I docenti / Insegnare l’attenzione

di Norman Gobetti

La formation de la faculté d’attention est le but véritable
et presque l’unique intérêt des études
(Weil 1966, 85)

Il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi
è quello di formare la facoltà dell’attenzione (Weil 2008, 191)

Da quando, una decina di anni fa, mi sono trovato per la prima volta dietro una cattedra, mi vado ripetendo come un mantra questa frase di Simone Weil: «Il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione». Insegno traduzione letteraria, ma si può davvero insegnare a tradurre? È una domanda a cui ancora non so rispondere. Tradurre letteratura è un processo talmente composito, richiede competenze così diversificate (come minimo: comprendere un testo in un’altra lingua, dire nella propria lingua quel che si è compreso, scrivere bene, attenersi a determinate norme editoriali), che il compito appare titanico. Tanto più che alcune di queste competenze sono così difficili da definire e da trasmettere (cosa significa “comprendere” un testo? cosa significa scrivere “bene”?) che a volte cadono le braccia, e sorge il dubbio che sia meglio lasciar perdere.

Si può invece insegnare a fare attenzione? In questi anni mi è parso di sì, e mi è parso che non solo si possa, ma si debba, soprattutto nell’inquietante tempo in cui viviamo, vittime (sempre meno consapevoli) del Totalitarismo della Distrazione. Credo che chiunque si sia trovato a tradurre sappia quant’è difficile tenere a bada l’istinto che porta a scrivere la prima cosa che viene in mente dopo aver dato una rapida scorsa al testo originale, e quanto al contempo è difficile non farsi prendere dal panico per la difficoltà di quel che si sta facendo. Una continua oscillazione fra senso di onnipotenza e senso di impotenza, un giano bifronte che potremmo chiamare Fretta Angosciata, un moto dell’animo che è l’esatto contrario dell’attenzione.

Ecco, quel che cerco di fare è proporre agli studenti alcune strategie, alcune tecniche, per costringersi a fare attenzione, per passare dalla Fretta Angosciata alla Calma Rasserenata, per vivere il tempo a disposizione per tradurre un testo non come una corsa a ostacoli, o una marcia sulle sabbie mobili, ma come una camminata su un sentiero di montagna, lunga, ardua, ma possibile se affrontata con passo regolare e respirazione non affannosa. Dopo vent’anni che faccio il traduttore, mi sembra di aver capito questo: che per un traduttore, soprattutto oggi, l’attenzione è tutto, o almeno quasi tutto.

C’è stato un tempo in cui, per motivi troppo noti per doverli ripetere, le insidie che attendevano al varco i traduttori stavano soprattutto nella fase della comprensione, e se molte vecchie traduzioni, anche celebri, vengono criticate, è a causa dei fraintendimenti, delle incomprensioni e di tutto ciò che ne è derivato (tagli arbitrari, infedeltà talvolta colossali). Noi abbiamo a disposizione strumenti infinitamente più ricchi e maneggevoli, che ci danno la sensazione (non sempre fondata) di poter comprendere tutto quel che troviamo nel testo da tradurre. Si tratta allora, certo, di insegnare a usare tali strumenti in modo efficace, ma non credo sia questo a fare la differenza, quanto, appunto, la facoltà dell’attenzione.

Fare attenzione quando si cerca di comprendere un testo in un’altra lingua significa accantonare, rimandare a una fase successiva, qualunque pensiero relativo alla resa nella propria lingua. Significa prendersi il tempo, avere l’umiltà e la pazienza, di ascoltare senza parlare. Come dicevo prima, e come sa chiunque faccia questo lavoro, non viene affatto spontaneo – ancora Simone Weil: Il y a quelque chose dans notre âme qui répugne à la véritable attention beaucoup plus violemment que la chair ne répugne à la fatigue (Weil 1966, 90): «Nella nostra anima c’è qualcosa a cui ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica» – Sala 2008, 197) – e imporselo è una sorta di esercizio ascetico, una pratica. Con gli studenti non faccio altro che consigliare gli esercizi, le pratiche, che sono abituato a compiere quando mi avvicino a un testo narrativo da tradurre: ricostruire in modo il più possibile dettagliato le coordinate spaziotemporali e il sistema dei personaggi, cogliere e segnalare a me stesso i rimandi intratestuali ed extratestuali, censire le parole e le costruzioni sintattiche ricorrenti, approfondire il contesto, e così via.

