Del traduttore come povero Calibano*

di Edoardo Albinati

1.

albinatiLamentandosi del proprio destino il traduttore mette le mani avanti: quel che sono riuscito a fare io – difficile! difficilissimo! – non sarà mai bello come l’originale, dice. Neanche lontanamente. È costretto, il traduttore, ad abbassare la fronte, con un’umiltà che magari non ha per nulla quando scrive di testa sua. Se questo confronto drammatico accade puntualmente ogni volta che si traduce,  con Shakespeare diventa una dura e frustrante lezione, anzi una specie di punizione per l’incauto. La dismisura può essere sul serio umiliante, come in quel famoso disegno di Füssli, dove si vede un artista moderno in preda all’angoscia, mentre medita accanto all’enorme piedone di marmo di qualche colosso romano. Come si fa a competere con quella roba? Con quell’ordine di grandezza? Tutto possiamo provare a essere nella nostra vita, insomma, tranne che Shakespeare. Personalmente trovo giusto commisurarsi agli scrittori del passato, pesare con la stessa bilancia e senza la  minima autoindulgenza le nostre pagine e le loro. La sfida insegna a non dare troppa importanza a ciò che facciamo e a non darne troppo poca. Perché un uomo politico di oggi, tanto per guardarci intorno, non dovrebbe paragonare se stesso a Metternich o a Talleyrand per stabilire se sia più o meno abile di loro? Il campo, le regole sono più  o meno le stesse. I problemi cominciano quando gli viene in mente di competere con Alessandro Magno, o Louis XIV…

2.

La lingua di Shakespeare nella Tempesta è solo ed esclusivamente, quasi furiosamente, poetica. I personaggi parlano poesia (attenzione: dico così perché l’espressione “parlare in poesia” stavolta non ha proprio senso, dato che i personaggi della Tempesta non si limitano a scandire  in metrica un discorso che potrebbe anche essere espresso altrimenti, bensì vengono trascinati a dire ciò che dicono – esaltanti e ipnotiche tirate di passione, odio, stupore, maledizione, sogno – quasi contro la loro volontà e come obbligati dall’immensa forza di traino del verso scespiriano: è insomma la radicalità stessa della forma poetica che induce ciascun personaggio a raggiungere rapidamente il climax  del proprio sentimento); e ora se questo parlar poesia è abbastanza ovvio per Prospero e per l’alato Ariel, nonché per la coppia amorosa Miranda/Ferdinando – che inizia duettando nel codice petrarchesco d’obbligo ma presto lo infrange perché l’urgenza “selvaggia” di Miranda  non sa rispettare le raffinate e giocose schermaglie del corteggiamento, ma ama, ama e basta, ama anche senza parole – ebbene, ammettiamo che è molto è più sorprendente ritrovare poesia sulle bocche di altri più prosastici personaggi. Eppure, la poesia di Shakespeare consiste  esattamente in questo processo: nell’estrazione brutale e spicciativa della radice umana dalla figura teatrale che la riveste. Così, dopo aver indugiato attraverso un giardino di fiorite espressioni diplomatiche, il buon Gonzalo, abituato per mestiere a carezzare, potrà trafiggere gli altri nobiluomini e prima di tutti se stesso, compiendo una specie di clamoroso seppuku di cortigiano, con una lama di follia anarchica: il lancinante vaticinio di una società rovesciata dalle fondamenta.

… nessuna carica di magistrato;
niente leggere e scrivere, e la ricchezza, la povertà
e la servitù, abolite; contratti, successioni
confini catastali di campi, vigne, proprietà, aboliti…

[… no name of magistrate.
Letters should not be known. Riches, poverty,
and use of service, none. Contract, succession,
Bourn, bound of land, tilth, vineyard, none
(II, 1, 150-153).]

