La Breve storia della letteratura tedesca di Lukács in Italia (1945-1958)

UN CASO DI SOCIOLOGIA STORICA DELLA TRADUZIONE

di Michele Sisto

Nel 1945, sul finire della guerra, György Lukács pubblica sulla rivista sovietica «Internationale Literatur» due lunghi saggi, Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur (Progresso e reazione nella letteratura tedesca) e Die deutsche Literatur im Zeitalter des Imperialismus (La letteratura tedesca nell’età dell’imperialismo) (Lukács 1945a e b). Dedicati rispettivamente ai periodi che vanno dall’Illuminismo alla caduta di Bismarck (1888) e dalla nascita della letteratura contemporanea con la Freie Bühne (1889) al presente, essi fanno parte di un progetto unitario di rilettura della storia letteraria tedesca, volto da una parte a contrastare le tendenze culturali che avevano portato al nazionalsocialismo e alla distruzione della Germania, dall’altra a dimostrare l’efficacia dello strumentario critico del marxismo applicato alla storia della letteratura.

In esplicito contrasto con l’idealismo astratto e spesso destoricizzante della storiografia letteraria del primo Novecento, dominata dalle concezioni elitarie, nazionaliste e non di rado razziste di studiosi come Friedrich Gundolf, Joseph Nadler, Julius Petersen o Adolf Bartels (Bontempelli 2000, 89-142), Lukács propone una storia della letteratura di impianto politico, basata su un assunto provocatoriamente schematico e partigiano: il conflitto fra «progresso» e «reazione». Progressiva è la lotta contro la «miseria tedesca», ovvero contro la permanenza di residui feudali e autoritari in un paese che si è modernizzato senza rivoluzionare i rapporti fra le classi, mentre reazionario è tutto ciò che tende a perpetuarli. Questo assunto viene esplorato nelle sue principali articolazioni dialettiche sia sul piano sociale sia su quello estetico, nell’intento di mettere in luce le tendenze democratiche, illuministiche e universalistiche di una letteratura aperta al confronto con quelle delle altre nazioni moderne. Così all’esaltazione di un romanticismo mistico e regressivo che avrebbe i suoi capofila in scrittori come Hölderlin, Novalis, Nietzsche o Stefan George, Lukács contrappone un canone «realista» e progressivo che va da Lessing a Thomas Mann, passando per Goethe, Heine e Fontane.

La riedizione dei due saggi in singoli volumetti, tra le prime cose stampate nella Berlino liberata, è soprattutto per le nuove generazioni una lettura entusiasmante nel disorientamento intellettuale subentrato con la fine nazismo. Per volontà dell’autore essi vengono presto riuniti in un unico volume, prima in ungherese (1946), poi in francese (1949, nella traduzione del critico marxista Lucien Goldmann e del giovanissimo Michel Butor), in giapponese (1951) e infine in tedesco col titolo Skizze einer Geschichte der neueren deutschen Literatur (1953).

La traduzione italiana, curata da Cesare Cases, viene pubblicata nel 1956 col titolo Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi da un’Einaudi allora molto legata al Partito comunista italiano, e ha un forte impatto sia sugli studi universitari, con una dozzina fra ristampe e riedizioni fino al 1992, sia sulla storiografia letteraria, e non solo in ambito germanistico. Il paradigma che propone è infatti fondamentale per almeno due tra le maggiori imprese della storiografia letteraria italiana del Novecento, entrambe promosse da Einaudi, la Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner (4 volumi, 1964-1977) e la Letteratura italiana Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa (16 volumi, 1982-2000), e ancora oggi continua ad essere un riferimento importante per la più avanzata manualistica scolastica e universitaria (penso ad esempio alle storie letterarie di Anton Reininger, Viktor Žmegač e Michael Dallapiazza, ma anche, per la letteratura italiana, a Il materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis e a La scrittura e l’interpretazione di Luperini, Cataldi e Marchiani).

Nelle pagine che seguono vorrei ricostruire le circostanze in cui la Breve storia è stata tradotta in Italia (perché proprio in quegli anni? perché presso Einaudi? perché da Cesare Cases?), il modo in cui è stata presentata (nei paratesti, nelle recensioni), e le ragioni del prestigio di cui ha goduto per decenni. Per analizzare le «operazioni sociali» di cui consta il processo di traduzione mi sono rifatto alla proposta di metodo avanzata da Pierre Bourdieu nella conferenza del 1990 Les Conditions sociales de la circulation internationale des idées, seminale per tutto un indirizzo sociologico nei più recenti studi sulla storia delle traduzioni (Casanova 1999, Sapiro 2008, Chevrel, Masson 2012). Tra le altre cose Bourdieu vi osserva:

Le sens et la fonction d’une œuvre étrangère sont déterminés au moins autant par le champ d’accueil que par le champ d’origine. Premièrement, parce que le sens et la fonction dans le champ 
originaire sont souvent complètement ignorés. Et aussi parce que le transfert d’un champ national à un autre se fait à travers une série d’opérations sociales une opération de sélection (qu’est-ce qu’on traduit? qu’est-ce qu’on publie? qui traduit? qui publie?); une opération de marquage (d’un produit préalablement «dégriffé») à travers la maison d’édition, la 
collection, le traducteur et le préfacier (qui présente l’œuvre en se l’appropriant et en l’annexant à sa propre vision et, en tout cas, à une problématique inscrite dans le champ d’accueil et qui ne fait que très rarement le travail de reconstruction du champ
 d’origine, d’abord parce que c’est beaucoup trop difficile); une opération de lecture enfin, les lecteurs appliquant à l’œuvre des catégories de perception et des problématiques qui sont le produit d’un champ de 
production différent. (Bourdieu 2002, 4-5)

Il senso e la funzione di un’opera straniera è determinato tanto dal campo di ricezione quanto da quello d’origine. In primo luogo, perché il senso e la funzione nel campo originario sono spesso completamente ignorate. Ma anche perché il transfert da un campo nazionale a un altro si fa attraverso una serie di operazioni sociali: un’operazione di selezione (che cosa si traduce? che cosa si pubblica? chi traduce? chi pubblica?); un’operazione di «marcatura» (di un prodotto preventivamente dégriffé) attraverso la casa editrice, la collezione, il traduttore e il prefatore (che presenta l’opera appropriandosene e unendola alla propria visione e, in ogni caso, a una problematica inscritta nel campo di ricezione e che, solo molto raramente, fa un lavoro di ricostruzione del campo d’origine, in primo luogo perché è troppo difficile); un’operazione di lettura infine, poiché i lettori applicano all’opera delle categorie di percezione e delle problematiche che sono il prodotto di un campo di produzione differente. (Bourdieu 2016, 71-72)

Seguendo il filo di queste domande, mi sono interrogato sul processo di selezione, marcatura e lettura della Breve storia, provando a illustrare, con un caso di studio, alcune delle potenzialità di una sociologia storica della traduzione. Grazie alle carte d’archivio dell’Einaudi ho potuto infatti ricostruire una vicenda complessa, che vede coinvolte numerose figure di primo piano della storia politica e culturale del dopoguerra. Com’è noto, la casa editrice fondata nel 1933 a Torino da Giulio Einaudi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg si afferma assai presto come un punto di riferimento dell’antifascismo e nel dopoguerra diviene uno dei principali centri di irradiazione della nuova cultura repubblicana, con un catalogo che allinea i nomi di Marx, Gramsci, Gobetti e don Sturzo, Brecht, Proust, Sartre e Hemingway, Elsa Morante, Italo Calvino, Beppe Fenoglio e Primo Levi. Ogni decisione editoriale è il risultato di un costante confronto fra intellettuali, documentato da centinaia di carteggi che nel loro insieme costituiscono una fonte di primaria importanza per la storia del Novecento. L’esame del fondo della casa editrice, depositato presso l’Archivio di Stato di Torino, e in particolare della serie «Corrispondenza con autori e collaboratori italiani» (AE), consente di mostrare come anche la traduzione della Breve storia di Lukács sia in un lavoro collettivo che ha come posta in gioco la legittimazione non solo di Lukács ma del marxismo tout court all’interno del campo culturale italiano, e in particolare del campo letterario.

