Gli allievi / Miseria e splendori dei corsi di Lingua e traduzione inglese

ALL’UNIVERSITÀ DI TORINO

di Mattia Venturi

Solitamente non mi piace fare premesse. E nemmeno mettere le mani avanti, iniziando con dichiarazioni che vengono puntualmente disattese. Ma stavolta una piccola premessa si rende necessaria, dato il valore dei professionisti che scrivono per questa rivista. Quello che mi è stato chiesto è di riportare la mia esperienza di studente all’interno dell’università. E non è facile, per un neofita della materia come me, mettersi a parlare di traduzione a chi di traduzione si occupa per mestiere. Per due motivi: il primo è che il mio sguardo rischia di essere ingenuo. Il secondo è che non ho potuto esimermi dal riportare un’esperienza soggettiva. Quella che segue è la trascrizione dei fatti per come li ho vissuti e per come ho deciso di trascriverli. Anche se avessi provato a essere il più asettico possibile, non credo che la mia si sarebbe potuta definire una testimonianza oggettiva. Pertanto mi sono permesso di riportare fatti e avvenimenti, selezionando tra ore e ore di lezione (settantadue per l’esattezza) quelli che per me sono importanti.

Ho seguito due corsi. Partiamo dalle miserie.

Il primo corso di Lingua e traduzione inglese è tenuto da una professoressa che chiamerò Professoressa A. La Professoressa A si presenta con una lunga serie di pubblicazioni: monografie, saggi in volume e articoli su riviste internazionali e non, perlopiù critica di autori modernisti inglesi. Nessun saggio che riguardi la traduzione e una sola traduzione all’attivo.

Il programma del suo corso annunciava che si sarebbe discusso il concetto di narratività da diversi punti di vista, come l’analisi del discorso e la narratologia cognitiva, per poi affrontare un corpus di testi appartenenti a generi diversi (letterario, giornalistico, nuovi media). Su questi testi si sarebbero condotte analisi narratologiche e linguistiche, che ci porterebbero ad affrontare, in ultimo, il processo della loro traduzione in italiano. Alla fine del corso, leggo nel programma, noi studenti dovremmo aver sviluppato diverse abilità, tra cui una certa autonomia nell’analisi dei testi, la capacità di motivare le nostre scelte traduttive e un approccio autonomo e maturo all’apprendimento.

Un po’ vago, penso. Ma due anni di peregrinazioni sul sito web di UniTo mi hanno abituato a ben altro. La cosa che in un primo momento mi colpisce è che, a voler analizzare questo testo, non sembrerebbe la presentazione di un corso di traduzione, ma di un percorso teorico volto all’analisi narratologica e linguistica. Perfettamente in linea con le competenze della Professoressa A, mi dico. La parola traduzione appare appena nel trafiletto in fondo al programma. Non che reputi l’analisi narratologica e linguistica poco importante a fini traduttivi. Ma mi chiedo cosa differenzi questo corso da uno di letteratura inglese.

Nelle prime tre lezioni esauriamo le prime cinque righe del programma (su un totale di sei). E io penso di essere una persona cattiva ad aver giudicato male la Professoressa A. La traduzione avrà tutto lo spazio che merita. L’unica cosa che mi lascia perplesso è il passaggio continuo tra italiano e inglese della professoressa, un po’ imprevedibile e senza apparente cognizione di causa. Dà l’impressione di un pasticcio linguistico.

I miei appunti delle prime due settimane sono cosparsi di definizioni. Formalismo, strutturalismo, post-strutturalismo e poi narratività, multidimensionalità, aforismi di Hermann e Jakobson. Della traduzione ho appuntato alcune massime che riporto:

Penalizzano molto i calchi linguistici e sintattici.
La traduzione è un processo imperfetto. Non può essere mai completo. Fa emergere le specificità delle due lingue e delle due culture.
Intralingual translation è la parafrasi.
Interlingual translation è la traduzione.
Intersemiotic translation è la trasmutazione (da un tipo di linguaggio verbale a uno non verbale. Esempio: lingua dei segni).
Livelli di
domestication: non far sentire al lettore lo straniamento.
Essere coerenti con le proprie scelte.
Non guardare mai le traduzioni degli altri prima di iniziare la propria.