E poco più avanti, nel secondo atto, abbiamo una simile spirale poetica quando  Antonio cerca di convincere Sebastiano ad ammazzare il fratello e prendere la corona, solo perché il re dorme indifeso e l’occasione è  propizia

… Qui giace tuo fratello
non migliore della terra su cui giace
come fosse già quello che appare – cioè, morto –
io con tre pollici di questa lama ubbidiente
lo metterei a dormire per sempre…

[…Here lies your brother,
No better than the earth he lies upon
If he were that which now he’s like – that’s dead –
Whom I with this obedient steel, three inches of it,
Can lay to bed for ever…
(II, 1, 282-286)]

Non si può nemmeno immaginare la forza devastante di questa apologia dell’omicidio politico, di questo breve ma efficacissimo manuale per un colpo di Stato-lampo, se si prescinde dall’intreccio poetico-visivo da cui prende origine: la posizione dei corpi nello spazio, due in piedi, svegli (Antonio e Sebastiano), e due sdraiati nel sonno (Alonso e Gonzalo); la morte palpabile e continuamente aleggiante in un discorso dalle pieghe svagate; lo spiffero gelido di una tentazione che si insinua tra due uomini, di poter cambiare il destino del mondo con una lama da tre pollici.

Antonio e Sebastiano, voglio dire, debbono parlare poesia, affinché nulla sia nascosto tra le parole o camuffato da teoria –  cioè, la teoria colpisce tanto più forte quanto più prossima la mano armata che può metterla a segno. Qui a Shakespeare bastano pochi versi, una sessantina, per illustrare e chiudere un argomento che un qualsiasi trattatista politico avrebbe seppellito sotto decine di capitoli fitti di citazioni. La cadenza del contrappunto dialogico, e la pulsazione coatta del giambo che ansima dentro il blank verse, producendo una tensione quasi insostenibile al suo interno, premendo  sulle pareti di questa cellula sapienziale-narrativa (cioè che è capace di raccontare e riflettere come se fossero la stessa cosa, e in poesia lo sono) – tali effetti poetici mettono in moto la macchina narrativa e la accelerano bruscamente, portandola in mezza pagina a un regime di velocità che è quasi impensabile raggiungere con la prosa. In poche battute, passiamo da futili chiacchiere a un duplice omicidio. La poesia conosce scorciatoie mozzafiato, e il suo slancio versuale produce sempre un abbrivio delirante: nessun momento di discorso è innocuo, da un verso all’altro potrebbe darsi una piega pazzesca della storia: anzi, è proprio l’interruzione-legatura tra un verso e il successivo a creare quella piega o quel baratro. Ogni singolo verso crea, narrativamente, una peripezia: e i personaggi risucchiati ci precipitano dentro.

Ma più ancora sono stupefacenti le risorse di Calibano. È un mostro, d’accordo, eppure è l’unico capace di suonare, di spalancare tutti i registri. Forse sta proprio in ciò la sua mostruosità. Ogni volta che apre bocca, un fiume di poesia si riversa fuori spinto da una forza panica tale che quasi quasi è lui il primo ad esserne spaventato. Siano insulti e imprecazioni o le filastrocche cullanti sulla sua isola fatata, siano gli urli di paura per i tormenti che gli infligge Prospero o i barocchi progetti per ucciderlo, ogni volta che Calibano parla è la musa che fa capriole. Mai un diaframma,  in Calibano, una parola detta tanto per dire, per prendere tempo e fiato, mai una mediazione o un accomodamento:  bestemmia o loda, canta di gioia oppure urla per il dolore. La lingua che Miranda gli ha insegnato, lui non può usarla per normali conversazioni, ma solo agli estremi arcaici della potenza, ai massimi voltaggi. (Maledire, pregare: usi primari della parola, i più antichi). Persino durante i sipari comici con Trinculo e Stefano (e sulla lingua che parlano questi altri due ci sarebbe da scrivere un libro: una miscela satura di squisitezze macaroniche, cortocircuiti di senso, calembour, smarronate bibliche, parlar forbito, geniali storpiature di sintassi, inaudite e inaudibili figure del discorso –  insomma quel genere di roba che “purtroppo va perduto nella traduzione…”); persino azzuffandosi coi suoi compari, il povero mostro non cessa di parlare poesia: non stacca la spina di questa corrente che dalla terra gli sale nel corpo deforme.

