lo avrebbe infarcito di Shakespeare (Otello in questo caso) e fatto passare per suo.

Nel XVIII secolo il dramma viene messo nuovamente in scena da Theobald nel 1740 e poi, dopo la sua morte (avvenuta nel 1744), tre volte: nel 1770 e nel 1791 al Covent Garden, e nel 1793 fuori Londra, a Bath, dove riscuote ancora qualche successo, seppur rimaneggiato e inzeppato di canzoni e di accompagnamenti musicali per renderlo più fruibile nel mutato contesto. A partire dal XIX secolo e fino ad anni recentissimi, tutte le messe in scena di Double Falsehood (non moltissime) sono proprie di un repertorio dilettantesco e amatoriale e molti dei recensori evidenziano, in un modo o nell’altro, che if Shakespeare wrote it […] the world has lost little by its absence (se si trattasse davvero di Shakespeare non ci saremmo persi molto): così scriveva ancora sessant’anni fa, nel dicembre del 1955, il recensore del «Nottingham Evening News», ribadendo un giudizio che con poche sfumature si è ripetuto nei secoli).

È con il XXI secolo, quando ormai il pastiche è diventata la forma ossessiva dell’estetica postmoderna e la Kreuzung der Gattungen, l’incrocio dei generi, l’impronta digitale del gioco estetico contemporaneo, che La storia di Cardenio torna di moda, dando inizio a una sorta di ricerca del Santo Graal. Molteplici messe in scena, fioritura di studi dedicati, romanzi sull’argomento in chiave di detective story: da citare almeno Lost in a Good Book di Jasper Fforde (2002) dove si indaga su una certa Mrs Hathaway che ha trovato una copia del dramma Cardenio; del 2007 è Interred with Their Bones dell’americana Jennifer L. Carrell, pubblicato in Inghilterra come The Shakespeare Secret, e del 2008 è Looking for Cardenio della canadese Jean Rae Baxter, nati sulla falsariga del grande successo del Da Vinci Code di Dan Brown che è del 2003. Infine l’accoglimento del dramma nella prestigiosa collana «Arden», dove sono magistralmente pubblicati gli opera omnia di Shakespeare, ridefinisce un interesse fino ad allora quasi inesistente nella prospettiva della canonizzazione della linea minore (tipica dei nostri tempi) e declina una volta di più l’idea della tradizione come una lunga sequela di traduzioni, forse anche tradimenti, sicuramente slittamenti reiterati dei confini del gusto e del senso. L’apocrifo, cioè l’eretico, acquista una dignità non in sé, ma in quanto documento di un’opera fatta di giustapposizioni e di approssimazioni e viene ritradotto, rimesso in scena, distillato in mille setacci alla ricerca del grano “originale”. È degli stessi anni la grande, esemplare passione per il Papiro di Artemidoro, sul quale vengono spesi molti soldi e molta acribia per esaltare la grandezza di un ritrovamento epocale che si rivelerà ad un’attenta disamina il falso di un plagiario al quale Theobald forse non sarebbe degno di allacciare il legaccio dei sandali: Costantino Simonidis, che riesce a far passare un falso da lui congegnato alla fine del XIX secolo per un papiro del I sec. a. C. attribuito al geografo Artemidoro di Efeso (si veda per uno status quaestionis un po’ di parte, ma incontrovertibile, Canfora 2010).

