di Antonio Bibbò
La presenza di due tradizioni letterarie come quelle irlandese e scandinava in questo speciale sul «Convegno» mi è parsa fin da subito emblematica della varietà di interessi di Ferrieri e soci, così ben rappresentata nei circa vent’anni di esistenza della rivista, eppure caratterizzata da fiammate di entusiasmo, da stagioni dense, brevi e uniche, in cui una letteratura sembrava invadere le pagine della rivista in maniera quasi esclusiva per poi pressoché sparire negli anni successivi. Di certo è quello che è successo con la letteratura irlandese, che tiene a battesimo la creatura di Ferrieri (e Linati) e poi finisce per sparire, quasi del tutto, negli anni successivi.
La stagione irlandese del «Convegno» è, come è noto, legata alla presenza di Carlo Linati, scrittore e traduttore comasco di stanza a Milano, epigono della tradizione espressionistica lombarda. In un noto articolo del 1949, Linati ribadì la sua convinzione che l’Irlanda e la Lombardia fossero «sorelle senza saperlo» (Linati 1949). Negli anni della Grande Guerra la sua esplorazione della tradizione regionale si legò a quella della letteratura irlandese e all’idea di dare vita a una rivista lombarda che facesse da contrappunto alle egemoniche riviste toscane dell’epoca. Eppure «Il Convegno» fu fin da subito servo di due padroni: da un lato, la vocazione internazionale, dall’altro la volontà di fare da organo ufficiale per gli scrittori regionali lombardi. In questa impasse, la vicinanza che Linati individuava tra Irlanda e Lombardia offriva una via di fuga e di possibile sviluppo, in grado di articolare la dialettica tra le letterature straniere e il programmatico regionalismo della rivista.
Le traduzioni di testi irlandesi, presenti soprattutto nel primo anno di vita del «Convegno» e poi molto più rarefatte negli anni successivi, costituiscono un caso paradigmatico di come alla base di un interesse all’apparenza unico per una tradizione letteraria vi siano in realtà diverse motivazioni e conflittuali strategie ricettive. Di fatto James Joyce, John Millington Synge, James Stephens, Lennox Robinson and Seán O’Casey, erano presentati come irlandesi solo in rari casi e spesso non erano inseriti in una chiara cornice culturale e nazionale, ma semplicemente antologizzati. Una situazione di mediazione così eterogenea è senza dubbio legata alla natura variegata della rivista, ma non va d’altro canto sottovalutato quanto l’interesse per la letteratura irlandese sia stato connesso, almeno inizialmente, con il progetto di dare vita a un progetto regionale lombardo.
L’elenco delle opere irlandesi ospitate nel «Convegno» è emblematico. Quasi ogni numero del primo anno di vita della rivista presenta una traduzione da autori dell’Isola di Smeraldo: un dato che non trova paralleli. Anche dal punto di vista dei nomi e delle forme, la varietà rivela un interesse ad ampio raggio, dal teatro alla narrazione di viaggio, al racconto urbano. Nell’Italia del 1920 si trattava di una decisa scelta di campo, diretta emanazione della decisione da parte di Ferrieri di lasciarsi alle spalle tanto il frammentismo della «Voce» quanto la prosa d’arte rondista. L’interesse per gli irlandesi univa Ferrieri e Linati, e sorprende poco che a Tre donne che piansero di James Stephens (1920, la prima traduzione in Italia di un lavoro dello scrittore al quale Joyce avrebbe voluto affidare la continuazione di Finnegans Wake), seguissero cinque numeri in cui Linati proponeva la sua traduzione di Exiles, il primo lavoro di Joyce tradotto in Italia, e stralci da The Aran Islands di Synge. Queste due traduzioni, pur così vicine, rappresentano un bivio nella storia della letteratura irlandese in Italia. Pur pubblicata dopo Esuli, la traduzione di The Aran Islands rappresenta uno degli ultimi frutti dell’approccio di Linati nei confronti della letteratura irlandese fin da quando, nel 1914, aveva tradotto le opere drammatiche di Yeats. Il titolo dato a questa scelta di brani è di per sé indicativo: Impressioni sulle isole Aran, un riferimento tanto alla scelta rapsodica di estratti quanto alla predilezione di Linati per lo stile impressionistico e la pittura paesaggistica (Della Torre 1972). Il titolo rievoca, poi, un importante saggio di Ernesto Buonaiuti (Impressioni d’Irlanda), nell’alludere sia a una parziale e idiosincratica rappresentazione di un paese poco noto, sia allo stereotipo sentimentale dell’Irlanda come terra eterea e spirituale. Sono questi gli anni in cui Linati è ancora, in parte, interessato a stabilire un legame tra Irlanda e Lombardia, anche attraverso l’esplorazione delle rispettive tradizioni letterarie. Questo atteggiamento viene rispecchiato dalla politica editoriale del «Convegno».