Poi si è iniziato a parlare di tecniche di rappresentazione della coscienza e del tempo. È stato più meno a questo punto che ho sentito allungarsi sempre più ingombrante l’ombra di James Joyce. E infatti per la quinta lezione dobbiamo portare una nostra traduzione delle prime due cartelle di un racconto tratto da The Dubliners.

Mi presento armato fino ai denti e finalmente si inizia a tradurre. Alla prima parola incontriamo la prima difficoltà. She sat at the window. Non senza dispiacere, ci troviamo tutti d’accordo sul perdere la connotazione di genere. «Sedeva alla finestra». Si va avanti. Dal secondo periodo in poi si afferma quella che sarà la modalità di traduzione in classe: si legge la frase, la Professoressa A. chiede ad alcuni come hanno deciso di tradurla, si discute un po’ e alla fine si sceglie la versione della Professoressa A.

Her father was not so bad then; and besides, her mother was alive.

Il periodo viene tradotto così: «Suo padre non era così male allora; d’altra parte sua madre era ancora viva». Qualcuno propone: «Suo padre non era così male allora; d’altra parte la mamma era ancora viva». La Professoressa A scuote la testa. La lezione da portare a casa è: mantenere i possessivi perché per Joyce sono importanti. Nella mia ignoranza starò trascurando pagine e pagine di letteratura critica che si sono sprecate per i possessivi di Joyce. In ogni caso la spiegazione non mi convince. Inizio a pensare che il risultato della nostra traduzione sia una costruzione macchinosa, artificiale. Per cercare di mantenere tutto si dà al testo un andamento sincopato che di certo non si potrebbe chiamare flusso, tanto meno di coscienza. Ma non sta a me giudicare.

Non posso trascrivere tutti gli appunti ma, per correttezza, riporto quello che reputo un buono spunto: Perhaps she would never see again those familiar objects from which she had never dreamed of being divided.

Qualcuno suggerisce: «Forse non avrebbe più rivisto quegli oggetti familiari dai quali non si sarebbe mai sognata di doversi separare». La Professoressa A dice che usare il verbo modale «doversi» è una scelta azzardata, in quanto non sembra che l’azione comporti un obbligo. Mi piace molto come suona «scelta azzardata», perché implica una scelta e due risultati potenzialmente giusti. Credo sia questo il modo corretto di vedere la traduzione. Prima che riesca davvero a sorprendermi, la Professoressa A aggiunge: «Rischiamo di portare un’interpretazione nel testo». Ma non lo facciamo sempre? Penso. E scegliere di mantenere i possessivi? Non è un’interpretazione?

La lezione finisce qua. Grazie alle imbeccate della Professoressa A abbiamo tradotto quasi mezza pagina in due ore.

Le lezioni continuano su questa strada, lastricata di intenzioni più o meno buone. C’è poca voglia di intervenire da parte degli studenti. D’altra parte è un rischio a cui si può andare incontro quando si prova a tradurre a sessanta mani. A parlare sono sempre la ragazza con gli occhiali seduta in prima fila e un’altra, seduta verso metà classe. Sembra timida. Penso che debba fare un grande sforzo per provare a dire qualcosa, dato che ogni volta che apre bocca la voce la trema. Il mio vicino di banco sta leggendo qualche altra cosa sul suo kindle.

Appunto questi episodi.

Of course she had to work hard, both in the house and at business. La ragazza timida prova ad azzardare un: «Certo doveva darsi da fare, sia in casa che al lavoro». La Professoressa A non è d’accordo. Ci spiega che hard è un elemento ricorrente nel testo, e anche molto importante. Quindi bisognerebbe cercare di non perderlo. Pertanto fornisce questa alternativa: «Certo doveva lavorare duramente».

