GAETANO NEGRI E PIERINO PORCOSPINO
di Valeria Barbieri
Der Struwwelpeter è uno dei più famosi libri per bambini di lingua tedesca, scritto dal medico Heinrich Hoffmann Donner nel 1844 e pubblicato l’anno seguente. Di lì a poco il pupazzetto ha iniziato a girare il mondo, certo sulle proprie gambe, ma anche grazie all’aiuto di tanti traduttori che hanno permesso a generazioni di ragazzi di conoscerlo. Molti di questi “aiutanti” sono sconosciuti. Così è stato per la prima traduttrice italiana, di cui si ignora l’identità, ma che ha il merito di aver dato al pupazzetto il curioso nome di Pierino Porcospino. Altri sono invece inaspettati, come il secondo traduttore italiano: il senatore e sindaco di Milano, poligrafo e politico eminente Gaetano Negri.
L’idea di tradurre lo Struwwelpeter nasce piuttosto per caso, durante una vacanza in Svizzera nell’estate del 1891. In uno degli alberghi presso il quale Negri soggiorna con la famiglia, il figlioletto Antonio trova una copia del libricino e, incuriosito da quegli strani pupazzetti, comincia ad assillare il padre con mille domande. Negri decide così di tradurre il libro in versi italiani, improvvisandosi traduttore.
Gaetano Negri era piuttosto soldato e politico. Era nato a Milano l’11 luglio 1838, da una ricca famiglia della borghesia terriera lombarda. I genitori, entrambi molto colti, garantiscono al figlio un ambiente sereno dove poter formare mente e carattere. Fin da bambino Negri mostra una certa predilezione per le scienze naturali e la storia, ma anche per le lingue antiche e moderne. Tuttavia, più che gli studi sono le sue appassionate letture e le sue riflessioni a fare di lui una persona di ampia cultura. I suoi studi si interrompono nel 1859, quando Gaetano vuole andare a battersi con Garibaldi contro gli austriaci. Il padre gli sceglie una strada più sicura, impedendogli di arruolarsi nell’esercito e iscrivendolo alla Regia Militare Accademia d’Ivrea. Il giovane si lamenta di esser rinchiuso in collegio e di non poter partecipare alla gioia generale per le prime vittorie. Molto presto il suo desiderio di vivere più intense emozioni si traduce in realtà: nominato luogotenente, tra il 1859 e il 1861 viene mandato dapprima ad Aosta, per poi finire nelle più disparate province settentrionali e infine a Napoli, impegnato a combattere il brigantaggio. Si guadagna lì due medaglie al valore, subendo una ferita e vedendo morire accanto a sé diversi giovani soldati, esperienza che lo segna profondamente e lo induce a lasciare l’esercito. Nel 1863 torna a Milano. Conserverà tuttavia per tutta la vita il ricordo della bellezza di quei paesaggi e delle qualità di quelle genti.
Nel capoluogo lombardo il giovane Negri diviene collaboratore della «Perseveranza», organo del moderatismo lombardo, e si dedica prima a lavori di geologia e cartografia e poi a riflessioni filosofiche, di cui è, tra l’altro, frutto un volume su La teoria della evoluzione nelle scienze naturali (Milano 1872). Nel frattempo acquista una certa notorietà politica grazie alle sue eccellenti doti oratorie, ma soprattutto per la sua semplicità di linguaggio e di animo. Nel 1873 viene quindi eletto al consiglio comunale, del quale continuerà a far parte ininterrottamente fino al 1899, massimo rappresentante della “consorteria” moderata milanese, che rappresenterà anche quale vicepresidente del Consiglio provinciale dal 1889 alla morte; nella giunta milanese guidata da Giulio Belinzaghi è assessore all’educazione e sovrintendente alle scuole municipali, garantendo un aumento delle spese per l’istruzione primaria nel bilancio del Comune e dedicandosi al potenziamento della Scuola Superiore femminile, un istituto di formazione per le donne della borghesia.
Dopo essere stato eletto anche alla Camera nel 1881 e aver guidato l’amministrazione comunale per qualche mese in qualità di assessore anziano, nel 1884 viene nominato sindaco di Milano, il primo che non uscisse dalle file dell’aristocrazia, contribuendo in modo significativo alla trasformazione edilizia, industriale e soprattutto morale della città, non senza interpretare il proprio ruolo con una certa arroganza nei confronti delle opposizioni, che si manifesta in particolare sulla questione, che restò insoluta, dell’unificazione tributaria tra la città e il contado. La sua forte contrarietà nei confronti dei democratici si manifesta anni dopo anche nell’indirizzo di plauso al generale Bava Beccaris per la sanguinosa repressione dei moti cittadini del 1898, da lui dettato e approvato dal consiglio.
