BREVE STORIA DELLE TRADUZIONI GRECO-LATINE DALL’ANTICHITÀ ALL’UMANESIMO
di Emanuele Zimbardi
È ben noto quanto sia stato fondamentale, nell’antichità, l’apporto della cultura greca al mondo latino, come da questo contatto abbia preso avvio l’ellenizzazione dei Latini, popolo fino al III secolo a.C. privo di una letteratura in senso artistico e ancora meno di una cultura filosofico-teoretica; tale processo, caratterizzato da un interscambio di saperi tra genti molto diverse, ha infine portato alla nascita di una solida cultura “ibrida”, ma essenzialmente unitaria, greco-romana. La continuità dei paradigmi estetici e morali di questo sistema culturale si è mantenuta più o meno inalterata nel mondo occidentale fino ai primi secoli del Medioevo; poi, tali valori hanno continuato a sussistere sommersi da nuovi stimoli culturali, prevalentemente germanici, ma essi erano così ben radicati da manifestarsi ancora in alcuni retaggi (politici, giuridici, artistici, letterari). Infine l’Umanesimo e l’era moderna hanno riportato in auge quel mondo nascosto e lo hanno consegnato alla cultura contemporanea come un grande antenato di cui seguire da presso le orme. A causa di questo particolare percorso culturale, costituito essenzialmente dall’assorbimento delle conoscenze greche da parte del mondo romano e quindi dalla trasmissione dell’una da parte dell’altro, si può convenire con l’opinione di uno studioso dell’antichità, cioè che «a buon diritto la letteratura latina si pone come mediatrice fra la grande esperienza greca e la cultura moderna» (Geymonat 1999, 282).
Centrale in questo fenomeno di mediazione si situa ovviamente la pratica delle traduzioni, strumento privilegiato per l’assimilazione dei contenuti della cultura allogena. Il metodo della traduzione a Roma, come si vedrà nella bibliografia finale, è stato indagato a varie riprese sotto molti punti di vista. In generale, si può affermare che la concezione traduttologica nell’antichità latina era completamente diversa da quella moderna: per noi l’opera di traduzione, pur non potendo essere un fedele calco dell’originale convertito nella propria lingua, si pone comunque come un’interpretazione il più aderente possibile al suo modello; invece, presso i Romani, sin dai primi esperimenti di resa in lingua latina, essa si prefiggeva piuttosto lo scopo di creare una nuova opera d’arte, emula – e non semplice imitatrice – dell’originale, tale da costituire un prodotto autonomo che tuttavia traeva spunti formali, contenutistici e stilistici da un modello antecedente. Questa pratica di traduzione è stata giustamente denominata, in un fondamentale lavoro di Scevola Mariotti (1952), «traduzione artistica». Il motivo fondamentale di questa concezione va ricercato nella situazione antropologico-letteraria della crescente potenza romana all’inizio del III secolo a.C.: l’impero dei Romani che, dopo la presa di Taranto nel 272, riuniva ormai un vasto territorio dalla bassa valle del Po fino alla punta estrema della Calabria, era venuto in contatto con la feconda e raffinata civiltà ellenistica della Magna Grecia, e da ciò risultava evidente l’enorme sproporzione esistente tra la potenza bellica, politica e territoriale dell’egemonia romana e la sua rozza e scarsa attività dello spirito, inadatta alla grandezza del dominatore.