1. Selezione, o individuazione di un autore: la genesi dell’interesse specifico per Lukács (1945-1950)

L’operazione di «selezione» implica ciò che altrove (Sisto 2019, 39-68) ho chiamato «individuazione» di un autore, ovvero il processo attraverso cui gli viene riconosciuto un valore specifico tale da giustificare l’investimento – oneroso e tutt’altro che scontato – di pubblicarlo, e dunque di tradurlo da un’altra lingua. In genere questo processo ha inizio in una cerchia ristretta di addetti ai lavori, e solo in rari casi arriva a interessare una comunità più larga, fino a giustificare la traduzione di più opere di quello stesso autore o perfino, in casi limite, di tutte.

Come avviene l’individuazione di Lukács? La prima traduzione italiana di un suo testo appare sul «Politecnico», la più innovativa rivista letteraria italiana del dopoguerra, legata al Partito comunista italiano e pubblicata da Einaudi. Il suo direttore, Elio Vittorini, fautore del dialogo tra il partito e le altre forze culturali del paese, non è entusiasta né del saggio – in realtà una scarna riduzione di Über Preußentum (Sul prussianesimo, 1943), appartenente alla stessa costellazione della Breve storia e pubblicato anch’esso su «Internationale Literatur» (Lukács 1946) –, né dell’autore, che a suo parere pecca di settarismo ideologico. Ciononostante, fra l’estate del 1947 e il gennaio del 1948, l’opera di Lukács è contesa, al pari di quella di Kafka, di Hemingway o di Proust, tra i due più importanti editori del momento: da una parte la piccola ed aristocratica Einaudi, di cui si è già detto; dall’altra il colosso commerciale Mondadori, cresciuto a partire dal 1919 nel compromesso col fascismo, che cerca di riposizionarsi entro il mutato assetto del campo culturale del dopoguerra intercettando a sua volta le principali tendenze della cultura di sinistra. La posta in gioco è allo stesso tempo politica e culturale: il capitale simbolico di Lukács, le cui opere hanno diffusione soprattutto nei paesi del blocco sovietico, è in larga misura dovuto alla sua convinta e manifesta adesione al comunismo; d’altra parte il prestigio internazionale di cui comincia a godere per la sua opera anche in ambienti non comunisti gli garantisce un riconoscimento intellettuale che prescinde dalla sua appartenenza politica. Diventarne l’editore italiano costituisce dunque un investimento funzionale alle strategie di riposizionamento tanto di Einaudi quanto di Mondadori.

Come ha mostrato Luisa Mangoni, autrice di un’accurata ricostruzione della vicenda editoriale dell’opera di Lukács in Einaudi (Mangoni 1999, 363-370), a fare da mediatore nella trattativa fra il critico, allora a Budapest, e le due case editrici italiane che se lo contendono tra Torino e Milano è lo stesso segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che da Roma tiene le fila di una corrispondenza in cui interviene anche Mosca. La peculiare composizione del capitale simbolico di Lukács fa sì che ad avere interesse ad importarne l’opera in Italia siano prevalentemente intellettuali antifascisti. Tra questi va annoverato lo stesso Alberto Mondadori, iscritto al Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), che nel dopoguerra tenta di democratizzare la casa editrice paterna e di aprirla alla saggistica politico-filosofica (fino ad allora pressoché assente dal catalogo) avviando progetti e collane con la collaborazione di diversi intellettuali di sinistra, tra cui hanno un ruolo di primo piano il filosofo Remo Cantoni e il massimo teorico italiano del romanzo, Giacomo Debenedetti, entrambi di origine ebraica e colpiti dalle leggi razziali fasciste, entrambi iscritti al Pci e in rapporti personali con Lukács.

Ancora più ampia ed esplicita è la componente antifascista all’interno della casa editrice torinese, che si differenzia da Mondadori anche per l’organizzazione interna, improntata a un modello senza precedenti di collegialità democratica: le decisioni editoriali coinvolgono non solo l’editore e i redattori, ma un consiglio di consulenti che si riunisce settimanalmente, ogni mercoledì. Ne fanno parte intellettuali di diverse discipline e culture politiche, molti dei quali hanno partecipato attivamente alla Resistenza e militano nelle principali organizzazioni della sinistra, dal Pci al Psi al Partito d’Azione. Insieme a Giulio Einaudi, il cui padre Luigi è dal maggio 1948 il primo presidente della Repubblica italiana, al direttore editoriale Cesare Pavese e al direttore della filiale romana Carlo Muscetta, prendono parte all’esame dell’opera di Lukács e alla trattativa per acquisirla anche lo storico Leo Valiani, deputato all’assemblea costituente per il Partito d’Azione, lo storico Franco Venturi, addetto culturale dell’ambasciata italiana a Mosca, il filosofo Felice Balbo, capofila della corrente cattolica all’interno del Pci, lo storico Delio Cantimori, traduttore del primo libro del Capitale di Marx per Rinascita, la casa editrice del Pci, e Antonio Giolitti, nipote del primo ministro Giovanni Giolitti, anch’egli deputato all’assemblea costituente e incaricato da Togliatti dei rapporti del Pci con gli intellettuali.

Nonostante il rapporto assai stretto con la casa editrice, la decisione del partito non è scontata, ma si inserisce all’interno di una complessa politica culturale e in un delicato equilibrio di rapporti con i diversi gruppi intellettuali del paese: a seconda dell’operazione editoriale che intende condurre, infatti, il partito può ricorrere alla propria casa editrice, Rinascita (che dal 1953 confluisce negli Editori Riuniti), o a case controllate come Parenti o la Cooperativa del libro popolare, ma spesso si appoggia a case indipendenti, come Einaudi e Mondadori, o più tardi Feltrinelli e il Saggiatore, ciascuna posizionata in una diversa zona del campo e ciascuna espressione di una diversa comunità intellettuale. Questa strategia gli consente di presentare la propria proposta culturale come universalistica, evitando l’accusa di parzialità, e gli assicura ad un tempo l’allargamento della propria influenza e il consolidamento del proprio capitale simbolico. Nell’autunno 1947, a giochi ancora aperti, quando Lukács scrive a Togliatti perché gli suggerisca un editore italiano per una sua opera sulla filosofia moderna (probabilmente A polgári filozófia válság, 1947; La crisi della filosofia borghese, meglio noto col titolo francese di Existentialisme ou marxisme?), Carlo Muscetta cerca di favorire la casa editrice torinese: «Ho scritto io stesso l’appunto per la risposta», scrive all’editore, «dicendo che Einaudi è desideroso di pubblicare tutto di lui, è un compagno, ed è l’editore più adatto. Forse con questo sono riuscito a parare la mossa di Mondadori, il cui fiduciario pare che sia Giacomino Debenedetti» (lettera a Giulio Einaudi, 20 ottobre 1947, cit. in Mangoni 1999, 366). L’accordo viene raggiunto nel gennaio del 1948: Mondadori ottiene di pubblicare per primo un volume di Lukács e, nel caso di opere complete, di ripubblicare anche i libri editi da Einaudi; quest’ultimo invece si impegna a dare alle stampe entro il 1948 Saggi sul realismo (assemblaggio di due volumi allora pubblicati solo in Ungheria: Balzac, Stendhal, Zola, 1945, e Nagy orosz realisták, 1946), nel 1949 Il romanzo storico (Istoričeskij roman, uscito a puntate sulla rivista sovietica «Literaturnyj kritik» nel 1937-38 e in volume in Ungheria nel 1947) e ad acquisire, eventualmente, un libro sulla «filosofia borghese contemporanea» ancora in preparazione (probabilmente proprio Existentialisme ou marxisme?).

In effetti il primo volume di Lukács a vedere la luce in Italia porta il marchio Mondadori. Goethe e il suo tempo (Goethe und seine Zeit, 1947) esce nel 1949 nella collana «Il pensiero critico» diretta da Remo Cantoni, nella traduzione dal tedesco del fiumano Enrico Burich accompagnata da tre lettere che ne evidenziano il carattere politico, naturalmente in senso antifascista: una di Alberto Mondadori a Thomas Mann, in cui si attribuisce allo scrittore tedesco allora più prestigioso e progressista della casa editrice il suggerimento di pubblicare il libro; la breve risposta di Mann; e la famosa lettera aperta del 1929 in cui Mann chiedeva pubblicamente al cancelliere austriaco Ignaz Seipel di ritirare il provvedimento di espulsione nei confronti di Lukács, che in quel momento avrebbe di fatto significato per il filosofo una condanna a morte.