3.

(Contraddizione del lavoro di traduttore: si scrive da soli, curvi sul tavolo, ma non si è affatto soli).

4.

Ho sempre pensato che la lingua da usare nella traduzione debba essere contemporanea. Onestamente contemporanea. Inutile quando non addirittura farsesco tentare un calco d’epoca, cioè, nel caso di Shakespeare, tradurlo in un italiano seicentesco o in qualche modo “anticato”, e nelle forme metriche equivalenti. Primo perché nel loro sviluppo le lingue (le culture) non corrispondono mai tra loro, secondo perché l’esigenza antiquariale finisce per esaurire le risorse del traduttore in uno sforzo puramente tecnico, il cui risultato può essere al massimo una sorta di pareggio algebrico con l’originale, una chiusura di conti, ed è, in definitiva, un ennesimo modo per salvarsi le chiappe con la scusa della filologia, se la traduzione in fondo suona brutta perché scritta in una lingua che non appartiene a nessuno, non all’autore e ai suoi tempi e tantomeno a noi.

Il caso di Shakespeare è ancora più complicato. Assieme a pochi altri scrittori geniali (il più vicino alla mia esperienza è il Puškin autore dell’Onegin) i quali possiedono non solo le qualità ma soprattutto il ruolo dei “fondatori” delle rispettive culture, Shakespeare comprime in sé diverse epoche storiche con i relativi stili e le ideologie che ne derivano. Parlo di scrittori capaci di un piglio barbarico, primitivo, di una potenza omerica (e al tempo stesso furiosamente prigionieri dei limiti che impone tale rozza potenza), che però proprio per il processo assolutamente moderno, di azzeramento e di costruzione dal nulla  della loro opera risultano di una modernità sconcertante. L’unicità di  Shakespeare sta ad esempio nel fatto che pur essendone un amante e un consapevole tributario, egli salta a piè pari tutto il nostro Rinascimento (come coltissimo e malinconico ripensamento della civiltà antica) situandosi paradossalmente al di qua, prima di esso, piantato con tutto il corpo in un codice di passioni  e in una galleria di volti e anime ancora tutta medievale e per così dire, dantesca, niente affatto ingentilita dai galatei cortigiani – e al contempo si ritrova al di là, dopo di esso, moderno tra i moderni, dopo Cartesio e Pascal e Newton e Kant, incredibilmente vicino a noialtri. La sua “mostruosa” attualità si deve dunque a un fenomeno che non solo è unico ma in ogni caso non è riproducibile fuori dai tempi della storia e della cultura inglesi.

Dal punto di vista della traduzione questo può comportare problemi enormi. Ciò che ha un determinato suono e valore nell’originale, può assumerne uno tutto diverso nelle orecchie di un lettore o di uno spettatore che ascolta  in una lingua di assai diverse stratificazioni com’è l’italiano: per cui si va incontro a gravi distonie o alla perdita di familiarità lessicale, o ancora a un certo fastidioso rumore di fondo che confonde l’opera coi suoi surrogati.

Traducendo in italiano, e discutendo con altri del proprio lavoro, il traduttore si trova costretto a fare storia, storia d’Italia. A rifarla. Proprio così: a parlare del risorgimento, della rivoluzione democratica fallita, delle classi, del Machiavelli, di Giuseppe Verdi, del fascismo, di Gadda, Pasolini e dei dialetti — e tutto magari per il suono che ha una singola parola: poniamo, la parola “fellone”.

“Fellone!”

5.

