INSEGNARE A TRADURRE A UN’AULA UNIVERSITARIA COLMA DI STUDENTI
di Franca Cavagnoli
La mia attività didattica nel campo della traduzione letteraria si svolge da molti anni su due piani: 1) l’aggiornamento professionale di colleghi e la formazione di studenti neolaureati, o dell’ultimo anno di università, che aspirano a fare della traduzione il loro lavoro; 2) corsi di traduzione letteraria all’interno del percorso universitario di laurea magistrale in Traduzione o Lingue e letterature straniere.
Se nel primo caso – per professionisti della traduzione e per aspiranti tali – la didattica si svolge nei classici workshops in gruppi di lavoro piccoli (al massimo 15-20 partecipanti), nel secondo caso il tipo di didattica dipende dal numero di studenti in classe. Può svolgersi in gruppi piccoli, come succede all’Isit, presso la Civica scuola per interpreti e traduttori Altiero Spinelli di Milano, dove le classi sono al massimo di 15 studenti, oppure in gruppi molto numerosi, formati da un’ottantina di studenti, come nel corso di Teoria e tecnica della traduzione inglese che dal 2004 tengo all’Università degli Studi di Milano. Se il gruppo di studenti magistrali è piccolo, la mia lezione non è molto diversa da quella che svolgo durante i workshops con i professionisti o aspiranti tali – ciò che cambia è solo l’esperienza dei partecipanti e dunque la scelta dei testi su cui lavorare, e così pure alcune modalità nella gestione delle lezioni (se in aula sono l’insegnante, in un workshop sono la collega esperta). Ciò che prevale, in questa situazione, è quella che possiamo chiamare la «filosofia professionale» delle lezioni. Se invece il gruppo è molto numeroso, come succede all’Università Statale di Milano, a prevalere sarà senz’altro la «filosofia accademica».
«Filosofia professionale» e «filosofia accademica» sono due espressioni coniate da Eckhart Hoetzel, che dirige l’Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales (ITIRI) dell’Università di Strasburgo, da cui la Civica scuola per interpreti e traduttori Altiero Spinelli di Milano dipende in virtù di una convenzione europea. Per «filosofia professionale» si intende che al momento della laurea gli studenti sono da valutare come giovani colleghi: sono pronti per immettersi nel mercato? Sono in grado di fare un buon lavoro come traduttori? La «filosofia accademica», invece, valuta la loro preparazione al termine del ciclo di studi e non tiene conto delle esigenze del mercato. Paradossalmente, un laureando può avere una eccellente preparazione accademica ma non essere ancora pronto per il mercato del lavoro: corre cioè il rischio che la sua eventuale prova di traduzione per un editore sia giudicata insufficiente nonostante un ottimo voto finale il giorno della laurea. In virtù della convenzione con l’Università di Strasburgo, nei corsi della laurea magistrale in Traduzione della Civica scuola per interpreti e traduttori Altiero Spinelli prevale la «filosofia professionale».
Davanti a un gruppo di 80 studenti, invece, non può che prevalere la «filosofia accademica», e non solo durante le ore frontali di teoria. Nel corso delle lezioni dedicate al lavoro sui testi, l’obiettivo non può che essere quello di dare un’idea possibilmente accurata di quello che succede nella realtà editoriale, far capire agli studenti che cosa ci si aspetta da un giovane traduttore e che cosa si può fare per migliorare il proprio livello al termine del corso di 40 o 60 ore che si è frequentato. Se con un gruppo piccolo di studenti si può lavorare sulla qualità, per esempio chiedendo a ciascuno di leggere la propria versione e intervenendo quindi in modo mirato sulla traduzione di ciascun partecipante, davanti a un gruppo di 80 persone si può intervenire solo sui punti critici di chi propone la sua traduzione. Su 80 studenti non interviene spontaneamente mai più di una decina di persone, gli altri bisogna chiamarli. Se in ogni lezione chiedessi a tutti di leggere quanto hanno scritto, non si riuscirebbe a correggere più di una manciata di frasi. Quindi dopo aver sentito quattro o cinque versioni della stessa frase, comincio a fare delle ipotesi di lavoro, immaginando possibili alternative e cercando di far capire quali sarebbero i vantaggi e gli svantaggi di una certa resa. Gioco d’anticipo, per così dire. Per il calcolo delle probabilità, una delle rese da me ipotizzate potrebbe in effetti corrispondere a quella scelta da chi non ha voluto leggere la sua versione, da chi cioè è troppo timido per intervenire ma l’ha diligentemente preparata. Una cosa, però, è certa: non è possibile intervenire su ogni singola traduzione. Non mi baso tanto sul prodotto reale, quindi, quanto su ciò che immagino potrebbe essere un possibile prodotto finale.
Inoltre approfitto dei punti complessi del testo per introdurre sia riflessioni di carattere linguistico sull’originale inglese – penso alla difficoltà che gli studenti italiani hanno nella resa della duration form o nel tradurre il past simple, nel non riconoscerne la stratificazione nel passato – sia osservazioni sull’italiano delle traduzioni. Spesso è proprio questo aspetto che prende molto spazio, perché è sulla lingua italiana che gli studenti universitari hanno più problemi, per una marcata tendenza ad alzare il registro quando non è necessario, in un assiduo lavoro di nobilitazione della lingua, oppure una spiccata predilezione per quella che Italo Calvino chiamava «antilingua». Davanti a 80 studenti cerco, cioè, di essere soprattutto un’insegnante e non una collega con più esperienza che aiuta gli altri ad affinare le proprie capacità. E cerco di far passare quella che secondo me è l’essenza del tradurre letteratura: saper ascoltare il testo. È sulla lettura che insisto. Per questo leggo sempre ad alta voce i passi che scelgo, per far sentire le pause, le accelerazioni, i calando, il ritmo della prosa. Per far sentire se quanto leggiamo ci procura emozioni. Leggere, ascoltare il testo: è indispensabile per accoglierlo dentro di sé e poi cercare nella propria lingua le parole per tradurlo. Non so quanti, tra quegli 80 studenti, faranno i traduttori, ma mi accontenterei di fare di loro dei lettori più consapevoli.