Fu dunque il senso di inferiorità nelle attività de l’esprit de finesse a produrre nell’élite dirigente romana il desiderio di assorbire la cultura greca, per fondare anche a Roma una mentalità meno grossolana e che abbracciasse conoscenze fino allora ritenute inutili perché considerate forme di otium. A Roma, però, mancava un patrimonio linguistico atto a recepire i raffinati contenuti della letteratura greca, che da cinque secoli ormai conosceva il linguaggio letterario e l’aveva rifinito accuratamente in epoca ellenistica: per questo la traduzione delle opere greche rappresentò anche la fucina in cui si elaborò la nuova lingua latina della poesia e della prosa, dal momento che a Roma mancava un grande modello linguistico come quello omerico per i Greci. Fu proprio Omero l’autore su cui si cimentarono i primi scrittori – provenienti quasi tutti dall’areo magno-greca e perfettamente bilingui – della letteratura latina: grazie alla traduzione di Livio Andronico, l’Odusia, si spianò la strada all’affermazione del genere epico che ebbe grandi esponenti in epoca arcaica, tra cui Nevio ed Ennio. Oltre che all’epica, gli autori guardarono ad altri generi: innanzitutto alla commedia, che fu rifondata a Roma grazie ai modelli della commedia nuova greca, superando i volgari e stereotipati ludi di origine italica; poi la tragedia fu installata ex novo grazie alla ripresa dei grandi modelli attici di quinto secolo; da non dimenticare la storiografia, iniziata con le guerre puniche a fini giustificatori; infine, anche i generi minori della letteratura ellenistica furono sporadicamente praticati, come dimostrano le precoci traduzioni enniane, anticipatrici del successivo gusto neoterico di età sillana e cesariana. In tutti questi ambiti letterari la traduzione fu praticata col fine già esplicitato, cioè impiantare a Roma i generi principali di una incipiente letteratura che potesse fondarsi su opere autorevoli: per questo motivo gli scrittori traducevano liberamente dai modelli, cambiando dettagli che sarebbero risultati incomprensibili al mondo romano e praticando adattamenti alla mentalità latina, ma ispirandosi ad essi solo per quanto atteneva al registro formale in senso lato (formule fisse proprie del genere, motivi topici, stilemi retorici d’effetto e metro) e ai contenuti narrativi.
Tra il I secolo a.C. e il I d.C. avvennero i contatti più intensi e fruttuosi col mondo greco, che produssero grandi mutamenti nella concezione letteraria romana e, di conseguenza, anche in quella traduttologica. Infatti, mentre la poesia neoterica (Catullo in primis) e quella augustea si appropriavano dei cardini estetici della poetica callimachea, costituiti da elaborazione formale maniacale e tematiche disimpegnate, la letteratura già temprata da due secoli di pratica sviluppava un linguaggio perfettamente autonomo fondato su una solida tradizione latina: a causa di tali processi antropologico-letterari si incominciò a tradurre i Greci in maniera meno creativa, in modo tale da rendere i testi scritti tali quali erano, nella consapevolezza che la traduzione rappresentava un medium per far conoscere ai Romani i contenuti effettivi degli originali. Opere di storiografia, di retorica, di grammatica furono le traduzioni più praticate, di cui non abbiamo che notizie indirette e qualche titolo (si veda l’utile enumerazione di Richter 1938).
Una rilevante eccezione fu rappresentata dal rapporto che Cicerone intrattenne con le opere filosofiche greche: per questo genere alla sua epoca non esistevano, eccettuato qualche breve trattato monografico, opere che esponessero la filosofia greca in maniera esaustiva. Pertanto, la vasta produzione ciceroniana degli anni 45-44 dev’essere interpretata alla luce di questa carenza nel panorama letterario latino; come già gli autori dell’epoca arcaica, anche Cicerone non si attenne a una traduzione strettamente letterale, ma rielaborò profondamente le strutture e i contenuti dei testi creando delle opere affatto diverse da quelle della filosofia ellenistica: non trattati, ma dialoghi, direttamente attinti dai grandi modelli platonico e aristotelico. Invero l’operazione di Cicerone non si può interpretare come una traduzione, neppure in senso “artistico”, poiché egli traeva le sue informazioni da fonti sparse che aggregava in maniera personale oppure da opere dossografiche del tardo ellenismo: tuttavia, egli si trovò davanti al problema traduttologico della resa in latino della precisa terminologia filosofica greca, che egli risolse ricorrendo ora a calchi strutturali direttamente dal greco, ora ad ampliamento semantico di vocaboli già esistenti nella lingua latina. Così facendo, Cicerone ha consegnato al mondo antico e, in seguito, medioevale e moderno il gergo filosofico fondamentale dell’etica, della gnoseologia e della fisica, quello che ancora noi usiamo quando studiamo i presocratici e la filosofia antica: ad esempio, comprehensio, un bel neologismo che è al contempo calco semantico e strutturale, rende il concetto stoico di katalepsis; oppure providentia, che è investito del senso del termine greco pronoia.