Particolare cura dedica all’istruzione, in specie quella femminile; ma il lascito principale della sua amministrazione è il primo piano regolatore della città, firmato da Cesare Berruto. Cessato dalla carica amministrativa, viene nominato senatore nel 1890. Intensifica la sua abituale attività, dedicandosi a diverse istituzioni culturali e di beneficenza, tra cui la Società dantesca italiana, di cui fu il primo presidente, e la Croce Rossa di Milano. La sua influenza in città si articola in ruoli di rilievo in imprese economiche, come la presidenza della Società anonima strade ferrate Vigevano-Milano, o in istituti scientifici e culturali di prestigio, quali, tra l’altro, la presidenza dell’Istituto sieroterapico milanese di recente fondazione, dal 1895; e quelle dell’Istituto lombardo di scienze e lettere, della Società storica lombarda, della Casa di ricovero per i musicisti e dei consigli di amministrazione di diverse opere pie. Allo stesso tempo continua a pubblicare articoli, saggi, recensioni (in particolare sulla «Nuova Antologia») senza mai abbandonare la sua partecipazione alla vita pubblica milanese e italiana. Tra le sue molte pubblicazioni si segnalano i libri dedicati alla scrittrice inglese George Eliot, in pratica una sua scoperta per l’Italia (1891), e all’imperatore Giuliano l’Apostata (1901), entrambi – filologicamente e storicamente poco attendibili, ma di grande successo – pubblicati dall’amico editore Ulrico Hoepli. Negli scritti di filosofia fu soprattutto studioso dei problemi morali, in particolare nell’opera Meditazioni vagabonde. Saggi critici (1897). Il 31 luglio 1902 muore durante una camminata lungo un sentiero a Varazze, dove trascorreva le vacanze insieme ai propri cari (Soresina 2013).
Una traduzione «felicissima»
Negri fu dunque personaggio poliedrico che manifestò doti indiscutibili negli ambiti più svariati. La sua impresa letteraria più straordinaria e di duraturo successo è però senz’altro quella occasionale traduzione di Struwwelpeter, che ancora Sergio Stocchi (1986, 14) ha considerato «felicissima». Il suo Pierino Porcospino nasce da una delle tante passioni del poliedrico Negri, quella per le lingue straniere, in un primo tempo come semplice esercizio di versione dal tedesco. Intanto il testo ha giàconquistato il mondo nordico grazie alle prime traduzioni in inglese, olandese, svedese e norvegese (Stocchi 1986, 25). E molto presto sarà noto anche in spagnolo, portoghese, ceco, serbo, finlandese, ebraico, greco, turco e persino giapponese (Tresnak 2005, 5). A Negri si deve la più nota e diffusa traduzione in lingua italiana, nata per caso e in pochissimo tempo, ma «ragionata» (come la definisce Stocchi) in ogni suo aspetto.
L’amico Hoepli, a cui Negri li mostra, è colpito dalla scioltezza di quei versi e gliene propone la pubblicazione, che, nonostante la riluttanza dell’autore che la ritiene cosa troppo «bambinesca» rispetto alla sua statura morale e intellettuale (così la definisce in una lettera a Hoepli del 1897, riportata nella monografia di Del Vecchio Veneziani), avviene nel 1891, con immediato successo.
Nonostante la sua immediata e perdurante fortuna, oggi a conoscere Pierino sono davvero pochissimi. E’ il caso di spendere qualche parola sull’identitàdi questo pupazzetto e sul libricino a lui dedicato. Innanzitutto è curioso che a scriverlo non sia stato uno scrittore, un pedagogo o un teologo, ma uno psichiatra, che per convincere i suoi piccoli pazienti a prendere delle amare medicine, si inventa buffi pupazzetti e «storielle allegre», che rivelano una singolare accezione del termine «allegro». Del resto, la prima edizione di Struwwelpeter viene pubblicata nel 1845, in piena epoca Biedermeier, caratterizzata da un profondo senso del rigore e da un suo “ingenuo” perbenismo. La Biedermeier, tuttavia, è anche un’epoca di profondi mutamenti sociali e culturali in Germania, nonché uno dei periodi piùf elici della letteratura per l’infanzia, che si propone di trasmettere alle nuove generazioni il sistema di norme e di valori borghesi fondato sugli ideali di devozione, ordine, decoro e moralità. E’ con questo intento che nascono i primi libri illustrati, o Bilderbücher, inaugurati nel 1833 dalla raccolta di fiabe Fünfzig Fabeln für Kinder di Wilhelm Hey (Schikorsky 2003, 56), ambientate in un mondo fantastico e idilliaco che non lascia spazio al brutto e al caos.