È a questo punto che alzo la mano e propongo un’alternativa: «Ma, “lavorare sodo”

«Lei stava ascoltando quello che ho detto?» dice la Professoressa A stizzita.
«Sì.»
«Allora cos’è che non le è chiaro?»
«Niente, penso solo che
lavorare duramente non sia molto utilizzato nella lingua parlata, e poi non è molto bello da sentire.»
La mia affermazione diventa un gancio per impartire alla classe una lezione che sa tanto di punizione esemplare per me: «Quello che non voglio mai sentire in traduzione è giustificare una scelta fatta con “
era più bella da sentire”».

Avrei voluto dire che quando si ha a che fare con le parole e queste hanno un suono, probabilmente il suono è una delle variabili da prendere in considerazione. Invece sto zitto e rientro nella modalità passiva di sempre.

La Professoressa A poi si volta verso di me e aggiunge: «In ogni caso, se lei avesse ascoltato, ho spiegato lungamente il perché di questa scelta.»

Io abbasso la testa sul foglio fingendo di non esserci rimasto male. Non ho più sentito, dopo questa lezione, altre proposte provenire dalla ragazza timida.

Look lively, Miss Hill, please. La ragazza occhialuta propone: «Si dia una mossa, Miss Hill, per favore». «È un po’ troppo moderno come linguaggio» dice la Professoressa A. «Secondo me sarebbe meglio un “Si sbrighi.”»

He said she used to squander the money, that she had no head, that he wasn’t going to give her his hard-earned money to throw about the streets, and much more, for he was usually fairly bad on Saturday night.

La professoressa S. chiede come tradurremmo la parte finale del periodo. Intervengono più persone rispetto al solito: «messo male», «ridotto male», «intrattabile». Ho un guizzo. Perché non dimostrare alla Professoressa A. che ho recuperato quel hard che le sta tanto a cuore? Alzo la mano: «Più duro del solito

«Ma come, lei non voleva mettere duro prima, e vuole metterlo adesso?»
«Sì.»
«Qua non va bene.»

Mi dico che, effettivamente, nemmeno secondo me questa sarebbe la soluzione migliore. Ma tanto valeva provare.

È stato un duro lavoro – una vita dura – ma siamo arrivati alla fine del racconto e anche delle lezioni. Rispetto al programma bisogna segnalare che non abbiamo affrontato generi diversi, nemmeno racconti diversi. Ci sono state imposte analisi di testi, non li abbiamo analizzati in prima persona. Le mie capacità di apprendimento autonomo e maturo sono ancora nel cellophane, intonse. La mia autonomia di giudizio sulle scelte traduttive è mortificata.

Mi iscrivo alla prima data utile per l’esame scritto. La prova consiste nella traduzione di due cartelle di un testo appartenente a uno dei generi affrontati in classe. Quindi, ancora Joyce. Ancora The Dubliners. Stavolta A little cloud. Due ore di tempo. Possibilità di usare il dizionario ma non di accedere a internet. Riesco a leggere velocemente il racconto una prima volta. Noto con disappunto che non è stato inserito tutto il racconto ma solo le due cartelle che dobbiamo tradurre. L’ho già letto, mi ricordo qualcosa.

Inizio a tradurre. Alla terza riga incontro un Godspeed. So quello che significa: «Buona fortuna». Buffo, penso. Vado avanti, sono indeciso su alcune espressioni. Gallaher had got on. «Gallaher ne ha sempre avuta?», mi chiedo. Capisco che non troverò aiuto nel dizionario. Questa frase è riferita alla precedente. Mi decido per un: «Gallaher era andato avanti». Anzi: «Ne aveva fatta di strada». «Si era fatto strada» mi sembra meglio, più colloquiale. Arrivo alla fine del testo. Vorrei ricominciare da capo, alla luce di alcune scelte fatte alla fine, ma mi accorgo che non c’è tempo. Sciolgo dei nodi che avevo lasciato insoluti e consegno.

Dopo qualche giorno arriva per mail il risultato della prova: 26/30. Rifiuto e vado avanti.