Il secondo titolo è invece pubblicato da Einaudi: Saggi sul realismo esce nel 1950, lo stesso anno di Letteratura e vita nazionale di Gramsci, nella principale collana della casa editrice, i «Saggi». La traduzione, dall’ungherese, viene inizialmente affidata, per suggerimento dello stesso Lukács, a Tibor Kardos, direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma, e poi interamente rifatta dai fratelli Mario e Angelo Brelich, nati a Budapest da madre ungherese e padre italiano, giornalista il primo (corrispondente dell’Ungheria fino al 1946) e storico delle religioni il secondo (allievo di Károly Kerényi). Per prepararne l’uscita, Cesare Pavese ne inserisce un brano nell’Antologia Einaudi 1948, una vetrina della ricca proposta culturale della casa editrice, collocandolo nella sezione filosofica accanto a Marx e Gramsci, al Kojève de La dialettica e l’idea della morte in Hegel e al Mathiez della Reazione termidoriana. La sua breve introduzione recita:

Nel vivo delle lotte del movimento rivoluzionario degli ultimi trenta anni si è venuta formando la forte personalità di Georg Lukács che si presenta oggi forse come il maggior critico marxista di storia della filosofia e, in particolare, di estetica. La sua produzione, vastissima, oggi comincia a penetrare nel mondo occidentale. Il brano che qui presentiamo è tratto da Studi sul realismo in letteratura [sic!] di prossima pubblicazione. (Antologia 1949, 346)

Come ha rilevato Mangoni (1999, 365), «oggettivamente, se non per il loro contenuto soggettivo, i testi di Gramsci e di Lukács finivano per intrecciarsi e amplificarsi a vicenda, contribuendo a porre in primo piano nella cultura della sinistra il campo della critica letteraria e della letteratura».

Osservando la serie delle pubblicazioni in volume di Lukács nel corso degli anni cinquanta vediamo che l’esito della trattativa del 1947-48 non è definitivo:

1949 Goethe e il suo tempo, Mondadori
1950 Saggi sul realismo, Einaudi
1953 Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi
1954 Il giovane Marx, Editori Riuniti
1955 La letteratura sovietica, Editori Riuniti
1956 Breve storia della letteratura tedesca, Einaudi
1956 Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, Feltrinelli
1957 Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli
1957 La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, Feltrinelli
1957 Prolegomeni a un’estetica marxista, Editori Riuniti
1957 Il significato attuale del realismo critico, Einaudi
1959 La distruzione della ragione, Einaudi
1959 Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi

Se da una parte Mondadori, a differenza di quanto stabilito, non pubblica altri titoli, dall’altra il Pci interviene direttamente con Editori Riuniti, e più tardi alcuni titoli escono per Feltrinelli, casa fondata nel 1955 e inizialmente molto legata al partito, segno che Lukács continua a costituire un investimento interessante per acquisire capitale simbolico in questa zona del campo. Ma l’editore che ha la parte più cospicua è Einaudi, con altri due importanti titoli nei «Saggi», Il marxismo e la critica letteraria e la Breve storia, e più tardi con i due corposi studi storico-politici pubblicati nella prestigiosa «Biblioteca di cultura filosofica», La distruzione della ragione e Il giovane Hegel.

Ma torniamo all’inizio del decennio. Dopo la morte di Pavese, nel 1950, a tenere le fila della questione Lukács in Einaudi sono soprattutto Delio Cantimori e Antonio Giolitti, entrambi, per diversi motivi, personalmente interessati alla sua opera. Per Cantimori essa rappresenta un momento importante nel passaggio, tipico per la sua generazione, da un’iniziale attrazione per il fascismo all’adesione al comunismo. Allievo del gentiliano Giuseppe Saitta alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Cantimori fra il 1931 e il ’34, grazie a borse di studio, soggiorna a Basilea, Zurigo, Salisburgo, Vienna e Berlino, osservando gli sviluppi del nazionalsocialismo; nel 1940 è chiamato alla cattedra di storia moderna della Normale di Pisa e nello stesso periodo comincia ad avvicinarsi al Pci, indirizzando i suoi studi verso i rivoluzionari del passato, da Utopisti e riformatori italiani (1943) a Giacobini italiani (1956). Nel 1942 cura per Einaudi i Discorsi parlamentari di Camillo Benso di Cavour, avviando una collaborazione assidua con la casa editrice, soprattutto per le collane di storia, mentre sua moglie Emma Mezzomonti traduce il Manifesto del partito comunista per i «Saggi». In una delle molte lettere con cui tiene i rapporti con la redazione torinese dichiara di aver incontrato l’opera di Lukács assai presto: «Geschichte und Klassenbewusstsein lo posseggo io, ma non posso farlo vedere a nessuno; è così costellato di note e osservazioni di carattere personale e scritte in vari momenti (lo comprai nel 1933), che proprio non si può far vedere a nessuno: meno di quanto si possa far vedere un “diario”» (a Felice Balbo, 5 marzo 1949, in AE, Cantimori). Nei pareri sulle opere di Lukács che gli vengono via via sottoposte si esprime sempre in modo favorevole, anche se non senza riserve, accordando la sua preferenza, oltre che a Storia e coscienza di classe, a Goethe e il suo tempo e a Il giovane Hegel.

L’altro principale fautore einaudiano di Lukács, Antonio Giolitti, si avvicina al marxismo in età assai più precoce di Cantimori, leggendo già da adolescente Marx, Trockij e Bernstein e soggiornando tra il 1935 e il ’37 in Germania, Inghilterra e Francia, ma probabilmente inizia a interessarsi al filosofo ungherese solo nel dopoguerra: nell’ambito dell’incarico affidatogli dal partito comincia infatti a interrogarsi sulla distanza fra intellettuali e popolo, causa dell’impopolarità della letteratura italiana, e sull’influenza del fascismo sulla cultura, tutti problemi che Lukács affronta, per la Germania, nella Breve storia. Giolitti inizia la sua collaborazione con l’Einaudi nel 1942, traducendo opere giuridiche (Otto von Gierke, Julius Binder): come Cantimori scrive sul «Politecnico», insieme a lui cura l’edizione italiana del Lavoro intellettuale come professione di Max Weber (1948) e partecipa alla costruzione delle collane di storia e di economia, patrocinando tra l’altro l’edizione del volume di Fernand Braudel Civiltà ed imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1953) e del Saggio sulla natura del commercio in generale di Richard Cantillon (1955). Nel 1949 diviene l’anello di congiunzione tra la casa editrice e il Pci nel delicato processo di pubblicazione dei Quaderni di Gramsci. È lui a raccogliere i pareri dei consulenti einaudiani sulle opere di Lukács, come quello di Felice Balbo sulla Breve storia:

Io ho qui tra le mani il Lukács: Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur: un libretto di 120 pagine che riguarda specialmente l’illuminismo e il romanticismo tedesco. Non so se i saggi che vi son contenuti facciano parte di altri volumi. Se così non fosse io credo che bisognerebbe considerare seriamente l’opportunità di pubblicarlo, perché è chiaro che, essendo un’analisi marxista, il libro dovrebbe essere effettivamente utile anche per comprendere il problema tedesco nel suo complesso. (lettera a Antonio Giolitti, 15 ottobre 1948, in AE, Giolitti)

Sono soprattutto Giolitti e Cantimori a interessarsi alla Breve storia, o meglio al saggio Fortschritt und Reaktion, come ricorda lo stesso Giolitti:

Mi dichiaro […] d’accordo con la proposta di Solmi in merito al libro di Lukács su Marx e Engels, storici della letteratura. Parecchio tempo fa Cantimori ed io ne consigliammo la traduzione, insieme con l’altro intitolato Progresso e reazione nella letteratura tedesca. Dovrebbe esistere una scheda. Mi pare che allora la proposta non ebbe seguito in quanto non si ebbe il consenso dell’autore. Vedo che ora il libro su Marx e Engels è stato ristampato a Berlino, col titolo Marx e Engels critici della letteratura. (lettera a Luciano Foà, 6 febbraio 1952, cit. in Mangoni 1999, 366)

Dall’inizio del ’52, tuttavia, a prendere in mano il progetto è un nuovo entrante, Renato Solmi, la cui azione sarà decisiva per la «marcatura» della Breve storia e per il suo posizionamento nel campo culturale.