Nei primi numeri della rivista si può così vedere in filigrana il contrasto tra le due forze del regionalismo e del cosmopolitismo. La svolta avviene alla metà del primo anno, nei mesi di giugno e agosto che vedono l’uscita, rispettivamente, dell’ultimo atto di Esuli e della seconda serie di estratti da Synge. Se quest’ultima viene virtualmente presentata dalle lettere di Renato Serra nelle quali il regionalismo di Linati e il suo interesse per l’Irlanda venivano sottolineati (Serra e Grilli 1920, 16, 21), l’introduzione a Joyce portava «Il Convegno» in una direzione diametralmente opposta. L’idea di identità regionale era alla base dell’interesse di Linati per la letteratura irlandese e per quella lombarda. All’inizio degli anni ’20, però, questo presupposto stava cominciando a venir meno. Il comasco, che pure di quella fantomatica scuola veniva evocato come alfiere (Angelini 1921), scrisse a Ferrieri che era «bell’e stufo di fare il lombardo» (20 settembre 1920, in Trotta 1991, 406) e che la rivista avrebbe dovuto continuare a proporre autori italiani e stranieri senza limitarsi ai corregionali. Dal materiale pubblicato nei primi anni del «Convegno», dunque, è chiaro che il suggerimento linatiano di garantire attenzione agli scrittori lombardi senza però rendere «Il Convegno» l’organo di una fantomatica scuola fu accettato da Ferrieri (Ponti 2003, 40). Ciò sembrò, tuttavia, avere un effetto anche sulla minore presenza di autori irlandesi una volta che questi ebbero perso il ruolo di contraltare europeo dei lombardi ipotizzato da Linati e altri. Dopo la pubblicazione degli estratti da Synge, infatti, l’impegno irlandese di Linati si limitò a qualche sporadico tentativo di far rappresentare i drammi di Synge e alla sola promozione dell’opera di Joyce, presentato perlopiù come esponente di una tradizione europea, sradicata.
L’incontro con l’opera di Joyce spinse Linati a interrogarsi sulla natura della letteratura irlandese. Ciononostante, la breve ma densa prefazione al primo atto di Esuli nel «Convegno» definiva Joyce in termini di estetica europea più che nazionale. Sotto la guida dello stesso Joyce, Linati creava un collegamento tra i «drammi» [sic] del dublinese e la produzione dell’Abbey Theatre che lui stesso aveva tradotto qualche anno prima, nominando anche Yeats e Synge. Tuttavia, il ritratto di Joyce era sfumato e complesso, e lui veniva presentato come uno scrittore «di razza, etnico e spaesato ad un tempo, personalissimo» (LInati 1920, 27). Joyce era, perciò, uno scrittore al tempo stesso irlandese e «spaesato», accomunato a Synge, ma anche a Gide e Ibsen. La miglior rappresentazione delle comprensibili difficoltà incontrate da Linati nel definire Joyce nei termini di un’unica tradizione nazionale è rintracciabile nella sua definizione della letteratura irlandese come di una «boîte à surprise», imprevedibile e varia. Le due tendenze del «Convegno», evidenti nel conflitto tra il progetto di rivista dedicata alla letteratura lombarda, come negli iniziali progetti di Ferrieri, e un organo cosmopolita, come preferiva Linati, influenzato da Joyce e soprattutto Pound, vennero al pettine in questo breve scritto. Qui, Linati sembrava presentare una versione della letteratura irlandese solo in parte coerente con quella da lui offerta in precedenza: l’Irlanda di Berkeley, Sterne, Parnell e Swift. Tuttavia, invece di contribuire a un posizionamento di Joyce all’interno di una più varia e ricca tradizione nazionale, queste righe ebbero come effetto principale di associare Joyce con la cosiddetta repubblica delle lettere parigina, quasi