A rovesciare questo mondo perfetto ci pensa il dottor Hoffmann con il suo Struwwelpeter, una raccolta di dieci filastrocche che hanno per protagonisti bambini capricciosi o disubbidienti ai quali bisogna impartire una “bella lezione”. Il primo monello è appunto Struwwelpeter, che non si taglia le unghie e non si pettina, e che per questo viene preso in giro. Spiccano per la loro tragicità la storia di Paulinchen, unica protagonista femminile di tutto il libro, che muore carbonizzata giocando con dei fiammiferi, quella del Daumenlutscher (il bambino che si succhia i pollici) e infine quella di Kaspar, il bambino anoressico, che si rifiuta di mangiare la zuppa fino a morire di fame.
A quell’epoca si amavano le storielle dello Struwwelpeter perché riflettevano il mondo sereno e ordinato del signor Biedermeier; oggi, forse, continuiamo a leggerle per poter vivere, almeno nella lettura, in un mondo quasi perfetto. Seppur per diverse ragioni, Struwwelpeter ha davvero girato il mondo, incontrando diverse generazioni di bambini. Oggi, tuttavia, la sua diffusione appare notevolmente diminuita tanto in Germania quanto nel resto del mondo, forse a causa di un radicale mutamento nei metodi pedagogici e a un’idea dell’infanzia completamente diversa, che si riflette in Walt Disney e nei suoi cartoni animati sdolcinati e assolutamente rassicuranti.
Per il suo Pierino Negri guarda oltre la forma del testo originario, servendosi, almeno per le prime storie, di versi ottonari a rima baciata, metrica tradizionale per eccellenza delle fiabe italiane per la loro accentazione sempre cantilenante (Oh che schifo quel bambino! / È Pierino il Porcospino; Negri 2010, 2). Già dalla seconda storiella, tuttavia, compaiono altre forme metriche, con una significativa variazione prosodica. Ecco che ciascun tipo di verso non solo acquista significato sul piano semantico, ma contribuisce anche a creare interessanti analogie o contrasti tra le varie strofe. Ne La tristissima storia degli zolfanelli, ad esempio, i versi puramente narrativi sono sempre dei decasillabi (Di sala in sala, Paölinetta / Gira e rigira, sola soletta; Negri 2010, 6), mentre per quelli più significativi il traduttore sceglie l’endecasillabo (Suvvia, finiscila con questo gioco, / Che c’è pericolo di prender foco; ibid). Il ternario è invece il verso riservato al ritornello, che ora suona come un miagolio (Miao, miao, miao; ibid) ora come un rifiuto (No, no, no; ivi, 17). Grazie a minuziose scelte metriche, dunque, le filastrocche si caricano di quel particolare ritmo che permette anche ai più piccoli di impararle a memoria.
Altri espedienti concorrono a conferire ai versi un ritmo incalzante, in particolare le numerose figure fonetiche tradotte, omesse o create appositamente dal traduttore. In un’altra lettera a Hoepli (Del Vecchio Veneziani 1934, 316-17), Negri dice di aver aggiunto «un poco del suo sale» per dare all’opera «un certo sapore letterario». Rispetto all’originale, infatti, la versione italiana appare ben più densa di particolari combinazioni di suoni che ne assicurano la vivacità. A questo effetto contribuiscono poi le curiose traduzioni di quelle onomatopee che Negri non ha dovuto tanto inventare, quanto piuttosto cercare di trasferire nella sua lingua; ecco allora comparire espressioni come «Ahimè!» (nell’originale Doch weh!), «Patapum!» (Bauz! perdauz!) o «zig zag» (klipp und klapp) che attirano l’attenzione dei piccoli ascoltatori-lettori, ma che collocano anche l’opera in un preciso momento storico della sensibilità linguistica e letteraria italiana.