2. Marcatura, o posizionamento di un’opera: la produzione della Breve storia (1950-56)

Fin qui abbiamo preso in esame l’operazione che Bourdieu ha definito di «selezione», ricostruendo la genesi dell’interesse nei confronti della Breve storia («che cosa si traduce? che cosa si pubblica?») e dunque la comunità presso la quale questo interesse si genera («chi traduce? chi pubblica?»). Il concetto di «individuazione» è servito a mettere a fuoco in particolare il processo di attribuzione di valore: un processo, ancora una volta, collettivo, che coinvolge, ben al di là della redazione di casa Einaudi, un discreto numero di figure e istituzioni (da Thomas Mann al Pci), ciascuna con il proprio interesse a riconoscere, in Lukács e in ciascuna sua opera, un valore specifico (politico, storico, letterario, umano, ecc.). Il valore così attribuito viene per così dire certificato attraverso l’apposizione di un marchio (della casa editrice, della collana) o di una firma (del traduttore, del prefatore), a loro volta più o meno prestigiosi, che consentono il posizionamento dell’opera e dell’autore in questione nel campo d’arrivo, facendo per esempio di Lukács un autore Einaudi e della Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi un titolo dei «Saggi». Nell’operazione di «marcatura», tuttavia, dobbiamo includere anche il processo di produzione di un nuovo «bene simbolico», ovvero, in questo caso, la costruzione del volume stesso, che implica tra l’altro l’organizzazione del testo (non necessariamente coincidente con un originale), la sua traduzione e l’allestimento dei paratesti. Per indagare questi aspetti occorre introdurre due nuove figure, entrambe appartenenti alla nuova generazione “einaudiana” che entra in scena a partire dagli anni cinquanta: Renato Solmi e Cesare Cases. È dalla loro amicizia e dal loro dialogo intellettuale che prendono forma sia la Breve storia sia, ancor prima, un libro di Lukács che non ha equivalenti in Ungheria o in Germania, ma è interamente un prodotto del campo italiano: Il marxismo e la critica letteraria.

Solmi, il più giovane dei due amici, entra in casa editrice alla fine del 1950, appena ventitreenne, grazie agli auspici del padre, lo scrittore antifascista Sergio Solmi, vicino a Einaudi e al suo gruppo fin dagli anni trenta. Fresco di laurea in lettere classiche a Milano, è stato allievo del filosofo e senatore comunista Antonio Banfi, borsista all’Istituto Croce di Napoli sotto la guida dello storico Federico Chabod, ed è tra gli animatori della rivista marxista «Discussioni», a cui collabora anche Franco Fortini, che a sua volta sarà tra i principali mediatori italiani di Lukács. Sebbene giovanissimo – per un anno condivide una camera in affitto con Italo Calvino, allora responsabile della narrativa in Einaudi – ha già tutta la forza e la curiosità intellettuale che negli anni sessanta ne faranno una delle anime della “nuova sinistra” italiana: fin dalle prime riunioni redazionali avanza proposte e stimola discussioni, senza timore di mettersi in contrasto con le figure più autorevoli della casa, che peraltro ammira profondamente. Si scontra anche con Cantimori, contrario alla pubblicazione dei Minima moralia di Theodor W. Adorno (tradotto da Solmi e pubblicato nei «Saggi» nel 1954), e con Giolitti, che si oppone alla proposta di tradurre Où va le peuple américain? di Daniel Guérin (infine rifiutato perché inconciliabile con la politica culturale togliattiana).

È grazie a lui che l’idea di raccogliere in volume gli scritti storico-letterari di Lukács torna ad essere presa in considerazione in casa editrice. Nel verbale del consiglio di mercoledì 13 febbraio 1952 si legge:

Lukács: Solmi, riferendosi ad una lettera di Giolitti che richiamava una proposta sua e di Cantimori riguardante la pubblicazione di un volume contenente Marx e Engels storici della letteratura e Progresso e reazione nella letteratura tedesca, esprime il parere che sia più opportuna la pubblicazione separata del primo di questi libri e la pubblicazione del secondo volume contenente anche altri saggi di Lukács sulla letteratura tedesca. […] Per quanto riguarda Marx e Engels storici della letteratura Einaudi sarebbe favorevole all’inclusione di questi saggi, a titolo introduttivo, nel volume di scritti sulla letteratura e sull’arte di Marx e Engels che abbiamo da tempo in preparazione. Ne risulterebbe un volume assai vivo e importante per la conoscenza dell’estetica marxista. Il Consiglio […] è sostanzialmente favorevole a entrambi i progetti e attende il parere dei consulenti esterni. (I verbali del mercoledì 2011, 357)

Nella proposta di Cantimori e Giolitti, dunque, la prima parte della Breve storia, Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur, avrebbe dovuto essere pubblicata insieme ai saggi di un volume pubblicato in Germania nel 1948, Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker (che è utile, dal momento che dovremo tornarci in seguito, elencare per esteso: La polemica tra Marx, Engels e Lassalle sulla tragedia Franz von Sickingen [Die Sickingen-Debatte zwischen Marx, Engels und Lassalle], Friedrich Engels teorico e critico della letteratura [Friedrich Engels als Literaturtheoretiker und Literaturkritiker], Marx e il problema della decadenza ideologica [Marx und das Problem des ideologischen Verfalls] e Tribuno del popolo o burocrate? [Volkstribun oder Bürokrat?]). Solmi propone invece di usare questi saggi come introduzione alla raccolta degli scritti sulla letteratura di Marx e Engels, la cui traduzione era stata affidata nel 1950 a Mazzino Montinari. La mancata consegna della traduzione fa sì che, già nel corso del 1952, anche questi saggi, oltre a Fortschritt und Reaktion, tornino disponibili per altri progetti. Sebbene i verbali non ne rechino traccia, è assai probabile che a elaborare questi progetti siano, di concerto, lo stesso Solmi e Cesare Cases, il quale proprio ora inizia un cammino che lo porterà ad affermarsi come uno dei più autorevoli interpreti di Lukács e dei massimi germanisti italiani del Novecento.

Di sette anni più anziano di Solmi, Cases viene da una famiglia della borghesia ebraica assimilata, e a causa delle leggi razziali ha dovuto lasciare l’università e riparare in Svizzera, dove ha studiato chimica prima a Losanna poi a Zurigo, per passare a lettere subito dopo la caduta di Mussolini. Lì, dietro suggerimento di Lucien Goldmann ha letto Geschichte und Klassenbewusstsein, «un libro che galvanizzava gli intellettuali, perché sembrava che la salvezza del mondo dipendesse da loro e che i destini del mondo si decidessero nelle dispute intellettuali» (Forte 2006, 24). Nella Colonia libera Italiana, l’organizzazione degli esuli antifascisti, ha conosciuto anch’egli Franco Fortini, con cui manterrà un rapporto di amicizia per tutta la vita. Tornato a Milano, conclude gli studi con il germanista Carlo Grünanger e nel 1946 si laurea in estetica, anche lui con Antonio Banfi, discutendo con il suo allievo Enzo Paci una tesi su Ernst Jünger. All’università conosce Solmi, che comincia a frequentare assiduamente: «Era la prima volta che mi trovavo di fronte a una persona di cui stimavo l’intelligenza e condividevo gli interessi», scrive nella sua autobiografia. «Anzi, nonostante che la differenza d’età giocasse casomai a mio favore, io lo sentivo superiore, meno superficiale di me. Se diceva di aver letto un libro, poniamo la Fenomenologia dello spirito, con lui si poteva essere sicuri al cento per cento, con me erano leciti i dubbi. Io ero forse troppo duttile, lui troppo rigido» (Cases 2003, 94). Il loro sodalizio intellettuale è intensissimo, ed è documentato da numerosi scritti, a partire dalla collaborazione di Cases alla rivista dell’amico, la citata «Discussioni», fino almeno al licenziamento di Solmi dall’Einaudi, nel 1963. Come vedremo, anche diverse traduzioni di Lukács possono essere considerate il prodotto di questo sodalizio. Cases è già in contatto con la casa editrice torinese dai primi anni cinquanta – ha lavorato come commesso nella libreria Einaudi di Milano, e ha proposto per la pubblicazione un romanzo satirico sul mondo culturale contemporaneo, cortesemente rifiutato da Calvino. Ma è Solmi a procurargli il compito che si rivela il più adeguato a lui: la traduzione di Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker, da inserire ora in una più ampia scelta degli scritti estetici di Lukács.

