Immagini suoni impressioni

ESPERIENZE A TENTONI DI UN TRADUTTORE IN ERBA SULLA TRADUZIONE DI LIBRI PER RAGAZZI

di Pier Simone Pischedda

La mia avventura nel mondo della traduzione per ragazzi iniziò nel 2008. A seguito di un corso di lingua anglo-americana all’Università di Torino, tenuto dalla professoressa e traduttrice dall’inglese all’italiano Rossella Bernascone, iniziai a considerare la possibilità di scrivere una tesi di traduzione. La docente, traduttrice ufficiale della serie di successo americana Diario di una schiappa, mi propose di fare una traduzione alternativa del terzo libro della serie. Si trattava di un libro un po’ speciale, che univa lo stile del diario a quello dei fumetti. Nelle 200 pagine del libro, il protagonista, un bambino di undici anni di nome Greg, racconta le sue (dis)avventure familiari e scolastiche: il suo è un occhio puntato sul mondo, pronto a giudicare e ammonire il mondo degli adulti, che a lui appare strano e contraddittorio. Un bambino come tanti, in cui facilmente ci si immedesima, ma che si distingue dai suoi coetanei per il suo spirito di osservazione e per quel pizzico di sarcasmo per il quale è stato paragonato a Charlie Brown.

Per me la proposta fu come un invito a nozze, dato che ero sempre stato un amante dei fumetti e dei libri illustrati, sin dalla tenera età. Iniziai così a tradurre il terzo libro della saga, dal sottotitolo The Last Straw, tradotto in Italia come Ora basta!. Devo ammettere che, nella mia inesperienza, ero convinto che la traduzione di un libro per ragazzi sarebbe stata più facile e meno impegnativa di quella di un libro indirizzato a un lettore adulto. Non impiegai molto a rendermi conto che mi sbagliavo. Più procedevo nella traduzione più mi accorgevo di quanto fosse difficile creare dei contenuti adatti a un lettore che del mondo ha poca esperienza e che ha bisogno di essere guidato nella lettura, in particolare quando abbiamo a che fare con una cultura diversa. Che sfida, poi, creare un testo per giovani lettori quando non si è più ragazzini. Come colpire l’immaginazione del lettore, mantenere l’umorismo e il sarcasmo del protagonista, ma senza cadere nelle volgarità o nel ‘già sentito’. Come reagiranno a questo gioco di parole? E se non lo capissero? Queste domande mi si presentarono fin dalla prima pagina del libro e se un po’ mi tormentavano, allo stesso tempo mi affascinavano e rendevano il lavoro appassionante.

La serie della schiappa è scritta per quelli che in inglese vengono definiti young adults, i giovani adulti, termine piuttosto flessibile con cui si definiscono solitamente i lettori compresi tra 9-10 anni e i 18. Una fascia d’età piuttosto ampia, che copre parte dell’infanzia e l’adolescenza. Non è facile accontentare un pubblico così variegato, che ha bisogni ed esigenze di lettura diverse, senza deludere nessuno. Inoltre senza contare che i libri per giovani adulti vengono letti anche da genitori e insegnanti, spesso attori attivi nel processo di scelta del libro.

La caratteristica peculiare del Diario di una schiappa è la compresenza di messaggi scritti (il testo vero e proprio) e visivi (le vignette che accompagnano il testo). A proposito della relazione fra testo scritto e immagini Riitta Oittinen (2003, 128) scrive: «a volte sono le immagini a prendere il controllo e raccontare la storia, a volte invece il testo prende il sopravvento. Ma è sempre il lettore che riempie i vuoti e gli spazi e crea la sua storia, una nuova storia sulla base degli elementi visuali e testuali» (traduzione mia). Penso che questa sia una definizione esemplare, e chiunque abbia mai letto un libro con immagini ci si possa facilmente ritrovare. Le immagini aiutano il testo a essere più espressivo, mentre il testo spiega quello che accade nelle immagini; è perciò un rapporto inscindibile quello tra il verbale e il visivo, al punto che se uno dei due elementi venisse a mancare il testo perderebbe la sua funzione. Senza i suoi disegni, il racconto di Greg risulterebbe molto meno divertente ed espressivo. Le vignette, inoltre, inseriscono il testo in un contesto preciso, ne definiscono infatti il luogo, il tempo, la situazione, aggiungono perciò qualcosa in più, aiutando il lettore a immedesimarsi nella scena, e magari a fantasticare su di essa, inventando altri scenari possibili.