Quella di Negri è una lingua piuttosto semplice, ma ricca di arcaismi e di termini dotti di uso esclusivamente letterario. Questa ricercata elaborazione formale purtroppo finisce col rendere il testo quasi incomprensibile per i bambini di oggi e forse perfino per molti adulti, tanto che Sonia Marx (1997, 9) definisce il Pierino di Negri allzu antiquiert (completamente antiquato) tanto nel testo quanto nelle immagini. Si incontreranno allora termini quali «fanciulletto», «suol», «zolfanello» e «furore», che, pur essendo caduti in disuso, sono pur sempre facili da comprendere. Diverso è forse il caso di parole come «sortì», termine di uso letterario, usato spesso dal Petrarca; «aita», espressione arcaica e poetica per «aiuto!»; «deschetto», un tavolino da lavoro basso e quadrato usato da calzolai e ciabattini; o, infine, l’espressione «aver la tocca», forma arcaica per «avviarsi». Ma c’è dell’altro, forse l’aspetto più interessante del lessico impiegato da Negri: la presenza quasi impercettibile di Dante, di cui Negri era appassionato lettore (e l’abbiamo visto presidente della Società dantesca italiana per diversi anni) e che rende conto dei frequenti toscanismi, oggi del tutto in disuso, quali «tosto», equivalente letterario di «presto», «subito» (Tosto a letto fu mandato; Negri 2010, 5) o «trastullo», che in Dante indica un «diletto spirituale»: Del ben richiesto al vero e al trastullo (Purg. XIV, 93).
Altre scelte lessicali concorrono a far avvertire la distanza temporale che ci separa dal testo di Negri: i nomi dei pupazzetti tedeschi, per i quali il traduttore sceglie equivalenti particolari, a cominciare dal protagonista, il celebre Pierino, seguito da Federigo, Paolinetta, Gasparino, Giannino ecc. Se da un lato le scelte di Negri possono apparire discutibili, dall’altro occorre tener presente che tradurre i nomi tedeschi, siano essi propri o comuni, non è cosa semplice, soprattutto quando si tratta di Komposita (nomi composti). Dei dieci protagonisti, ben cinque presentano nomi propri composti: il primo e forse il più considerevole è lo stesso eroe eponimo, Struwwelpeter, il cui nome è dato da una radice nominale (Struwwel, derivante da Struwwelkopf, termine arcaico e gergale per “capellone”, “testa arruffata”) seguita dal nome proprio Peter. Negri sceglie – come s’è visto – di mantenere il nome già offerto dalla prima e anonima traduttrice italiana di Struwwelpeter, la quale ricorre a sua volta a un nome proprio seguito da quello comune di un animale: Pierino Porcospino. Sulla scelta di un animaletto non proprio grazioso si è molto discusso, ma ben più interessanti sono le ragioni che hanno portato a rendere il nome proprio con «Pierino». Dietro questa scelta vi sono sicuramente questioni eufoniche (il nome «Pietro» in italiano avrebbe un suono troppo duro e “adulto”), ma soprattutto ragioni culturali. Peter, infatti, è il nome per antonomasia del bambino delle filastrocche o delle barzellette tedesche; non stupisce dunque che Negri e molti dei suoi successori abbiano scelto appunto il nome di Pierino, protagonista di un’infinità di storielle della tradizione italiana, e comunque avvertito come il nome tipico del bambino italiano. Si pensi che soltanto nell’ultimo decennio prima della pubblicazione della versione di Negri erano stati pubblicati ben due “libri di lettura” per la prima classe elementare intitolati uno, di Federico Imperadore, Il piccolo Pierino (Napoli 1885) e l’altro, di Innocenzo Lumini, semplicemente Pierino (Brescia 1888). E «Pierini» per antonomasia bollerà nel 1966 don Milani nella sua Lettera a una professoressa i figli della borghesia destinati comunque a emergere e nella scuola e nella vita. L’unico nome italiano “alternativo”a Pierino è «Pierzazzera», proposto da Heinz-Mazzoni per la sua traduzione del 1984 (Marx 1997, 14); una soluzione nuova rispetto agli unici due nomi apparsi sino ad ora potrebbe essere «Pierino Spettinino».