Possiamo immaginare i due amici mentre passeggiano per i viali che a Milano separano le loro abitazioni, discutendo su quali saggi includere nel volume. Già a partire dal titolo, che non ha riscontri in tedesco né in altre lingue, Il marxismo e la critica letteraria non è, come si è accennato, una semplice traduzione: il volume viene «concepito dal traduttore, con l’assenso dell’autore», assemblando i testi che «più direttamente investono la funzione della letteratura e della critica» e affrontano «le grandi questioni generali di fronte alle quali si trovano lo scrittore e il critico nella società capitalista e in quella socialista» (Cases 1964, 7). Mentre la prima parte contiene l’Introduzione agli scritti di estetica di Marx e Engels (apparsa in ungherese nel 1945 e poi col titolo Einführung in die ästhetischen Schriften von Marx und Engels in «Sinn und Form», 1953) e i quattro saggi originariamente compresi nel volume Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker, nella seconda sono raccolti quelli che Cases considera «i migliori saggi di Lukács sulla teoria della letteratura» (Cases 1964, 7): un giudizio che si può ancora oggi sottoscrivere. Si tratta di Narrare o descrivere? (Erzählen oder Beschreiben?, da «Internationale Literatur», 1936), La fisionomia intellettuale dei personaggi artistici (Die intellektuelle Physiognomie der künstlerischen Gestalten, da «Das Wort», 1936), Una discussione epistolare tra Anna Seghers e Georg Lukács (Ein Briefwechsel zwischen Anna Seghers und Georg Lukács, da «Internationale Literatur», 1939), e Lo scrittore e il critico (Schriftsteller und Kritiker, da «Internationale Literatur», 1939).

La traduzione, il contratto per la quale viene firmato nel maggio del 1952 (AE, Cases), è già in fase avanzata nel dicembre dello stesso anno, quando Solmi propone di affidare a Cases anche quella dei Minima moralia di Adorno (I verbali del mercoledì 2011, 492), di cui sarà poi lui stesso a farsi carico, e viene consegnata nel marzo del 1953 (AE, Cases). La prefazione di Lukács all’edizione italiana, datata «Budapest, settembre 1952», testimonia il rapporto di collaborazione fra il critico e il traduttore (la cui pluridecennale corrispondenza è documentata in Cases 1985). Il volume esce in settembre nei «Saggi», e viene lanciato con grande cura: l’Introduzione agli scritti di estetica di Marx e Engels viene proposta in anteprima su «Nuovi argomenti» di Alberto Carocci e Alberto Moravia, mentre Cases stesso presenta il libro sul bollettino della casa editrice, il «Notiziario Einaudi», che in quegli anni è una vera e propria rivista, diretta da Italo Calvino e animata da collaboratori di primo piano.

Il contributo di Cases consiste soprattutto nel promuovere il riposizionamento di Lukács dall’ambito della storiografia letteraria, dove si era collocato con i precedenti libri su Goethe, Balzac o Tolstoj, a quello della scrittura e della critica militanti. Nell’articolo pubblicato sul «Notiziario Einaudi», Il pensiero estetico di Lukács, insiste sull’utilità immediata che questi saggi possono avere sulle pratiche degli scrittori e dei critici nella «situazione letteraria contemporanea», facendo espressamente riferimento, per gli uni, a Moravia e Vasco Pratolini, e per gli altri a Remo Cantoni e Galvano Della Volpe:

Ci troviamo di fronte a una serie di dilemmi: narrare o descrivere? Cioè: intessere le vicende umane in una trama che ne metta in rilievo il valore esemplare, universale, oppure limitarsi a giustapporre una serie di osservazioni casuali passivamente registrate come in una macchina fotografica? Inoltre: tratteggiare dei personaggi che abbiano una fisionomia precisa, profondamente individualizzati anche nelle qualità e negli atteggiamenti intellettuali, eppure tipica di un’intera condizione umana; oppure rinunciare alla concretezza del personaggio facendone un grigio simbolo o una larva agitata da oscure forze che la trascendono? E ancora: curare l’organicità della composizione secondo il concetto che informa l’opera d’arte, imponendole di tendere verso un dato genere letterario, oppure confondere e annullare i limiti delle forme disdegnando come «impoetico» ogni travaglio di elaborazione compositiva? A seconda che si scelga l’una o l’altra via ci si sforza di raggiungere i grandi modelli del realismo o ci si abbandona alle tendenze decadenti. (Cases 1953, 4)

Il nuovo entrante Cases, con alle spalle – ricordiamolo – un tentativo di romanzo satirico, usa la teoria letteraria di Lukács per posizionare al contempo Lukács e se stesso nel campo letterario, e precisamente nel ruolo del critico militante che, prendendo le distanze dalle poetiche dominanti ancora legate all’estetica di Benedetto Croce e alla prosa d’arte, appoggia invece i più moderni tentativi di una letteratura realistica (approssimativamente coincidenti con il cosiddetto neorealismo): «L’estetica crociana (se bene o male interpretata, è un’altra questione) ha finito per persuadere gli scrittori che la più timida suggestione a prendere coscienza della propria opera equivale a propinare loro una delle famigerate poetiche cinquecentesche. Nelle loro teste devono albergare soltanto intuizioni, e non concetti o pseudoconcetti». I saggi di Lukács, invece, possono contribuire a «destare un generale interesse per i problemi del realismo nella narrazione contemporanea», e più in generale mostrare come, «una volta che si ammetta che l’artista, anziché abbandonarsi alla spontaneità immediata, deve chiarificare a se stesso le ragioni della propria arte, la collaborazione tra scrittore e critico diventa possibile e fruttuosa» (Cases 1953, 5).

Nonostante Il marxismo e la critica letteraria non sia che il terzo libro di Lukács pubblicato in Italia, solo con esso ha inizio una vera e propria discussione italiana su Lukács e l’estetica marxista. Goethe e il suo tempo era stato immediatamente stroncato proprio da Benedetto Croce, il dominus dell’estetica e della storiografia letteraria in Italia, che fiutando il pericolo aveva liquidato «il signor Lukács» come un «insigne ripetitore del Marx» (Croce 1949, 112); né i Saggi sul realismo avevano avuto maggior fortuna. L’entusiasmo con cui invece viene letto il nuovo libro, presto esaurito e ristampato, (nel frattempo Croce era morto e il suo magistero, già appannato, in pochi mesi svapora), è testimoniato tra gli altri da Italo Calvino, che in una lettera a Valentino Gerratana, direttore delle Edizioni di Rinascita ma anche stretto collaboratore dell’Einaudi, scrive: «Devo farti una comunicazione sensazionale: sono stato inaspettatamente folgorato dalla lettura di Lukács, tutte le mie idee estetiche sono scombussolate, ho trovato quel libro (parlo soprattutto della seconda parte) stimolante e chiarificatrice [sic!] come non avrei mai creduto, e non riesco più a pensare a prescindere dalle sue impostazioni» (a Valentino Gerratana, 30 settembre 1953, cit. in Mangoni 1999, 365).

Mi sono soffermato a lungo su Il marxismo e la critica letteraria perché questo volume non solo costituisce la premessa teorica della Breve storia, ma fa parte sostanzialmente dello stesso progetto editoriale. Una volta svincolato Fortschritt und Reaktion dal progettato volume teorico, infatti, il saggio può essere riunito a Die deutsche Literatur im Zeitalter des Imperialismus per ricomporre, nel rispetto della volontà di Lukács, la Skizze einer Geschichte der modernen deutschen Literatur, che nel 1953 esce in volume anche in Germania. La traduzione, iniziata nel giugno 1954, viene consegnata nell’aprile del ’55 (AE, Cases). Non entro qui nel merito dello scrupoloso lavoro traduttivo di Cases, che richiederebbe un esame a sé. Mi limito a segnalare una sua lettera a Solmi conservata nell’archivio Einaudi, da cui si evince che per i passi problematici si confronta con la versione francese, pur optando poi in genere per soluzioni autonome. Cito solo due casi: «Nella prima pag. dell’introduzione […] nella citazione di Herder c’è la parola Pangeschrei. I francesi traducono “cri universel” che non mi persuade punto. Credo piuttosto che si tratti del dio Pan. Certo che la traduz. non riesce plausibile»; e «All’inizio del cap. IV ci sono due riferimenti, uno alla rivoluzione di luglio e uno a quella di febbraio. Dal contesto sembra invece che si tratti della stessa rivol. e più precisamente, mi sembra, di quella di luglio. Invece i traduttori francesi hanno anche loro unificato i due riferimenti, ma mettendo tutte e due le volte febbraio. Sono convinto di aver ragione io, ma comunque sarà bene che ci guardi anche tu» (a Renato Solmi, 23 aprile 1955, in AE, Cases). Nel testo definitivo si legge: «un clamore di Pan» e «rivoluzione parigina del 1830 […] rivoluzione di luglio» (Lukács 1956, 17 e 90-91).