cancellando la sua irlandesità. La rappresentazione di Joyce e della sua irlandesità urbana ed europea, poco conforme alle narrazioni più comuni in Italia di un’Irlanda rurale e selvaggia, non contribuì, perciò, a una maggior conoscenza di quella tradizione. Il tentativo di introdurre quest’immagine cosmopolita con Esuli, sottolineando i legami con le correnti della letteratura europea ebbe l’effetto opposto e fu, per così dire, il temporaneo canto del cigno della letteratura irlandese in Italia. Dopo il 1920, sia «Il Convegno» sia Linati e Ferrieri rivolsero la loro attenzione ad altre lidi. Le uniche eccezioni di un qualche peso furono le opere di Joyce – tradotte da Linati ma anche da altri mediatori come Nina Ruffini (1929) e Alberto Rossi (1931) – e il Falso rivoluzionario di O’Casey, pubblicato nel 1936, in un momento in cui l’interesse per l’Irlanda cominciava a riemergere anche in funzione politica anti-inglese. Gli altri affioramenti di Joyce non fanno altro che confermarne la dimensione cosmopolita, incluso l’idiosincratico articolo di Antonello Gerbi dall’ingannevole titolo Tredici variazioni sopra un tema irlandese. Nel corso degli anni Venti, dunque, «Il Convegno» si impose sempre più come un luogo elettivo per la narrativa contemporanea e il rapporto con Joyce, coltivato e curato negli anni, e difeso dalle ingerenze, ad esempio di Bontempelli e di «900», segnò la scelta della rivista di privilegiare la prosa straniera modernista e il realismo psicologico a progressivo discapito della letteratura regionale. Joyce, irlandese malgré lui, fu funzionale a questo processo di negoziazione di uno spazio per la rivista di Ferrieri e per gli scrittori italiani nell’ambito del modernismo internazionale.
Bibliografia
Un elenco completo dei contributi di letteratura irlandese del «Convegno» è consultabile all’indirizzo https://www.LTit.it, selezionando nella maschera di ricerca la rivista desiderata e la “letteratura irlandese” come insieme storico-letterario. È inoltre disponibile una mostra online dedicata ai rapporti tra intellettuali italiani e la storia politica e letteraria irlandese: https://minerva.manchester.ac.uk/irish-in-italy/about
Angelini 1921: Cesare Angelini, Conversazione sui Lombardi. 1 – Carlo Linati, in «Il Convegno», II, 4–5, pp. 162–88
Della Torre 1972: Arturo Della Torre, Carlo Linati, Como, Pietro Cairoli
Linati 1920: James Joyce, Esuli (Prima parte), trad. di Carlo Linati da Exiles, in «Il Convegno», I, 3, pp. 27–52
Linati 1949: Carlo Linati, Irlanda e Lombardia sorelle senza saperlo, in «Il Corriere d’informazione», 12 aprile 1949, p. 2
Linati, Porcelly 1936: Seán O’Casey, Il falso repubblicano, trad. da Carlo Linati e Nina Porcelly da The Shadow of a Gunman, 1923, in «Il Convegno», XVII, 9–10, pp. 343–88
Ponti 2003: Paola Ponti, Critici e narratori a Convegno, Milano, Pubblicazioni dell’ISU Università Cattolica
Rossi 1931: James Joyce, Ulisse – 1° Episodio, trad. di Alberto Rossi da Ulysses, 1922, in «Il Convegno» XII, 9–10, pp. 476–50
Ruffini 1929: James Joyce, Un caso pietoso, trad. di Nina Ruffini da A Painful Case (in Dubliners, 1914), in «Il Convegno», X, 5, pp. 258–67
Serra, Grilli 1920: Cinque lettere inedite di Renato Serra con una nota di Alfredo Grilli, in «Il Convegno» , I, 7, pp. 12-22
Stephens 1920: James Stephens, Tre donne che piansero, trad. da Enzo Ferrieri da Three Women that Wept (in Here Are Ladies, 1913), in «Il Convegno», I, 1, pp. 67–77.
Trotta 1991: Nicoletta Trotta, Tre lettere di Carlo Linati a Enzo Ferrieri: «Son bell’e stufo di fare il lombardo», in «Strumenti critici», 25, 3, pp. 405–16