UN CONVEGNO SU LAVINIA MAZZUCCHETTI
di Gianfranco Petrillo
Quello di Lavinia Mazzucchetti (1889-1965) è un nome mitico, sia per i germanisti italiani sia per chi si occupa di storia dell’editoria. Ma non è che se ne sappia molto. Bene ha fatto quindi la (noi questo articolo, soppresso per calco anglofilo ormai sia nei media sia dagli stessi operatori, insistiamo a usarlo) Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a mettere insieme un “Laboratorio Mazzucchetti”, in collaborazione con le Università di Catania e Verona, l’Istituto italiano di studi germanici e il Goethe Institut, rappresentati da Massimo Bonifazio, Luisa Finocchi, Arturo Larcati, Mario Rubino e Michele Sisto. Se ne sono colti i primi frutti il 29 gennaio scorso in un intenso e vivace convegno nella stessa sede della Fondazione, a Milano. Al nome della studiosa/critica/giornalista/docente/traduttrice/consulente editoriale/militante antifascista, il titolo del convegno aggiungeva Transfer culturale e impegno civile nell’Europa del Novecento.
Diciamolo subito: c’è ancora da lavorare perché si precisino meglio i contorni di questo binomio. Qualcosa sfugge ancora, forse proprio per la ricchezza e la poliedricità del personaggio, ma forse anche perché il primo approccio degli studiosi presuppone una sistematicità che mal si adatta a chi si occupa prevalentemente – come si trattava nel caso di Mazzucchetti – di lavoro editoriale. E il merito maggiore del convegno è stato forse quello di costringere a guardare in faccia la realtà corposa e concreta di un’attività che non ha mai perso di vista lo scopo finale di qualsiasi “transfer culturale” che si affidi allo strumento libro: il fatto cioè che quel libro deve arrivare in mano a lettori in carne e ossa, il più possibile numerosi, se si vuole che, prima di tutto, il transfer avvenga e, in secondo luogo, possa proseguire con altri libri. Tanto è vero che è suonata stonata una domanda dal pubblico che, rilevando l’assenza di Schleiermacher tra i nomi tenuti in conto da Mazzucchetti nei suoi appunti “teorici” sulla traduzione – brillantemente illustrati da Natascia Barrale –, era accompagnata da una fervida professione del più convinto credo dei translation studies: “portare” il lettore al testo originale e non viceversa. Subito c’è stato un coro sugli “addomesticamenti” che i libri stranieri subivano (solo allora?) nelle traduzioni italiane, conseguenza inevitabile della necessità di pubblicarli e venderli.
E così ha assunto una collocazione molto proficua l’osservazione di Mariarosa Bricchi, nel corso della sua bella comunicazione sulle schede di lettura di Mazzucchetti per Mondadori, circa la lucidità con cui la consulente non perdeva mai di vista la pubblicabilità o meno del libro in esame: una norma che solo in pochi casi si era scontrata con l’invalicabile ostacolo della sua intransigenza etica. D’altronde Paola Maria Filippi ha ottimamente chiarito che Mazzucchetti – al contrario di Ervino Pocar e ancor più di Vincenzo Errante – non «ha il coraggio di formulare una teoria propria» della traduzione, ma distingue il «valore» di una traduzione dalla sua «efficacia», ossia la capacità di promuovere un autore all’interno della cultura italiana, come per esempio riuscì a fare Andrea Maffei negli anni venti dell’Ottocento adottando uno stile neoclassico per rendere Schiller. Per lei una traduzione è opera nuova che entra a titolo proprio nel sistema letterario italiano. E in quanto a sua volta traduttrice di Schiller Mazzucchetti, affrontando il Fiesko, ne studia attentamente tutta la complicata storia editoriale. Si tratta per lei non di stabilire una teoria estetica, ma piuttosto un’«etica della traduzione»: per lei la traduzione varia – aveva concluso Barrale sulla base degli appunti trovati in archivio – al variare della sua funzione.