Con la fine dell’impero romano d’Occidente venne anche a interrompersi la continuità del contatto diretto tra il mondo romano e quello greco. Tuttavia, ciò non significò affatto la dimenticanza della cultura greca in Europa, come illustra molto chiaramente Walter Berschin 2001: innanzitutto, l’eredità culturale greco-romana si trasmise anche ai cosiddetti regni romano-barbarici e oltre; in secondo luogo, nel corso del Medioevo intervennero nuovi attori orientali come mediatori della cultura greca in Occidente (bizantini e arabi). Tra l’età tardo-antica e i primi secoli altomedioevali furono soprattutto le istanze religiose a promuovere traduzioni dal greco in latino di opere liturgiche, dottrinali e canoniche, atti di concili e agiografie: al riguardo, l’operato di Gerolamo, traduttore di Origene e ritraduttore della Bibbia nel V secolo, è esemplare e ben noto; ma accanto a questo grande dotto si trovano altri intellettuali attivi nello stesso settore, come il suo amico Rufino di Aquileia e, nei secoli VI e VII, Dionigi il Piccolo, Boezio e Cassiodoro (Courcelle 1943 ne fa un’utile rassegna ragionata). Questi ultimi due furono personaggi notevoli dell’Italia di epoca gotica: il primo progettò di tradurre interamente il corpus filosofico di Aristotele e di Platone (opera che realizzò solo in parte, purtroppo); il secondo fondò una importantissima scuola di traduttori nel monastero di Vivario in Calabria, dove, oltre ai testi dei padri greci, si volsero in latino importanti opere storiografiche. Una menzione a parte merita l’attività di traduzione milanese di IV e V secolo in circoli culturali neoplatonici: qui sorse la versione latina del Timeo di Platone a cura di Calcidio, l’unico dialogo platonico che fino al XII secolo si potesse leggere in latino. Dopo il dominio ostrogoto in Italia si formò una nuova classe dirigente formata da individui privi della cultura greco-latina detenuta invece dai suoi ultimi esponenti tardoromani; immune al declino della conoscenza della lingua e del pensiero greci fu solo la corte di Roma, che fino all’VIII-IX secolo ebbe sul soglio papale ecclesiastici ellenofoni o che potevano fruire opere in lingua greca (Noble 1985).
I contatti dell’Occidente col mondo greco, mai del tutto troncati grazie alle sporadiche presenze bizantine in terra italica, ripresero a infittirsi nei secoli IX-X, quando la corte carolingia progettò un’alleanza matrimoniale (mai realizzata in seguito) inviando frequentemente ambasciatori a Costantinopoli; in ambito culturale ciò produsse anche uno scambio di libri di alto contenuto sacro che furono tradotti da dottissimi intellettuali quali Ilduino e Giovanni Scoto Eriugena. Tuttavia, anche se in questo periodo vi furono altri fecondi traduttori delle lettere greche, come Anastasio d’Irlanda, attivo a Roma, e vari diaconi napoletani, non si può parlare di una attività di traduzione continuativa e variegata: si tratta semmai di casi isolati, eccezioni, e prevalentemente di opere fideistiche (Berschin 2001, 1026-1027).
Dopo l’anno Mille, in concomitanza con l’acuirsi delle dispute dottrinali tra Oriente e Occidente e con il rafforzamento del dominio arabo in Spagna, si segnala una grande percentuale di traduzioni dal greco, e non più solo di opere cristiane. Il fulcro di questa attività intellettuale fu l’Italia meridionale: ad Amalfi esisteva una scuola di traduttori e fu un monaco amalfitano, residente sul monte Athos, a commissionare la traduzione del romanzo bizantino Barlaam e Josafat; a Salerno i riti liturgici si svolgevano in greco e la nota scuola medica fu il centro di traduzioni di opere medico-scientifiche effettuate da intellettuali praticamente bilingui.