Double Falsehood è quello che si direbbe un patchwork e che in epoca tardo-antica si sarebbe detto un centone ovvero un testo composto da un collage di frasi, scene, versi di autori od opere diversi, di tempi diversi, unite a formare un’opera “originale”, in una forma di dialogo intertestuale che dal punto di vista della traduzione ribadisce la famosa massima che “tutto quello che non è tradizione è plagio”, nella prospettiva secondo la quale la traduzione è sempre un incontro di poetiche, un incontro talora impari ma combattuto, talaltra -come nella nostra epoca – dichiaratamente perdente: il classico non più imitabile né emulabile, ma che si dà all’apprezzamento dei contemporanei come sinonimo di resa, di ineguagliabilità che si può solo ricomporre in un puzzle contraffatto. Il gesto di Theobald, così velleitario e goffo per molti versi, si mostra in verità come un gesto ermeneutico di tipo teatrale, moderno per eccellenza: il gesto del regista che prova a tenere insieme stimoli e sollecitazioni diverse nella rischiosissima contingenza dell’evento scenico che resta unico, parziale e partigiano, irriducibile, tradotto una volta per sempre e proprio per questo invecchiato all’istante nella performance. Theobald, tra tagli, omissioni, incorporazioni d’altri passate sotto silenzio e inserti personali ostentati come altrui, agisce come un vero e proprio metteur en scène sul suo copione, rendendo il copione stesso, fatto di infinite escrescenze e non indolori amputazioni, un ircocervo, molto probabilmente in malafede, come sono molti testi/copioni teatrali. Perché la traduzione, e quella teatrale con tutte le sue peculiarità semiotiche esposte altrove (cfr. Greco 2013), è anche questo «cercare, come si può, di far quadrare il cerchio» (Nasi 2015, 37) a qualunque costo, tenendo fortunosamente insieme intentio auctoris, intentio lectoris, intentio operis. Soprattutto quando c’è di mezzo il mercato, il pubblico, la committenza. Negli ultimissimi anni si sono susseguite moltissime messe in scena del testo di Theobald che si sono comportate secondo moduli ricorrenti: alcune rivitalizzando e integrando le figure di Don Chisciotte e Sancho Panza nell’azione; altre, non poche, riscrivendo Cardenio sulla base di The Second Maiden’s Tragedy, sulla base dell’ipotesi proposta da Hamilton (1994), secondo la quale l’opera omonima attribuita a Thomas Middleton (1611) sia in realtà la versione autentica dell’opera di Shakespeare e Fletcher; altre ancora riadattando intere scene e personaggi, secondo uno stile di volta in volta più involuto e fletcheriano o più disinvolto e shakespeareano, recuperando i nomi originali di Cervantes o inserendo brani di Cervantes all’interno della messa in scena.

La malafede finisce col sublimare le intenzioni del plagiario, del parodista, del contraffattore che ne viene a posteriori sopraffatto/contraffatto suo malgrado. Mi viene in mente una storia forse pertinente, forse solo molto tangenziale rispetto al discorso finora svolto, con la quale chiudere. Alla morte dell’imperatore Claudio, del divo Claudio, nel 54 d.C. il Senato ne decreta la divinizzazione, l’apoteosi, come da prassi; quasi simultaneamente Seneca che, per colpa di Claudio e più forse della moglie Messalina, aveva patito l’esilio da Roma, compone una Apokolokynthosis, una contraffazione dell’apoteosi, una assunzione in cielo in veste di zucca (kolokyntha in greco), o meglio una zucchificazione dello ‘zuccone’ Claudio che in forma satirica deride le doti di un sovrano considerato autoritario e poco capace, nonché involuto nell’espressione e balbettante citazioni dotte (cap. 5, 2-7). Per certi versi quest’opera di Seneca è un unicum: satira irriverente, parodia di genere, ibridazione di registri deturpano l’assunzione in cielo dell’imperatore, rovinano la festa, abbassano il tono, codificano l’inversione dei piani e degli stili nella più nitida logica carnevalesca. L’idea del sovvertimento, dell’avvilimento, della desacralizzazione è in fondo la maschera autentica della traduzione, di una trasformazione che viene rivalutata in un’ottica che non intende la traduzione come puro e semplice passaggio, ma come ‘carnevalata’ necessaria che emmerde in maniera sublime l’idea che poetry is what gets lost in translation (ciò che va perso in traduzione è la poesia), secondo la famosa affermazione di Robert Frost.