Mi iscrivo a un altro corso, sempre di lingua e traduzione inglese. Il programma che trovo sulla pagina web è abbastanza ermetico:

Risultati dell’apprendimento attesi:
Gli studenti dovranno dimostrare di aver acquisito i concetti linguistici fondamentali per l’analisi del testo (ai fini traduttivi), saper illustrare le principali teorie della traduzione, fornire la traduzione adeguata in italiano di un testo letterario spiegando i problemi traduttivi incontrati e commentare traduzioni pre-esistenti alla luce di quanto appreso.

Programma:
Il corso introduce gli strumenti linguistici per l’analisi contrastiva dei testi a livello lessicale, sintattico, pragmatico e testuale al fine di avviare gli studenti alla traduzione letteraria dall’inglese all’italiano. L’attività didattica comprende esercitazioni pratiche su analisi del testo, traduzione, comparazione di testi tradotti allo scopo di identificarne difficoltà e strategie traduttive.

Nonostante la grande sintesi, noto con piacere che la parola traduzione appare ben nove volte. Inoltre il corso è tenuto dalla Professoressa B, che nel suo curriculum vanta diverse traduzioni. Mi colpiscono fin dalla prima lezione la giovane età e i modi. Sono quelli di chi si muove in un contesto fatto di molte contraddizioni e poche certezze, di chi sa di poter trasmettere un’esperienza più che una serie di regole imprescindibili.

In classe ci sono poco più di dieci persone, e nonostante questo la Professoressa B. ci comunica che quest’anno, proprio per l’affluenza insolita, non sarà possibile tradurre in aula perché è un lavoro che, per essere utile, deve essere fatto con un gruppo ristretto di persone. Discuteremo lungamente, però, su alcuni esempi di testi tradotti.

La professoressa ci fornisce la bibliografia, dove appaiono testi di vari autori e tipologie: Gianfranco Petrillo, Silje Neergard e Susanna Basso; da testi di storia della traduzione, ad antologie di articoli, a testi militanti. Ci comunica inoltre la modalità di esame: una relazione che consiste nella traduzione di due cartelle di un testo a scelta, purché non sia già stato tradotto. La notizia mi piace. Non solo per la possibilità di scelta, ma anche perché mi immagino a casa, a poter riflettere quanto voglio, con le fonti che voglio a disposizione.

Nelle prime lezioni la Professoressa B fa una breve introduzione sulla storia della traduzione: dall’antichità classica al periodo dei testi sacri, dal medioevo al romanticismo, passando per la Bibbia di Lutero e per i tentativi di teorizzazione novecenteschi. Vengono evidenziati quelli che sono da sempre, pare, i principali nodi che un traduttore si trova a dover sciogliere: addomesticare o esotizzare, traduzione parola per parola o a senso, traduzione adeguata o accettabile. Della dicotomia “bella e infedele e brutta e fedele”, la Professoressa B, oltre a criticare il velato riferimento misogino, sostiene che sia una contrapposizione fallace. Una traduzione bella non deve essere necessariamente infedele; inoltre una traduzione che viene definita “infedele” può invece rispettare più di un’altra l’intenzione dell’autore. Vengono proposti degli esempi:

The motor car with its blinds drawn and an air of inscrutable reserve proceeded towards Piccadilly, still gazed at, still ruffling the faces on both sides of the street with the same dark breath of veneration whether for Queen, Prince, or Prime Minister nobody knew (da Mrs. Dalloway di Virginia Woolf).

Traduzione esistente, di Nadia Fusini:

Con le tendine tirate e un’aria di inscrutabile riserbo la macchina procedette verso Piccadilly, con ancora addosso gli occhi di tutti, i volti della gente da tutti e due i lati della strada ancora soffusi dello stesso oscuro alito di venerazione, non si sa se per la Regina, il Principe o il Primo Ministro» (Virginia Woolf, La signora Dalloway, Milano, Feltrinelli, 1998).