La Breve storia esce nell’aprile del 1956 nei «Saggi», posizionata dunque in un repertorio che allinea, per non citare che alcuni titoli significativi, le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952), il Diario di Anna Frank (1953), Minima moralia di Adorno (1954), Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei di Léon Poliakov (1955) e Mimesis di Erich Auerbach (1956). La marcatura einaudiana, che da metà degli anni cinquanta comincia a prevalere su quella degli altri editori e del Pci, è ulteriormente evidenziata da un giro di conferenze organizzato dalla stessa casa editrice, probabilmente su iniziativa di Solmi e Cases, che porta Lukács a Roma, Firenze, Milano e Torino nel marzo-aprile del 1956. Sono, del resto, anni di intenso investimento dell’Einaudi su Lukács, in particolare da parte di Solmi, che nel settembre 1954 presenta al consiglio editoriale Die Zerstörung der Vernunft (La distruzione della ragione), che definisce «forse l’opera filosofica più significativa apparsa in campo marxista dalla liberazione ad oggi» (I verbali del mercoledì 2013, 123), e si accinge a tradurre personalmente sia Die Gegenwartsbedeutung des kritischen Realismus (il testo della conferenza portata anche in Italia nel 1956, pubblicata l’anno dopo col titolo Il significato attuale del realismo critico) sia il poderoso studio Der junge Hegel. Über die Beziehungen von Dialektik und Ökonomie (che uscirà nel 1959 col titolo Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica).

Anche per la Breve storia Solmi e Cases chiedono all’autore una Premessa all’edizione italiana, che appare nel volume datata «Budapest, febbraio 1956». In essa Lukács colloca il suo tentativo di revisione della storia letteraria tedesca, che va di pari passo con quello della storia della filosofia tedesca proposto nella Distruzione della ragione, nel contesto della lotta antifascista e anticapitalista in atto in Germania e nel mondo. L’esigenza di esaminare le origini culturali dell’imperialismo aggressivo tedesco, scrive,

non sorge oggi da un interesse puramente storico per un’adeguata conoscenza del passato. Anzi, tale questione storica investe il destino del popolo tedesco del presente. Poiché il crollo del regime hitleriano costringe a porla nuovamente, e ad ogni persona scevra di pregiudizi e in grado di ragionare deve riuscire chiaro che la soluzione cercata da Adenauer, dai suoi dirigenti e dal suo seguito, conduce necessariamente a una nuova guerra imperialistica, a una nuova catastrofe della Germania. […] Per fortuna le tendenze opposte, quelle che vogliono risolvere la questione in modo veramente democratico, veramente progressivo, epperciò durevole, dispongono di forze sia ideali che materiali ben diverse da quelle della sinistra del 1848 e delle opposizioni contro Bismarck, Guglielmo II e Hitler. (Lukács 1956, 11)

Qui, come in molti suoi saggi di questo periodo, Lukács invoca la necessità di una scelta, ponendo l’alternativa fra la Germania capitalista di Adenauer, considerata erede del filisteismo reazionario tedesco, e la Germania socialista di Ulbricht, che proseguirebbe invece le tradizioni progressiste della cultura tedesca (giudizi che Solmi e Cases condividono per esperienza diretta: cfr. Solmi 1954, Cases 1954 e 1958a). La fascinazione della storiografia militante di Lukács risiede non da ultimo in questo pathos della lotta, secondo il quale la posta in gioco delle prese di posizione letterarie o filosofiche è niente di meno che il destino dei popoli, e in ultima istanza dell’umanità. Questa credenza (nel senso in cui Bourdieu usa questo termine), allora largamente condivisa dai giovani intellettuali antifascisti, ha ancora oggi un ruolo importante nella legittimazione, almeno soggettiva, di una parte consistente degli studi letterari, anche se non necessariamente all’interno di una prospettiva marxista. Fatto sta che certo Solmi e Cases, e non solo loro, si sentivano direttamente chiamati in causa da appelli come quello che troviamo nella prima pagina della Premessa: «All’estero, d’altra parte, e anche in Italia, si sottovaluta spesso la lotta eroica che eminenti poeti tedeschi hanno combattuto e combattono ancora oggi per il rinnovamento della loro nazione, per ricondurla sulla retta via. Questo libro intende anzitutto descrivere questa lotta» (Lukács 1956, 9-10).

L’Einaudi stessa diventa, nel corso degli anni cinquanta, il più riconosciuto centro di irradiazione di questa credenza nel campo culturale italiano. Operazioni come la traduzione delle opere di Lukács – insieme a molte altre analoghe – le consentono di acquisire rapidamente un capitale simbolico tale da poter competere con case editrici più antiche e prestigiose, dalle più letterarie, come Vallecchi o Bompiani, alle più commerciali, come Mondadori e Rizzoli, fino a insidiare persino Laterza, la casa editrice di Croce, che ancora dominava il campo della storiografia e della filosofia. Se in un primo tempo lo stretto legame con i partiti antifascisti è fondamentale per l’accumulazione di questo capitale, che ha dunque una notevole componente eteronoma, in seguito l’Einaudi riesce, a differenza delle case editrici più manifestamente schierate in politica (a sinistra come a destra, da Editori Riuniti a Longanesi), a salvaguardare la propria autonomia, conquistando un altrettanto notevole componente di capitale specifico in diversi campi: letterario, filosofico, storico, antropologico, scientifico, ecc. Nel 1956 la presa di posizione contro l’intervento sovietico in Ungheria segna un’aperta rottura col Pci, che se da un lato fa perdere alla casa editrice il prezioso appoggio del partito, dall’altro ne conferma la patente di autonomia e ne accresce ulteriormente il prestigio. La decisione di continuare a pubblicare Lukács, che i sovietici avevano arrestato e deportato in Romania, diventa un gesto non più di allineamento ma di dissenso. Questa traiettoria ha l’effetto paradossale di creare una nuova posizione nello spazio dei possibili, consentendo all’Einaudi, proprio in virtù dell’autonomia difficilmente conquistata, di esercitare un ruolo senza precedenti nel campo del potere (intorno al ’68 sarà ad esempio uno dei principali think tank della “nuova sinistra”). I più interessanti fra i nuovi entranti del decennio 1955-1965, come Feltrinelli, il Saggiatore e Adelphi ripercorreranno con successo la strada aperta da Einaudi, traendone significativi vantaggi nell’accumulazione primaria del loro capitale simbolico, e contribuendo da parte loro ad accrescere e consolidare ulteriormente quello della “capostipite”, che dopo più di mezzo secolo è e resta la più prestigiosa casa editrice italiana.

I profitti simbolici della marcatura sono, dunque, reciproci: non solo l’operazione dell’Einaudi, condotta in primis da Solmi e Cases, contribuisce a legittimare Lukács in Italia anche al di fuori degli ambienti culturali del Pci, ma a sua volta Lukács, con l’accrescersi del suo capitale simbolico sia in Italia che all’estero, contribuisce a legittimare il marchio Einaudi, in un circuito virtuoso di mutuo riconoscimento fra pubblicante e pubblicato. Questo circuito virtuoso ha una delle sue basi valoriali proprio nel «senso della lotta», e continuerà a funzionare efficacemente solo fintantoché esso sarà condiviso da una frazione consistente della società italiana, nelle sue diverse articolazioni. Con il ridursi di questa condivisione, anche il capitale simbolico di Lukács e quello dell’Einaudi tenderanno a loro volta, benché in misura diversa, a ridimensionarsi.

3. Lettura, o riproduzione di un gesto: il metodo di Lukács e la letteratura italiana (1956-58)

Anche nel caso della «lettura» – la terza operazione indicata da Bourdieu – è opportuno ampliare un poco il concetto, includendovi non solo i modi in cui i lettori italiani applicano al testo le categorie di percezione e le problematiche caratteristiche del campo letterario d’arrivo, su cui in questa sede mi soffermerò solo brevemente, ma anche quella che potremmo definire lettura “attiva”, ovvero la riproduzione nel campo letterario d’arrivo del gesto che un certo autore o testo tradotto veicola. È questo, come vedremo, il modo in cui Cases cercherà di «leggere» Lukács.