L’aspetto che più mi creava problemi e che, in seguito, mi avrebbe portato a ritornare sulle stesse questioni durante la stesura della tesi per la laurea specialistica e a perseguire un dottorato in traduzione, era il grande numero di onomatopee presenti nelle vignette di Greg. Mi affascinarono immediatamente. Parole che non sono il realtà parole, perché non sempre presenti nei dizionari, ma così vivide ed espressive che forse a volte sono più efficaci delle parole di senso compiuto: sgrunt, gnam, brum. Dopo qualche vignetta iniziavo ad accorgermi che non sempre l’onomatopea inglese “funzionava” anche in un contesto italiano. Erano certo comprensibili a un lettore che avesse conoscenza dell’inglese e potesse risalire ai verbi a cui spesso facevano riferimento, benché talvolta non si possa nemmeno godere di questo aiuto. Cercando però di immedesimarmi nel futuro giovane lettore mi accorgevo di quanto quei suoni fossero stranianti, così lontani dalla fonetica italiana. Dovevano quindi essere localizzati come qualsiasi altra parola presente nel testo: fu così che iniziò il mio percorso nel mondo dei fonosimbolismi.

Gli scritti teorici sulla traduzione di libri per ragazzi non abbondano, ma ce ne sono abbastanza per farsi un’idea sulla direzione della ricerca odierna e sulle strategie di traduzione considerate più efficaci. Mancano però quelli incentrati sul panorama della traduzione di questo genere di libri in Italia. Esiste poi qualche testo dedicato alla traduzione dei fumetti, come Zanettin 2008, ma non c’è traccia di testi riguardanti la traduzione dei fonosimbolismi in italiano.

L’analisi iniziale della traduzione dei fonosimbolismi mi portò a concludere che i problemi derivavano soprattutto da differenze morfologiche e storico-linguistiche. Come la maggior parte delle lingue indoeuropee, l’italiano è una lingua flessiva. Questo tipo linguistico tende a esprimere le caratteristiche grammaticali delle parole attraverso un solo suffisso. Ad esempio nella parola “fiori”, la vocale finale “i” ci dà alcune informazioni, ossia che il genere della parola è maschile ma anche plurale. Un’altra caratteristica delle lingue flessive è quella di «poter indicare le diverse funzioni grammaticali mediante la variazione della vocale radicale della parola» (Graffi e Scalise 2003, 67). Ad esempio, in italiano “io vedo” si distingue da “io vidi”, ‘”io esco” da “io uscii”, e così via. Tra le lingue indoeuropee l’inglese è in minoranza, perché possiede flessioni o declinazioni assolutamente minime, ed è considerata una lingua principalmente “isolante”. I verbi inglesi non presentano (se non in rari casi) differenze di persona, numero, tempo o modo e i nomi non si distinguono per genere e numero. Il carattere prettamente isolante della lingua inglese deriva dalla sua vicinanza linguistica con le lingue germaniche. Le lingue germaniche erano caratterizzate da una grande abbondanza di parole monosillabiche: la presenza di un accento intensivo proto-sillabico ha provocato, infatti, la caduta delle altre sillabe, facendo sì che molte parole rimanessero di una sillaba sola. La maggior parte delle parole italiane, invece, deriva dal dialetto toscano, una sorta di “latino semplificato” per il popolo, che eliminava i casi e usava prevalentemente le desinenze latine dell’ablativo e del dativo, che finivano in vocale, ragion per cui la lingua italiana odierna tende ad avere parole con due o più sillabe e terminanti per vocale. Un altro fattore caratterizzante risiede nel fatto che in inglese la forma del sostantivo, in molti casi, è identica alla forma verbale. Ecco qualche esempio:

n. party (festa), v. to party (festeggiare)
n. take (presa), v. to take (prendere)
n. cover (copertura, copertina), v. to cover (coprire)
n. jump (salto), v. to jump (saltare)
n. joke (battuta, scherzo), v. to joke (scherzare)

Come possiamo osservare, mentre la lingua inglese non subisce cambiamenti, l’italiano, essendo una lingua flessiva, si comporta in modo nettamente diverso. Queste caratteristiche ci fanno capire perché la lingua inglese sia enormemente facilitata nell’introduzione dei suoni onomatopeici nel linguaggio: il parlante inglese può trasformare un sostantivo in un verbo semplicemente anteponendo il to dell’infinito e lasciando la parola invariata. Il processo è molto più facile e automatico che nella lingua italiana: il buzz riferito al ronzio di una mosca, può essere trasformato facilmente in un verbo aggiungendo il to davanti. Inoltre, essendo le onomatopee molto spesso formate da una sola sillaba, “a orecchio” suonano molto più familiari a un parlante anglofono che non a uno italofono, il quale è più abituato a parole plurisillabiche. Un parlante inglese può quindi inventare espressioni e introdurle agevolmente nel lessico, senza che nessuno storca il naso. In italiano, invece, questo processo è più complicato: il parlante sarebbe obbligato a “flettere” l’espressione onomatopeica aggiungendo un suffisso, rendendo il passaggio e la conversione piuttosto faticosi. Perciò, benché nei fumetti italiani appaiano molte onomatopee di origine inglese, queste incontrano più difficoltà a essere inserite nel linguaggio di tutti i giorni, sia per un problema fonetico sia per le caratteristiche morfologiche tipiche delle lingue neolatine, che sono sì più flessibili, ma si prestano molto meno alla creazione di neologismi e parole ex novo.