Tutto ciò non solo non viene spontaneo, ma richiede tempo e può stufare terribilmente chi non possegga una personalità maniaco-ossessiva, però serve a fare attenzione, a contemplare la realtà del testo, che è cosa diversa, mi sembra, dall’operazione ermeneutica dall’interpretazione. Non si tratta qui di andare alla ricerca di significati, ma di stare con i significati, guardarli, ascoltarli, toccarli. È importante, e non è scontato, e lo si può insegnare.

Ma la fase più insidiosa è quella successiva, quando dal comprendere si passa al chiedersi come dire nella propria lingua quel che si è compreso, e poi allo scriverlo. Anche se il lavoro di comprensione è stato fatto bene e si è partiti col piede giusto (e lo si capisce dal passo regolare e dalla respirazione non affannosa), è pressoché impossibile evitare l’angoscia che prende il traduttore quando non riesce a farsi venire in mente una frase “bella”, “naturale”, “scorrevole” quanto quella originale.

Questo, sospetto, è un problema che noi sentiamo più dei traduttori del passato, perché nella fase della resa quel che aiuta non sono gli strumenti, la tecnologia, ma l’abitudine allo scrivere a lungo e con tranquillità, in modo corretto, elegante, articolato e complesso, un’abitudine che rischiamo di perdere oggi che la scrittura la usiamo quasi sempre in modo frammentato, approssimativo, rapido e volatile. Scripta manent? Forse, ma certo non è questa la sensazione che abbiamo quando digitiamo una mail, un sms, un post o un whatsapp. Scripta volant, questa è la sensazione che abbiamo. Lo scritto vola via, non resta.

Anche qui a fare la differenza è l’attenzione, e anche qui servono tecniche, pratiche, esercizi ascetici di contemplazione: come è fatto quel che ho scritto? come ci sono arrivato? quali operazioni ho compiuto nell’allontanarmi da come era fatto il testo originale (cosa ho spostato, sostituito, aggiunto o tolto)? queste operazioni perché le ho compiute? quale effetto producono? potrei compierne altre? quali? quale effetto produrrebbero? In questa fase, però, ed è qui che si annidano le insidie, per compiere tali esercizi e trarne giovamento non bastano l’umiltà, la pazienza e la buona volontà, ma ci vuole una familiarità con la propria lingua, e soprattutto con la lingua letteraria, che nasce da una vita (lunga o breve che sia) di letture e scritture, e ci vuole orecchio, e ci vuole un talento, un “saper fare”, che temo non sia possibile insegnare, per lo meno non nel breve arco di un corso di traduzione. Quel che si può insegnare è come gestire il talento se lo si ha, come metterlo a frutto, come renderlo produttivo.

L’attenzione, infine, e questo è forse più scontato, svolge un ruolo imprescindibile nelle fasi in cui il processo della traduzione culmina, ovvero la revisione e poi la rilettura finale. Ma anche in queste fasi alcune tecniche si possono insegnare: adottare un ritmo giusto nel passare con lo sguardo dal testo originale al testo tradotto, compiere alcune verifiche puntuali che impongano di non accelerare troppo e non prendere scorciatoie, usare in modo avvertito i correttori automatici, fermarsi quando si avverte una stonatura e passare dalla sensazione di “qualcosa che non va” alla comprensione del motivo per cui quella cosa non va.

Alla fine di un apprendistato come questo (e degli altri corsi seguiti nel frattempo) lo studente sarà in grado di svolgere il mestiere di traduttore? Talvolta sì, quando si è creato un circolo virtuoso fra predisposizione iniziale e tecniche apprese. Ma in tal caso l’ipotetico studente avrà davvero l’opportunità di accedere al mercato del lavoro? Questa è la domanda a cui mi è più difficile rispondere, a cui mi vergogno di rispondere, perché tale opportunità, il più delle volte, l’insegnante di traduzione non la può offrire.

Testo citato

Weil 1966: Simone Weil, Réflexions sur le bon usage des études scolaires en vue de l’Amour de Dieu, in Attente de Dieu, Paris, Fayard

Weil 2008: Simone Weil, Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, in Attesa di Dio, Milano, Adelphi (traduzione di Maria Concetta Sala da Weil 1966)