La predilezione del tedesco per l’agglutinazione emerge tuttavia anche da molti nomi, verbi e aggettivi che ricorrono nei testi, come Bilderbuch, Sonnenschirm, spaziergehen ecc. Il composto più lungo e più accattivante da un punto di vista traduttivo è tuttavia l’aggettivo kohlpechrabenschwarz nella storia del «Moretto»: Es ging spazieren vor dem Tor/ein kohlpechrabenschwarzer Mohr (Hoffmann 2008, 8).L’intenzione dell’autore era sicuramente quella di sottolineare il colore scuro della pelle, richiamando il colore altrettanto scuro del carbone (Kohl), della pece (Pech) e dei corvi (Raben). Di queste tre immagini Negri sceglie solo le prime due, che sicuramente bastano a rendere la stessa enfasi dell’originale; egli, tuttavia, ha comunque voluto rimediare alla mancanza del terzo elemento promuovendo l’attributo «nero» al grado comparativo e portando l’intera costruzione al primo verso (Più nero della pece e del carbone / passeggia un bel moretto sul bastione; Negri 2010, 8).
C’è poi un altro aspetto della versione di Negri, una precisa strategia traduttiva, che rivela la distanza temporale che ci separa da essa. Mi riferisco alla traduzione dei culturemi (o Realia, in tedesco), per i quali il traduttore sceglie ora di ricorrere a realia della propria cultura, ora di ometterli completamente. La prima strategia è quella adottata per il Christkind dell’introduzione, il portatore di doni per tradizione in molti paesi germanofoni e non solo, che nella versione di Negri si trasforma in un semplice «angioletto» (Nella notte di Natale / Vien dal cielo un angioletto, ivi, 1). Se «Gesù Bambino» potrebbe essere un’altra possibile soluzione, quella di Negri è comunque una scelta condivisibile ancora oggi, essendo il Christkind profondamente radicato nella sua cultura di origine. Diverso è invece il caso del Brezel o del Leberwurst, specialità culinarie tedesche, oggi ben note anche a noi italiani. Per il primo, Negri adotta la stessa strategia già impiegata per il Christkind, trasformando il tipico pane tedesco in una semplice «ciambella»; per il secondo, invece, il traduttore sceglie di farlo sparire completamente dalla tavola apparecchiata per Federigo, dove compare ora un più generico «pranzo».
Oggi a conoscere Pierino Porcospino sono davvero pochissimi; alcuni dicono di averne sentito parlare almeno una volta, mentre la maggior parte non lo conosce affatto. Lo stesso vale per Negri, ricordato da alcuni per la sua carriera politica e quasi da nessuno per la sua traduzione. Benché egli possa dunque annoverarsi fra i tanti “autori invisibili”, la sua resta indubbiamente la più nota e diffusa traduzione italiana dello Struwwelpeter. Basta leggere qualche pagina dell’opera per sentire il “sapore letterario” datole dal Negri, in grado di suscitare un irresistibile desiderio di riscoperta dell’originale, ispirando allo stesso tempo le piùs variate interpretazioni e sensazioni.
Bibliografia
Del Vecchio Veneziani 1934: Augusta Del Vecchio Veneziani, Gaetano Negri, 1838-1902, Roma, Formiggini
Hoffmann 2008: Heinrich Hoffmann, Der Struwwelpeter oder lustige Geschichten und drollige Bilder für Kinder von 3 bis 6 Jahren von Dr. Heinrich Hoffmann (1845), Bindlach (Bayern), Gondolino Verlag
Marx 1997: Sonia Marx, Klassiker der Jugendliteratur in Übersetzungen. Struwwelpeter, Max und Moritz, Pinocchio im deutsch-italienischen Dialog, Padova, Unipress
Negri 2010: Gaetano Negri, Pierino Porcospino (1892), Milano, Hoepli, 2010 (trad. it. da Hoffmann [1845])
Schikorsky 2003: Isa Schikorsky, Kinder und Jugendliteratur, Köln, DuMont
Soresina 2013: Marco Soresina, Negri, Gaetano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. LXXVIII, ad nomen (http://www.treccani.it/enciclopedia/gaetano-negri_%28Dizionario-Biografico%29/)
Stocchi 1986: Sergio Stocchi, Il Porcospino ragionato, ossia Pierino Porcospino del dottor Heinrich Hoffmann, Milano, Longanesi
Tresnak 2005: Elena Tresnak, Die Darstellung „schwieriger“ und „böser“ Kinder in Heinrich Hoffmanns „Der Struwwelpeter“, Norderstedt, Grin Verlag