Nel regno normanno di Sicilia e di Puglia l’attività intellettuale e traduttiva, promossa dal potere centrale stesso, fu molto florida: Enrico Aristippo, traduttore di Platone e di Tolomeo, ne fu una figura emblematica, insieme con Nicola di Otranto e con gli esponenti della scuola poetica bilingue greco-latina. Un altro grande traduttore attivo nel XII secolo fu il pisano Burgundio, che, oltre a opere di natura confessionale, si occupò di tradurre dal greco opere giuridiche (Berschin 2001, 1028-1031). In Spagna, grazie all’intermediazione araba, fu possibile recuperare moltissimi testi di natura scientifica, matematica e filosofica che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti agli occidentali, tra cui l’Almagesto tolemaico tradotto da Gherardo da Cremona: queste opere erano le copie di traduzioni risalenti ai secoli IX e X, approntate nel florido centro culturale del califfato islamico di Baghdad. È tuttavia interessante notare un aspetto particolare di questa mediazione: come l’Aristotele e il Tolomeo latini erano traduzioni dall’arabo, così le loro versioni arabe erano derivate da testi a loro volta tradotti dal greco, in siriaco o, più raramente, in persiano (Serra 1995). Dunque, le traduzioni trasmesse dal mondo arabo a quello romanzo sono di terza mano: al di là dell’impossibilità di costituire con esattezza la facies dei prototipi greci, è interessante osservare la grande vitalità della trasmissione del sapere greco in tutto il bacino del Mediterraneo, attraverso fasi cronologiche progressive, in aree geografiche lontane ma passibili di un interscambio abbastanza intenso da produrre anche passaggio di prodotti culturali.
In Italia meridionale, nella prima metà del Trecento, presso la corte dei dominatori angioini, si verificò un intenso momento traduttivo che si potrebbe considerare come il trapasso dall’esperienza di traduzioni approntate dai greci di Sicilia sotto i Normanni e gli Hohenstaufen alla fervida stagione umanistica. Prima dell’arrivo degli Angioini, il potere centrale aveva lasciato molta autonomia linguistica e religiosa alle fittissime presenze greche del territorio; anzi, talora nelle cancellerie imperiali si producevano documenti in lingua greca, a dimostrazione della forte componente ellenofona della zona; se dunque con i dominatori precedenti non si erano rese necessarie molte opere di traduzione per la familiarità degli apparati centrali con la lingua greca, gli Angioini imposero invece una politica di latinizzazione, cui seguì la necessità di disporre di testi in lingua latina. I generi prediletti dai re angioini, in particolare Roberto, erano la medicina e la teologia, e gli intellettuali greci accolti a corte come traduttori, Nicola di Reggio e Nicola di Teoprepio tra gli altri, dotarono le biblioteche della corte napoletana di versioni latine delle opere di Galeno, Massimo il Confessore e tanti altri. Questa stagione di traduzioni, benché non si possa considerare per qualità e quantità una anticipazione di quella rinascimentale, lasciò una traccia fondamentale nella cultura dell’Italia meridionale, contribuendo a mantenere viva una tradizione traduttiva dal greco al latino che, quando incontrò le geniali menti di Petrarca e Boccaccio, diede avvio alla rivoluzione umanistica (Weiss 1951, 43-45).
L’umanesimo italiano e i suoi effetti sulla cultura europea nei secoli successivi cambiarono completamente le modalità di approccio ai testi greci, le tipologie di testi fruiti e la quantità di opere straniere che giungevano nel mondo latino. Furono due sommi letterati italiani gli iniziatori del grande movimento di riscoperta diretta del mondo antico, non solo latino ma anche greco, nella seconda metà del Trecento: Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Al primo va ascritto il merito di essere stato il primo intellettuale a nutrire una vera e propria passione, quasi ossessiva, verso la conoscenza approfondita dei grandi autori classici, ai quali il poeta scrisse addirittura delle lettere in un tentativo di dialogo fittizio. Ma è il secondo l’uomo cui si deve attribuire un vero e produttivo filellenismo: infatti per Petrarca «la superiorità dei latini sui greci nella storia della cultura [rimaneva] indiscussa. […] Chi si batteva con ogni energia in questo momento decisivo di riscoperta del greco – e della letteratura greca – era il Boccaccio» (Chiarini 1995, 640). Egli non solo si fece protettore del calabrese Leonzio Pilato, ospitandolo in casa sua nel periodo in cui questi traduceva Omero in latino, ma si applicò anche nella difesa teorica dell’opportunità, per la cultura occidentale, di conoscere Omero e le favole antiche dei greci, che il poeta aveva narrato in un’opera mitologico-genealogica aspramente criticata da vari contemporanei. La direzione tracciata dai due intellettuali portò nel Quattrocento alla fervida stagione di riscoperta e ricognizione dei classici, di cui i maggiori protagonisti furono Leonardo Bruni e Angelo Poliziano, traduttori di una mole imponente di opere greche che, finalmente, furono portate alla conoscenza della cultura occidentale grazie alle loro versioni in lingua latina (Chiarini 1995, 641-645).
