La baldanza

di Eva Allione

autrice di Dambudzo Marechera, La casa della fame, Roma, Racconti edizioni, 2019 (da The House of Hunger, London, Ibadan, Nairobi, Heinemann African Writers Series, 1978)

Comincio con cautela, questo testo mi fa paura. Da subito la trama – un giovane prende le sue cose e se ne va di casa dopo uno scontro col fratello; scoprirà di non poter fuggire dalla Casa della fame che è lo Zimbabwe – si sgretola in un maelstrom di immagini, di flashback e di flashback nei flashback. Secondo l’editore l’incipit chiamerebbe un passato prossimo, ma temo che un tempo così concreto e quotidiano non regga lo slancio delle scene più allucinate. Per salvare capra e cavoli, disambiguo: il tempo del racconto sarà il prossimo, i flashback al remoto. Prendo nota di ogni ricorrenza, per tradurre sempre uguale. Ma avanzando fra i riferimenti storico-social-geografici, sento crescere l’inadeguatezza. Che cos’ho in comune io, ragazzina privilegiata, con uno scrittore nero nella Rhodesia di Smith? Come posso, con la mia voce pasciuta, rendere la sua rabbia? Non c’è pagina (aprite a caso) che non contenga una rottura, una violenza, un grugno ammaccato. Spesso sono combinazioni inedite, phrasal verbs che sul dizionario non esistono. Come se Marechera avesse preso l’inglese e l’avesse sfasciato per ricomporre i pezzi a suo piacimento. Molti cocci contengono un riferimento, una citazione di Eliot, di Yeats, di Omero: queste le vedo, sono facili, immense; ma quando il lume di una candela mi mostra l’ombra di Walcott, vado nel panico. Non sono all’altezza.

Poi di colpo mi appare un parallelo, fra lo scrittore africano – neanche trentenne, già geniale e disturbato – e questa traduttrice alle prese con una lingua distorta. Il caso mi vuole dall’altra parte del mondo, a districarmi fra il giapponese che sono venuta a studiare, l’inglese che parlo con i coinquilini e l’italiano che mi scorre in vena. Marechera sente l’inglese e lo shona che gli si azzuffano nella testa. Se usa la lingua sbagliata, la madre gli molla un ceffone. Quando cerca di studiare, il padre lo riempie di botte. E nel racconto di questa estraneità dal mondo, che è viscerale e in buona parte linguistica, la guerra si combatte sui nessi idiomatici, semantici, logici. Anche io, nel mio piccolo, sono in una situazione di schizofrenia linguistica, e sto cercando di piegare l’italiano a una forma che non è la sua. Tutti e due abbiamo qualcosa da dimostrare, e ci siamo imbarcati in un’operazione che rasenta il delirio di onnipotenza. Questa baldanza ci accomuna e mi impone di aprire gli occhi e di scegliere. Finalmente vedo che non tutte le ripetizioni hanno lo stesso valore, spesso non è la parola esatta che conta, ma l’accumulo semantico. Apro la gabbia in cui avevo costretto i verbi, riscrivo le scene d’azione perché si senta la frattura delle ossa, la vischiosità del sangue. Lascio guidare il ritmo. Finalmente sono in armonia col testo, e forte di questa sicurezza intesso una trama linguistica diversa dall’originale, ma che funzioni allo stesso modo: che avviluppi e ipnotizzi, e dalla quale si stacchino – queste sì – le parole deputate a tenere insieme il tutto. Saltano le spiegazioni, i «qui ci mettiamo una nota», le parafrasi volte a ingentilire. Susanna Basso lo chiama «richiudere le scatole»; a me sembra di ricucire la lingua come una ferita, con quegli stessi «punti» che nel testo ricorrono di continuo.

Sto per consegnare. Rileggo l’inizio e capisco che c’è un ultimo squarcio rimasto aperto: fra il passato prossimo e il remoto, i miei due tempi che in Marechera sono uno solo. Memore degli «eroi neri» che nel racconto combattono invano, del compagno di scuola che viene spappolato per aver tenuto testa ai suoi aguzzini, dell’ingiustizia imperante a cui il protagonista non è capace di rassegnarsi, taglio via i participi del passato prossimo e mi assesto su un remoto totale (o quasi: al totale provvederà il saggio editor). È il tempo dell’epica e della vertigine, e questo testo è così: un pozzo in cui mi sono lanciata alla cieca, un viaggio in apnea che mi ha lasciato un senso di mistero, di stordimento e, a dispetto del titolo, di stanca sazietà.