Il primo atto di lettura della Breve storia si deve tuttavia ancora una volta a Solmi, quasi certamente autore della «scheda bibliografica» (una sorta di quarta di copertina in forma di segnalibro) che accompagna il volume. Si tratta di un’operazione di «lettura» in senso stretto, che ha conseguenze rilevanti, perché colloca risolutamente l’opera nel contesto della storiografia letteraria, invitando a leggerlo all’interno della problematica che caratterizza questa disciplina nell’Italia degli anni cinquanta. Il testo di Solmi, succinto e pugnace, sottolinea la superiorità del metodo di Lukács, contrapponendolo a quello di Croce, che non ha neppure bisogno di nominare, dal momento che si tratta del paradigma manifestamente dominante:

Si tratta, per la prima volta, di una compiuta sintesi storica di un’intera letteratura, così sapiente e articolata nella sua sistematica brevità da far scadere al rango di cronache o di compendi molte delle tradizionali storie letterarie. (Né, d’altra parte, il libro di Lukács si può considerare alla stregua di un saggio, se caratteristica del saggio, a differenza della storia, è il taglio obliquo e parziale, condizionato a un interesse o a un punto di vista. No, si tratta proprio di una storia e, come qualcuno potrebbe dubitare, del solo tipo di storia che merita veramente questo nome…) Così, l’interesse del libro di Lukács trascende l’ambito della letteratura tedesca, per investire, direttamente o indirettamente, l’intera concezione della letteratura e della storia letteraria. (Scheda bibliografica Einaudi n. 21, marzo 1956: György Lukács, Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi)

Cases, nel suo articolo di presentazione pubblicato ancora una volta sul «Notiziario Einaudi», approfondisce questo spunto, ricostruendo il contesto storiografico originario all’interno del quale Lukács aveva preso posizione: «Il fatto che Lukács scrive da marxista lo differenzia nettamente da tutta la tradizione storiografica precedente. Occorre tuttavia distinguere tra storiografia dell’epoca dell’imperialismo [Gundolf, Nadler, citati più oltre] e storiografia liberale (Gervinus, Hettner, Haym) e socialista (Mehring). La posizione di Lukács non si identifica naturalmente nemmeno con le seconde, e va molto oltre lo stesso Mehring». La sua è, anzi, «la più organica risposta alla storiografia reazionaria», contro cui non ha neppure bisogno di polemizzare apertamente, dal momento che la «condanna sul piano della giustizia storica e non su quello della concorrenza accademica» (Cases 1956, 5). Ma vediamo più da vicino qual è la visione della storia letteraria a cui Lukács si oppone:

Si sa che il leitmotiv di questa storiografia, ancor oggi imperante nella Germania di Bonn, è una concezione antropologica per cui la storia letteraria costituirebbe l’arena di due forze opposte, il razionale e l’irrazionale, l’intelletto e il sentimento e gli istinti, cui corrispondono sul piano politico il cosmopolitismo e il nazionalismo. La Storia della letteratura tedesca del dottor E. Brenner, un «bigino» molto noto nelle scuole tedesche che nel 1952 aveva già raggiunto il 131° migliaio, offre allo sprovveduto discente addirittura un disegnino che gli permette di abbracciare con una sola occhiata le magnifiche e reazionarie sorti della letteratura tedesca giusta tali concezioni. Per il periodo che ci interessa la curva della ragione e del cosmopolitismo presenta due apici verso il 1790 (classicismo) e il 1900 e quella dell’irrazionale e del nazionalismo due apici verso il 1815 (romanticismo) e il 1940. […] Si noti che ogni razionalismo è per definizione «asociale», e inversamente ogni nazionalismo è nazionalsocialismo. (Cases 1956, 5; La Deutsche Literaturgeschichte di Emil Brenner, pubblicata nel 1934, arriva nel 1977 alla 19° edizione e a 200.000 copie; all’interno dei piatti di copertina contiene in effetti lo schema illustrato Der Ablauf der deutschen Kultur)

Se si prescinde dalla sovrapposizione, più recente, fra nazionalismo e nazismo, questo schema domina la storiografia letteraria tedesca a cavallo fra il XIX e il XX secolo, e non solo penetra nella storiografia straniera coeva – ad esempio nei due manuali italiani più diffusi del dopoguerra, scritti negli anni del fascismo da Giovanni Vittorio Amoretti (1936) e Rodolfo Bottacchiari (1941) – ma sopravvive ancora oggi, se non nella manualistica universitaria, senz’altro in quella scolastica: il luogo comune di uno Sturm und Drang che in nome del sentimento si contrapporrebbe all’illuminismo, come quello di un romanticismo che, sempre in nome del sentimento, supererebbe le concezioni razionalistiche del classicismo sono duri a morire. Cases evidenzia come il grande merito della Breve storia sia demolire questo schema astrattamente psicologico – o, come scrive, «antropologico» – per sostituirgli quello della lotta fra progresso e reazione, che ha il vantaggio di essere saldamente radicato nella storia sociale e politica della Germania e dell’Europa. Il termine di confronto è per lo più la Francia, che con le rivoluzioni del 1789 e del 1848 stabilisce una misura in termini di progresso della democrazia rispetto alla quale tutti i paesi, e in primo luogo i loro scrittori, sono chiamati a prendere posizione. Lukács chiarisce che «lo Sturm und Drang non è quindi altro che una fase particolare dell’illuminismo», e dunque un momento progressivo nella storia letteraria tedesca, mentre, invece, «il romanticismo è una risposta (e una risposta, in Germania, reazionaria) alla Rivoluzione francese» (Cases 1956, 6, corsivo dell’autore). E così via.

Non c’è spazio, naturalmente, per riassumere qui le tesi di Lukács, di cui si è già sottolineata in apertura l’importanza per la storiografia letteraria del secondo Novecento sia tedesca che italiana. Più interessante è osservare come la Breve storia venga letta in Italia negli anni cinquanta, anche al di fuori della cerchia einaudiana, e come il metodo che essa illustra venga applicato alla critica e alla storiografia letteraria italiane. Per quanto, infatti, la sua pubblicazione abbia esplicite implicazioni politiche, non se ne può cogliere il senso esatto se non interpretandola come presa di posizione, prima ancora che nel campo politico o in quello storiografico, nel campo letterario. A questo scopo è opportuno ripercorrere un tratto della traiettoria di Cesare Cases, che proprio fra il 1953 e il ’58 fa il suo ingresso nel campo come critico militante. Va ricordato che la sua carriera universitaria avrà inizio solo nel 1959, e che in questo periodo Cases è un insegnante di scuola che sta cominciando a farsi un nome come traduttore di Lukács e collaboratore di «Società» e «Il Contemporaneo», le principali riviste politico-letterarie del Pci. E va osservato anche che, nell’assumere la postura e il metodo di Lukács, egli non si occupa solo di letteratura tedesca ma anche di teoria letteraria e, assai spesso, di letteratura italiana, e in particolare di scrittori contemporanei.

La posta in gioco delle sue prese di posizione di questi anni cruciali è dunque, come si è già visto nel caso de Il marxismo e la critica letteraria, determinare l’orientamento della produzione letteraria italiana contemporanea. Il critico letterario, scriverà anni più tardi,

si sentiva deputato a spianare strade al futuro, abbattendo taluni cippi e restaurandone e incoronandone altri; operazione alquanto dubbia, ma che aveva il pregio di costringere a quell’impegno che prima di essere politico era morale. Lukács esagerava certamente la «responsabilità dell’intellettuale», ciò che era legato alla cattiva coscienza sulla certezza dei fini per cui invocava tale responsabilità; tuttavia è bene che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciar cibo ai suoi piccoli finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido. Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che «omnis determinatio est negatio» e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale. (Cases 1985, 152-153)

Il passo è datato 1985. Ma la massima spinoziana omnis determinatio est negatio, secondo cui ogni cosa in quanto esiste è la negazione di qualcos’altro, si trova già in una corrispondenza sulla Germania di Adenauer apparsa nel 1954 (Cases 1954): non è più che un inciso, ancorché a proposito di quei campi di concentramento ai quali Cases era sfuggito solo riparando in Svizzera, ma indica come il giovane critico faccia suo il senso della lotta così vivo nella Breve storia come negli altri scritti del filosofo ungherese, traducendolo a sua volta nell’appello insistito a scegliere e scartare, in una serie di alternative di sapore lukácsiano.