L’intransigenza etica le proveniva prima di tutto dall’ambiente familiare, come ha illustrato ampiamente Mario Rubino ricordando la figura del padre Augusto, giornalista del diffuso e autorevole quotidiano radicale milanese «Il Secolo» e amico di Turati e di altri esponenti della sinistra moderata tra fine e inizio secolo. Ma poi anche dal magistero di Pietro Martinetti, di cui ha informato Anna Antonello. Proprio per preparare la tesi in filosofia teoretica con lui Mazzucchetti si mise a studiare il tedesco, finendo con l’appassionarvisi e col rinunciare alla filosofia per dedicarsi a una tesi su Schiller. I soggiorni in Germania e le collaborazioni giornalistiche da lì, che non si occupavano solo di letture ma anche di vita quotidiana, le diedero la spinta a passare dalla coltivazione dei classici all’attenzione per la letteratura tedesca contemporanea, di cui diventò una delle massime traghettatrici nel “campo letterario” italiano, finendo con l’avere, quale “scout” – si direbbe oggi – per la letteratura tedesca nell’editoria italiana, un ruolo analogo a quello avuto – ha osservato Bricchi – da Elio Vittorini per quella americana. In questa conversione dall’accademismo alla contemporaneità un peso importante – ha ricordato Anna Antonello nel profilo biografico introduttivo, forzatamente succinto – ebbe la collaborazione con la rivista «Il Convegno» di Enzo Ferrieri.
Nel 1929 Mazzucchetti avviò la collana «Narratori nordici» per la Sperling & Kupfer. Lo fece con la propria versione di Unordnung und frühes Leid (Disordine e dolore precoce) e Herr und Hund (Cane e padrone) di Thomas Mann. Non erano i primi scritti di Mann presentati in Italia, in quanto l’editore Morreale di Milano aveva già pubblicato fin dal 1926 Ora greve e Tristano di Alberto Spaini e Rosa Pisaneschi e Tonio Kröger a cura di Guido Isenburg. Ma coincise tempestivamente con l’assegnazione del Nobel e fu l’avvio di un impegno che, trasformatosi anche in calorosa amicizia, passò anche attraverso la divulgazione clandestina delle versioni di scritti “politici” manniani durante il fascismo e culminò nella pubblicazione mondadoriana dell’opera omnia del grande scrittore tedesco in italiano a cura di Lavinia negli anni cinquanta del Novecento: tema che richiederebbe di per sé un convegno di studi. Dei rapporti con Mann ha riferito Elisabetta Mazzetti, che ha parlato anche di quelli, molto meno lineari e idilliaci, con Hans Carossa, al quale Mazzucchetti non perdonò alcuni opportunistici cedimenti. Il suo antifascismo, per il quale si era vista troncare sul nascere la carriera accademica, è stato illustrato da Giorgio Mangini soprattutto con l’indicazione dei suoi rapporti con Ernesto Rossi, che la fanno collocare idealmente nell’area di Giustizia e libertà dapprima e vicina al Movimento federalista europeo poi. A sua volta Gabriella Rovagnati ha riferito della documentazione riferentesi a Mazzucchetti che si può trovare presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach e che mette anche sulle tracce della Mazzucchetti promotrice di letteratura italiana in Germania.
Il “Laboratorio Mazzucchetti” ha potuto contare sulla massa documentaria conservata presso l’archivio della Fondazione Mondadori concernente quella che Enzo Collotti, nel suo “coccodrillo” sull’«Unità», definì «la donna che contrabbandò Thomas Mann in Italia». Anna Lisa Cavazzuti, che è la responsabile di quell’archivio, ne ha dato sinteticamente conto, suscitando il desiderio che si vada più a fondo e che si estenda la ricerca su una figura che, al di là dei meriti intrinsechi del suo operato, merita attenzione soprattutto per l’originalità impressa alla sua attività professionale.
Contestualmente al convegno la Fondazione Mondadori ha pubblicato un fascicolo delle sue «Carte raccontate» a cura di Anna Antonello, «Come il cavaliere sul lago di Costanza». Lavinia Mazzucchetti e la cultura tedesca in Italia, che raccoglie, oltre alle note biografiche della stessa Antonello, contributi di: Mario Rubino sul confronto con la cultura weimariana; Arturo Larcati sul rapporto con Stefan Zweig; Michele Sisto e Massimo Bonifazio sulla consulenza editoriale con Mondadori nel secondo dopoguerra; e di Annalisa Cavazzuti a proposito dell’archivio.