«Se all’interno della produzione letteraria greca la Scolastica e il Medioevo avevano guardato principalmente alla teologia, alla filosofia, alla medicina e alle scienze naturali, adesso invece si collocavano al centro dell’interesse la poesia, la storiografia, le opere teatrali, e le belle lettere in genere» (Berschin 2001, 1033): in particolare, due grandi riscoperte che hanno profondamente inciso sulla cultura occidentale sono state Omero, tradotto da Leonzio Pilato tra il 1359 e il 1362, e Plutarco, che fu più volte rivisto da diversi traduttori. Le traduzioni di Iliade e Odissea, sebbene fossero talmente letterali da risultare talvolta di difficile comprensione, inaugurarono il nuovo tipo di traduzione umanistica, non unicamente finalizzata alla diffusione di conoscenze pratiche o fideistiche (Weiss 1951, 49). L’attività traduttiva di quegli anni si accompagnò all’insegnamento del greco in Italia, la cui prima cattedra fu occupata a Firenze da Manuele Crisolora nel 1397: ciò costituì un incentivo a una migliore conoscenza della lingua originale di molti classici e incrementò la qualità stessa delle traduzioni; addirittura, alcuni umanisti si vantarono che la propria padronanza del greco superasse quella dei dotti bizantini che dopo il 1453 trovarono rifugio in Italia, nuova culla della cultura greca (Geanakoplos 1958, 158). Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, nelle stamperie di Aldo Manuzio e Venezia e degli Éstienne a Parigi (Chiarini 1995, 645-652), si ebbero le prime edizioni bilingui greco-latine, grazie alle quali i lettori più acculturati potevano finalmente confrontare il testo tradotto con l’originale; ormai la diffusione delle lettere greche era inarrestabile, e ben presto, già sul finire del Cinquecento, iniziarono i primi volgarizzamenti di opere della classicità, attraverso i quali si garantì una ancora maggiore pervasività della cultura greca nelle letterature moderne.
In definitiva, la trasmissione della cultura greca al mondo occidentale sin dall’antichità ha conosciuto un percorso discontinuo, costituito da direttrici e portate diverse a seconda delle situazioni storiche, ma che non si è mai interrotto: proprio questa fondamentale persistenza dei contatti tra Oriente e Occidente ha permesso di dare alla cultura occidentale moderna la sua particolare fisionomia di erede del mondo antico filtrato dal classicismo ideale dell’Umanesimo. Le ragioni e le modalità di questa ricezione (per usare un termine in voga negli studi antichistici) sono stati indagati da vari studiosi, come Lorna Hardwick (2003). Molti sono i motivi per cui la cultura greca è potuta rimanere vitale anche dopo la fine della civiltà che l’aveva espressa: ellenismo persistente strumentalizzato per assicurare il proprio primato, mimetismo retorico-letterario a fini nobilitanti e legittimanti, utilizzo delle strategie logiche e persuasorie elaborate dai grandi autori di età classica, diffusione di saperi in ambito medico, astronomico, zoologico e botanico, conoscenza precisa delle dottrine ortodosse per lottare contro le eresie e le deviazioni religiose, istanze pedagogiche in senso lato, e tanti altri.
Ma la causa determinante di questo fenomeno è stata la funzione paradigmatica esercitata dai Greci sui Latini, che hanno guardato ai primi come a un modello di riferimento imprescindibile per strutturare l’identità dell’Occidente. Noi abbiamo indagato come questa esigenza sia stata colmata con le traduzioni, anche se le possibilità di passaggio culturale sono svariate; tuttavia, l’operazione di trasformazione linguistica mi sembra essere la più produttiva, poiché permette di forgiare la propria lingua, creando a volte la necessità di deviare rispetto alla “norma” e di introdurvi neoformazioni che arricchiscono il patrimonio linguistico stesso: i numerosi grecismi che si trovano nelle lingue romanze ne sono chiara testimonianza. Il frutto più evidente che ha prodotto l’ellenizzazione del mondo latino è comunque l’assoluta familiarità che noi oggi avvertiamo con i protagonisti e i temi centrali della cultura greca, una familiarità che permette di riutilizzare costantemente quel materiale culturale così antico, rifunzionalizzandolo nell’era contemporanea: credo che ciò sia anche l’eredità più preziosa che quasi due millenni di traduzioni dal greco al latino abbiano lasciato al mondo occidentale.
Bibliografia
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Altri riferimenti bibliografici
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