La traduzione che Seneca fa dell’apoteosi imperiale guasta i confini rassicuranti fra traduzione, adattamento, riscrittura, parodia ovvero manipolazione, mettendo in ombra il concetto di ‘originale’, nume romantico, che troppo spesso condivide la sua purezza cristallina con quello di ‘originario’. I cialtroni, i falsari, i plagiari, i piazzisti sono il viatico della traduzione come forma impura, come inesauribile compromissione e rinegoziazione che rimescola l’alto con il basso e il centro con la periferia: in fondo se il progetto di Seneca era quello di umiliare ancora di più la già non solida reputazione dell’imperatore, la sua operazione riesce piuttosto nell’intento di riumanizzarlo proprio nel mentre lo “zucchifica”. Lo traduce in forma avvilente, parodica, ma ne viene tradito, disvelato in un senso opposto. Autodenunciandosi come falso e celebrandone la falsità. Che è il titolo fin troppo smaccatamente assolutorio che il nostro Theobald appone al suo dramma, Double Falsehood: certo come sintesi pregnante del duplice intrigo della vicenda, della menzogna e dell’inganno che Henriquez impone sia a Julio che a Violante; di una falsità che è tradimento dell’amicizia, dell’amore, della stessa morale di cui è pervaso spesso didascalicamente l’intero dramma (e che è già una traduzione-manipolazione di Cervantes in chiave settecentesca). Eppure la falsificazione che attraversa anche come dissimulazione e travestimento ogni personaggio e ogni scena di Double Falsehood, s’insinua chissà quanto inconsciamente come autodenuncia dell’operato del falsificatore che, provando così manifestamente a nascondersi, lascia intravedere una possibile articolazione positiva della dialettica realtà/apparenza nella direzione dell’apparenza, un lapsus non del tutto accidentale dell’eterno, irresolubile conflitto tra vero e falso, nella direzione dell’apoteosi del falso e della mistificazione. Che è il nome vero della traduzione.

Bibliografia

Baxter 2008: Looking for Cardenio, Hamilton, ON, Seraphim Editions

Canfora 2010: Luciano Canfora, Il viaggio di Artemidoro, Rizzoli, Milano

Carrell 2007: Jennifer Lee Carrell, Interred With Their Bones, New York, Dutton (edizione britannica: The Shakespeare Secret, London, Sphere, 2008; traduzione italiana: W, di Giovanni Garbellini, Milano, Rizzoli, 2007)

Chartier 2011: Roger Chartier, Cardenio entre Cervantès et Shakespeare. Histoire d’une pièce perdue, Paris, Gallimard

Fforde 2002: Jasper Fforde, Lost in a Good Book, London, Hodder & Stoughton

Greco 2013: Giovanni Greco, Il teatro della traduzione. Attori e personaggi sulla scena del tradurre, in «tradurre. pratiche teorie strumenti» n. 5, autunno 2013 (https://rivistatradurre.it/2013/11/il-teatro-della-traduzione/)

Hamilton 1994: Charles Hamilton, Cardenius or The Second Maiden’s Tragedy, Lakewood, Col.

Hammond 2012: Brean Hammond, Introduzione, a William Shakespeare e John Fletcher, Doppia falsità, nell’adattamento di Lewis Theobald, a cura di Brean Hammond, Milano, BUR (traduzione di Silvia Bigliazzi da Brean Hammond, Introduction, in William Shakespeare, Double Falsehood or the distressed lovers, edited by Brean Hammond, London, Arden Shakespeare, 2010, pp. 1-160: Bigliazzi è la traduttrice dell’intero libro)

Mambrini 2012: Simona Mambrini, La traduzione: una scrittura à contraintes. La disparition di Georges Perec, o la traduzione come palinsesto, in “InTRAlinea” 14, http://www.intralinea.org/archive/article/1825

Nasi 2015: Franco Nasi, Traduzioni estreme, Macerata, Quodlibet

Praz 1948: Mario Praz, Teatro elisabettiano, Firenze, Sansoni

Richard Wilson, “To great St. Jacques bound”: All’s Well that Ends Well in Shakespeare’s Spain,in Entre Cervantes y Shakespeare / Between Shakespeare and Cervantes: Trails along the Renaissance, edited by Zenon Luis-Martínes e Luis Gomez Canseco, Newark, NJ, Juan de la Costa, 2006, pp. 15-37