Altra traduzione esistente, di Pier Francesco Paolini:

L’automobile dalle tendine abbassate, con quell’aria di inscrutabile riserbo, ripartì diretta verso Piccadilly, tuttora oggetto di curiosità, seguitando a increspare le facce, su entrambi i lati della via, con quello stesso oscuro afflato di venerazione, per la Regina, il Principe o, chissà, per il Primo Ministro» (Virginia Woolf, La signora Dalloway, Roma, Newton Compton, 1994).

L’approccio della Professoressa B è quello di mettere a confronto più traduzioni dello stesso testo per evidenziare soprattutto le scelte che un traduttore si trova a dover affrontare e che, molte volte almeno, non comportano una strada giusta e una sbagliata. Ci sono modi diversi per raggiungere risultati diversi. Poi ci sono gli errori, certo. E anche di questi la professoressa B. ci fa alcuni esempi.

Riporto un appunto significativo, dal mio quaderno:

Addomesticare (portare l’autore nella propria cultura)
Esotizzare (portare il lettore nella cultura dell’autore)
La strategia del traduttore deve essere flessibile – anche all’interno dello stesso paragrafo possono essere usati entrambi, se questo è coerente con la propria scelta traduttiva.

Finita questa parte ne inizia un’altra, stavolta più incentrata sugli “attrezzi” che un traduttore ha a disposizione. La sensazione che ho avuto in queste lezioni è stata quella di acquisire nuovi strumenti. Come un artigiano che nella sua cassetta abbia a disposizione il martello, il cacciavite, la lima. Una carrellata di tecniche e di soluzioni possibili, che fa emergere il confronto tra lingua inglese e lingua italiana.

La Professoressa B ci parla di compensazione, ricategorizzazione, dislocazione, ordine dei sintagmi. Ma anche di corrispondenza verbale tra le due lingue e di come cercare di trovare il giusto modo italiano in base all’aspetto, al tempo e al modo del verbo inglese, che non ha corrispondenze univoche. Sempre per comprendere il metodo.

Racconto questo aneddoto: per buona parte della lezione la Professoressa B. spiega che la perifrasi progressiva in inglese (-ing form) è usata molto frequentemente perché percepita come naturale. In italiano invece il gerundio è percepito come marcato, fastidioso se si ripete con frequenza; pertanto si preferisce tradurre usando l’imperfetto o l’indicativo. Alla fine della spiegazione però la professoressa ci fa questo esempio, tratto da The Shadow Line di Conrad: He made no answer. We were issuing from the avenue. On the bridge over the canal a dark, irresolute figure seemed to await someone or something. Traduzione di Flavia Marenco: «Non rispose. Stavamo sbucando dal viale. Sul ponte sopra il canale una figura scura, indecisa, pareva aspettare qualcosa o qualcuno» (Joseph Conrad, La linea d’ombra, Torino, Einaudi, 1993).

Dopo averci dato un’indicazione di tipo generale, ecco l’esempio di un caso in cui il progressivo, collegando le tre immagini in senso quasi cinematografico, si rende necessario.

L’ultima parte del corso entra più nello specifico di un genere di traduzione, cioè la letteratura per ragazzi. Questo per renderci consapevoli delle caratteristiche testuali di un genere e dell’immaginario che questo si porta dietro. Inoltre la letteratura per ragazzi sembra un utile esercizio per imparare a identificare il lettore modello di ogni traduzione: quello per cui, alla fine di tutto, un traduttore fa ciò che fa. Quello a cui bisogna cercare di restituire quanto più possibile del testo di partenza. A ogni fascia di età, infatti, corrisponde un lettore modello diverso: bambini non ancora alfabetizzati e che hanno bisogno della lettura ad alta voce, bambini che leggono e che hanno bisogno di imparare nuove parole, fino ad arrivare ad adolescenti che usano un linguaggio tutto loro.

Mi colpisce in particolare la traduzione di albi illustrati. In questo tipo di testi c’è una totale collaborazione tra parole e immagini e a volte i traduttori sono costretti ad allontanarsi anche molto dalla semantica del testo di partenza, per rispettare le illustrazioni, o il ritornello, o il suono.

Non so perché, ma la cosa mi rende felice.