Allora, la domanda è questa: si può scrivere e dire, oggi, in italiano, “fellone” (termine feudale molto preciso, ma che prima di arrivare alle nostre orecchie ha calpestato le tavole polverose dei teatri ottocenteschi, rappresentando il culmine di chissà quanti drammoni…), si può usare “fellone” senza che da dietro questa parola saltino fuori le spade di cartone e i polli di cartapesta di cui si lamentava Tomasi di Lampedusa nella sua brillante e ingenerosa invettiva contro il melodramma italiano, responsabile secondo lui di aver corrotto in modo irreversibile il gusto di una nazione? Senza, insomma, che Shakespeare passi attraverso il nostro Ottocento, il quale a sua volta è tutto tappezzato e sedimentato di medievalismi convenzionali?

Ho passato un pomeriggio a discutere con Giorgio Barberio Corsetti della parola “fellone”, se si poteva metterla o no in italiano…

Per non parlare di una prima bozza della Tempesta, quando un automatismo, un cortocircuito inconscio – stavolta non melodrammatico ma cinematografico – mi spinse a tradurre la maledizione di Calibano (I, II, 364-365)

… the red plague rid you
for learning me your language
!

con un

… peste ti colga per avermi
trasmesso la tua lingua!

«Peste ti colga!», dunque… Amedeo Nazzari, La cena delle beffe!

Con questo noi siamo familiari.

6.

Traduttore, diffida delle soluzioni parziali ed estemporanee, anche quando suonano e magari sono davvero ben trovate. Puoi azzeccare il giro di una frase, la traslazione sorprendente di una singola immagine, può formartisi nella bocca all’improvviso un verso cadenzato che non sfigura a fianco dell’originale. Ma la traduzione di un classico non s’illumina di lampi (può al contrario oscurarsi di maldestre intuizioni “poetiche”) e ha bisogno di trovare un tono generale che punti sulla durata e piuttosto sciolga le invenzioni migliori in un continuum dove si riduca o, faute de mieux, si noti il meno possibile il divario tra le scelte di traduzione più felici e le inevitabili durezze, o goffaggini, quei punti, cioè, del testo, che il traduttore non riuscirà mai a rischiarare nella sua lingua, e che vanno trattati con la formula del male minore, della “riduzione del danno”. Più ancora che in un testo in lingua originale, dove i dislivelli sia di registro che di qualità letteraria possono essere immensi senza intaccare il valore dell’opera, in una traduzione si pongono problemi di durata e omogeneità d’ascolto, dunque la ricerca di una medietà di registro: che non è obbligatorio mantenere ma che deve offrirsi al lettore-ascoltatore come una fascia di sicurezza, come un codice di riferimento e riconoscimento anche quando la si sta abbandonando per le escursioni estreme. L’italiano offre una tale spettacolare gamma di soluzioni linguistiche (una per tutte: l’uso di inflessioni dialettali, con i supposti effetti comici garantiti) che spesso al traduttore costa un grosso sacrificio rinunciarvi. Deve saper resistere a tentazioni che lo porterebbero fuori quadro (nella Tempesta, poi, è un vero supplizio di Tantalo, dato che i suggerimenti a scapricciarsi con italianate e napoletanerie varie sembrerebbero provenire dall’autore, e probabilmente, nelle sue messe in scena, egli vi faceva ricorso a piene mani). In altre parole, un italiano deve almeno in parte rinunciare all’italianità, ai tesori che magari gli sembrerebbe giusto riprendersi. Un conto, infatti, è far parlare un perfetto attore anglosassone con cadenze “dago”, un conto è ritrasformarlo, in modo permanente, qui da noi, in Fornareto de Venessia. Ciò che in inglese è bastardo, dunque davvero comico, in italiano ritornerebbe irrimediabilmente puro, dunque serio. (In verità non esiste  nulla di più serio dei dialetti.)