Insomma, tutti questi meccanismi mi confondevano non poco, e finii per lasciare molte delle onomatopee invariate, attendendo il riscontro della mia relatrice. Nel 2011, quando partecipai alla traduzione del quinto libro della serie, le mie idee riguardo alla questione erano assai più chiare, in virtù del lavoro svolto. Per la mia tesi di laurea specialistica, portata a termine all’università di Leeds, decisi di creare un questionario in modo da verificare quali onomatopee fossero le più “gettonate” tra i madrelingua italiani.

Il questionario venne creato e distribuito online e consisteva in trentuno domande a cui risposero centosei persone, parte di madrelingua italiana e parte di madrelingua inglese, di età compresa tra i 16 e i 25 anni. Alcuni quesiti mostravano ai partecipanti un’immagine presa dal Diario di una schiappa e, per verificare la qualità della traduzione italiana, chiedevano loro di dichiarare se l’onomatopea presente nell’illustrazione fosse di loro gradimento. In altri quesiti, invece, proponevo una lista di suoni onomatopeici inglesi e italiani e chiedevo ai partecipanti di indicare le sensazioni/azioni che collegavano a ognuno di questi fonosimbolismi, per verificare se le onomatopee inglesi funzionassero anche in italiano. Il questionario era disponibile online solo per un periodo limitato di tempo ed è stato inviato utilizzando la posta elettronica. Il sistema teneva a mente gli indirizzi IP dei partecipanti per assicurare che nessuno compilasse il questionario più di una volta. I risultati hanno confermato il bisogno di “localizzare” (cioè di tradurre in modo aderente alle possibilità dell’italiano) la maggior parte delle onomatopee della versione inglese, confermando inoltre le raccomandazioni date da molti studiosi di traduzione per ragazzi (Lathey 2008; Oittinen 2008; Frimmelova 2010), che sottolineano come le strategie di adattamento siano particolarmente esigenti quando si ha a che fare con la “localizzazione” e traduzione della letteratura per ragazzi. Il questionario dimostra come i madrelingua italiani sembrino accettare le onomatopee chiamate «primarie», ossia che non prendono nessuna forma grammaticale, solitamente classificate nei dizionari come «interiezioni» (brrrr, grrr, tunk, bang, buuum). Gli anglofoni, invece, sembrano preferire la forma lessicalizzata alle interiezioni, fatto che conferma nuovamente la facilità della lingua inglese nell’adottare fonosimbolismi e renderli parte integrante del proprio lessico. Molte delle onomatopee inglesi sono ormai entrate a far parte dell’italiano, a tal punto che molti non sembrano accorgersi che quelle espressioni provengono da un’altra lingua. L’onomatopea inglese non è quindi guardata con disdegno ma viene considerata piuttosto efficace: ne è un esempio il chuckle chuckle che indica una risata sotto i baffi o il mumble mumble di Zio Paperone per indicare che un personaggio parla tra sé, di cui ormai siamo tutti a conoscenza (Eco 2008).

L’italiano quindi non sembra potersi liberare così facilmente dell’influenza inglese nella lingua dei fumetti, ma gliene deve essere grata. I primi ad aggiungere le onomatopee nei fumetti furono appunto gli americani, e bisogna tenere a mente che prima dell’arrivo degli albi d’oltre oceano, i fumetti nostrani non contenevano alcun fonosimbolismo (Eco 2008). Se da un lato bisogna riconoscere le novità introdotte grazie ai fumettisti americani, dall’altro non bisogna però dimenticare i tentativi tutti italiani di portare, e forse un po’ forzare, l’utilizzo dell’onomatopea nella lingua italiana. Mi riferisco ai futuristi italiani, i quali iniziarono a utilizzare le onomatopee, come dice il fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti, «per vivificare il lirismo con elementi crudi e brutali di realtà» promuovendo «un suo uso audace e continuo» (citato da Arcangeli 2009) E come non dimenticare colui che per primo ha cercato di inserire le onomatopee nei fumetti italiani, creando nuove forme e impressioni, ovvero Benito Jacovitti, maestro nell’italianizzare i fonosimbolismi creando delle espressioni singolari. Umberto Eco (2008) ricorda il memorabile «schiaff schiaff», il «cloppete cloppete» per il rumore degli zoccoli del cavallo, e i vari ponfete, slappete, cianft, svòff, ciunft, badabanghete, sdenghete, flup. Questo ci dimostra, innanzitutto, che un’onomatopea più vicina alla fonetica italiana esiste e che può essere usata in modo efficace per colpire il giovane lettore, il quale probabilmente apprezzerà ancora di più che le vignette contengano suoni e parole vicine alla propria lingua madre.

Insomma, le idee sono tante, come sono tante le fonti disponibili e a cui ispirarsi. Mancano, però, linee guida precise che permettano a un traduttore di addentrarsi con sicurezza nel mondo della traduzione della letteratura italiana per ragazzi. D’altra parte il bello della traduzione è proprio questo: lanciarsi in territori mai esplorati, sperimentare forme, immagini, suoni nuovi che colpiscano il lettore e il fare questo per un pubblico giovanile, ricettivo e pieno d’immaginazione.

Bibliografia

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