Napoli e Milano, nella Tempesta, sono le città dei sindaci Albertini e Bassolino? Oppure di Lodovico il Moro e Masaniello?

7.

Una certa santa pazienza, una notevole sobrietà si addicono perciò al traduttore, al quale, però, oltre a queste pose virtuose, si richiede lo scatenamento passionale. A comando.

8.

Spaccare e trascinare legna agli ordini di un invincibile mago. Subirne l’occulta  coercizione. Ubbidire. Il traduttore non può sentirsi che un povero Calibano. Calibano sarebbe a suo modo una creatura geniale, poetica, ma soprattutto era padrone di se stesso e del suo mondo, prima che arrivasse lo strapotente Prospero, il quale lo ha allevato con tenerezza, lo ha educato, quindi lo ha reso schiavo, secondo un antico modello pedagogico-seduttivo, il modello del grande maestro. Così agisce la letteratura che incanta e soggioga il lettore, asservendolo in cambio della somministrazione di piacere. Ma almeno il lettore conclude trionfalmente il rapporto servile nell’istante in cui termina la lettura (o lo spettacolo), si svincola dall’abbraccio dell’opera, letteralmente cambia pelle, lasciando a terra la vecchia, e sgusciandone fuori luccicante e rinato. L’effetto dei classici, sul lettore, soprattutto nell’atto del congedarsene, può essere quello di una resurrezione. È il lettore che alla fine se ne va via stringendo in pugno una nuova vita, come uno studente l’ultimo giorno di scuola o un figlio che lascia casa. Anche per questo, giunto all’epilogo della Tempesta, Prospero deve implorare la benevolenza del pubblico, «e la mia fine sarà disperazione…» se gli spettatori non lo perdoneranno. Non è un appello di maniera o finta umiltà. Egli sa che il suo pubblico, fino ad allora soggiogato dalla vicenda, sta diventando più potente di lui, s’illumina mentre lui si spegne, l’energia si è oramai tutta travasata: «non ho più spiriti da sottomettere, magie da scatenare…». L’opera sta per essere gettata via, alle spalle. Il lettore trionfa, l’autore muore ancora una volta e viene risospinto indietro nei secoli, riseppellito.

Ma quel particolare lettore che è il traduttore non gode questa padronanza del distacco. Non si emancipa mai dal testo. Una volta terminato e consegnato il lavoro, egli rimane un commesso, il «garzone di bottega mandato a incassare i sospesi», come il Colonnello Kurtz-Marlon Brando diceva con disprezzo al Capitano Willard-Martin Sheen in Apocalipse now.  Al contrario di quest’ultimo, Calibano nemmeno riesce a uccidere il padrone. La sua nevrotica vendetta permane ridicola e incompiuta. Il traduttore-Calibano resta sottomesso, per sempre, ombra o scimmia o negro o rozzo demiurgo del dio-autore. I rapporti di forza non si rovesciano mai,  come invece accade nella dialettica teatrale maschio-femmina dittatore-popolo Frankenstein-mostro, dove chi all’inizio dominava viene straziato da potenze nuove e volubili, che lui stesso senza sapere ha allevato e istigato. Al contrario del lettore che consuma l’opera, la rosicchia, la inghiotte strada facendo, il traduttore non può permettersi di toccarla, di assorbirne una briciola sola, gli è proibito nutrirsene durante il cammino, deve riconsegnarla sull’altra sponda non diminuita.

9.

Scrittura come lavoro in solitudine e di solitudine. È un luogo comune, e come tale è vero. Traduzione come lavoro in compagnia di giganteschi fantasmi.

10.

Richiesta di perdono.

*Questo testo  è apparso, come nota del traduttore, nel programma di sala de La tempesta di William Shakespeare, prodotta nella stagione 1999-2000 dal Teatro Stabile dell’Umbria, regia di Giorgio Barberio Corsetti, interpreti Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy e Silvio Orlando. Viene qui ripubblicato per cortesia dell’autore.