Nei suoi scritti di questi anni Cases ritocca, corregge o rovescia in poche righe questa o quella pagina della storia letteraria, come se una copia della Breve storia fosse sempre aperta accanto alla sua macchina da scrivere. Reimmergendo ciascuna opera nel flusso della storia egli formula il giudizio di valore osservando come essa si collochi rispetto alla linea che divide il passato dal futuro. Per quanto riguarda la letteratura tedesca, alla linea della «reazione» Stifter – Nietzsche – Rilke – Benn, dominante nella germanistica tedesco-federale, egli contrappone una linea del «progresso» che conduce dall’illuminismo al «realismo critico» passando per Lessing – Goethe – Heine – Thomas Mann e includendo autori eccentrici rispetto al canone vigente quali Gottfried Keller, Theodor Fontane e Karl Kraus.

Anche la letteratura italiana viene sottoposta a un analogo, sebbene più frammentario ed episodico, lavorio di rilettura, che si appoggia soprattutto a Francesco De Sanctis, la cui Storia della letteratura italiana del 1870 (che Einaudi ripubblica in questo periodo negli opera omnia del critico napoletano) «è pure una storia civile, una storia del progresso e della reazione» (Cases 1956, 5). Nella sua ricalibratura del canone Cases valorizza Teofilo Folengo e l’abate Galiani, rilegge il cattolico Manzoni in chiave provocatoriamente progressista e riconosce alla «Voce» di Prezzolini il merito di aver dato ai letterati italiani un’ideologia (per un’analisi più ampia di queste posizioni si veda Sisto 2010, 109-114). Con lo stesso strumentario interviene nel dibattito sulla letteratura contemporanea, dominato negli anni cinquanta dalla problematica del realismo.

La genesi di questa problematica, ha osservato Anna Boschetti (2010), è dovuta al concorso di numerosi attori con diversi interessi specifici. Sono innanzitutto scrittori come Moravia, Pavese e Calvino a presentarsi come «realisti» o «neorealisti» per contrapporsi all’egemonia della letteratura «pura» affermatasi negli anni del fascismo con la prosa d’arte di autori come Emilio Cecchi e l’ermetismo di poeti come Ungaretti. Si tratta di un movimento internazionale che ha i suoi capofila in Francia nel Sartre di «Les Temps Modernes» e in Italia nel Vittorini del «Politecnico». Per legittimarsi, i realisti italiani si appoggiano, almeno per un tratto delle loro carriere, all’enorme prestigio dei partiti comunista e socialista, che promuovono una letteratura «impegnata», capace di assumere la propria responsabilità sociale, spesso associata a una poetica «realista» d’importazione sovietica, talvolta persino legata ai nomi di Ždanov e di Stalin. Si crea così un campo di tensioni, nel quale una delle principali poste in gioco è la definizione stessa di realismo: mentre gli scrittori della nuova generazione sottolineano la sfida estetica di un realismo politico nei temi e sperimentale nella forma, i loro concorrenti più anziani e consacrati, che si sentono insidiati, tendono a screditare ogni forma di realismo come arte politicizzata e legata a poetiche naturalistiche da tempo superate; per parte loro gli intellettuali del Partito comunista tentano di legittimare il «realismo socialista» mostrando come esso si concili con la migliore eredità letteraria nazionale, mentre i professori universitari, come Luigi Russo e Natalino Sapegno, si limitano a rilevare una comune intenzione di rappresentazione veridica, preoccupati piuttosto di stabilire una genealogia di stampo hegeliano che colleghi Manzoni e Verga ai loro epigoni contemporanei. Opere come Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (1948), Metello di Vasco Pratolini (1955), Il barone rampante di Italo Calvino (1956) o La ciociara di Alberto Moravia (1957) entrano in questo campo di tensioni, suscitando intensi dibattiti.

Cases affronta il problema del realismo attraverso la teoria della letteratura di Lukács, uno strumento inedito e filosoficamente più sofisticato di quelli disponibili sulla scena critica italiana. Così, anche se le sue prese di posizione coincidono spesso con quelle degli intellettuali del Pci e dei professori universitari sopra citati, gli argomenti con cui le sostiene – e il prestigio di cui Lukács comincia a godere – gli garantiscono un’autorevolezza inusuale per un critico esordiente. I passaggi più riusciti dei suoi articoli sembrano tratti da una versione italiana della Breve storia, dove, sulla base di un’argomentazione storico-dialettica assai lontana dallo schematismo ideologico allora corrente, Elsa Morante, Carlo Levi e Vasco Pratolini figurano dalla parte del progresso e Beppe Fenoglio, Italo Calvino e Dino Buzzati da quella della reazione. Il più interessante e controverso dei suoi interventi di critico militante è probabilmente la stroncatura del Pasticciaccio di Gadda, acclamato alla sua uscita da critici influenti come Gianfranco Contini, dagli scrittori della neoavanguardia e dal pubblico. Come Lukács aveva indicato in Kafka il rappresentante più autorevole della problematica decadente dell’inconoscibilità del reale, così Cases individua in Gadda lo scrittore forse più importante del dopoguerra, ma anche un maestro di cui non seguire l’esempio: dietro la deformazione dell’orizzonte linguistico, cifra della sua scrittura, ci sarebbe infatti la sfiducia nella possibilità di affrontare i problemi della nazione, e il suo rifugiarsi «nell’indistinto romano» per sfuggire al capitalismo milanese sarebbe una soluzione regressiva, nel senso letterale di un moto a ritroso verso «il Sesso, la Morte e la Tribù» (Cases 1958b, 7), verso il caos e il nulla.

Se oggi la sproporzione fra la legittimità di un autore divenuto canonico come Gadda e un critico pressoché dimenticato come Cases è tale da rendere questa stroncatura quasi imbarazzante per il secondo, nel 1958 le cose stanno diversamente: in un tipico caso di quello che Pascale Casanova ha definito «scambio ineguale» (Casanova 2002), il giovane traduttore di Lukács trae la sua autorevolezza da quella del critico che ha tradotto, e può giocarla credibilmente contro uno scrittore la cui piena consacrazione è ancora di là da venire, leggendone l’opera attraverso il gesto appreso dal maestro.

4. Lo spazio dei possibili e il senso della lotta

Intrepretando le riflessioni di Bourdieu sulle condizioni sociali della circolazione internazionale delle idee come uno schematico programma di ricerca, ho provato a mettere in luce, attraverso l’analisi del caso specifico della Breve storia, alcune questioni generali che una sociologia storica della traduzione può contribuire a mettere a fuoco, e che vanno ben al di là della trasposizione interlinguistica di un testo.

Quello della selezione è un problema di cui gli studi sulla traduzione assai di rado tengono conto, e quando lo fanno tendono a concentrarsi sulla selezione negativa, ovvero sui casi di censura, quando invece è assai più frequente la mancata individuazione, vale a dire l’assenza di un interesse a tradurre un certo testo (al quale evidentemente non è riconosciuto un valore tale da giustificare l’investimento). Se si prescinde dal caso degli autori che vengono meccanicamente tradotti per scopi commerciali, il processo di individuazione non può essere che specifico (ovvero riguardare un certo settore della cultura del paese di arrivo, a volte dotato dell’autonomia di un campo) e collettivo (di solito a partire da un piccolo gruppo di attori con forti interessi condivisi). Nel caso di Lukács abbiamo visto come questo processo coinvolga numerosi intellettuali legati sia ai partiti della sinistra marxista (Pci, Psi, Psiup), sia all’editoria più autonoma (Einaudi, Mondadori, Feltrinelli): senza l’integrazione di queste due forme di capitale (politico e specifico), la legittimazione di Lukács sarebbe stata più precaria e meno durevole (si pensi a un Lukács “di partito” pubblicato solo dagli Editori Riuniti, o alla marginalità in cui Lukács è relegato in seguito alla perdita di capitale simbolico dei movimenti di sinistra negli anni ottanta: una marginalità tale che né Einaudi, né Mondadori, né Feltrinelli hanno in catalogo le sue opere, mentre il sito györgylukács.com ne può mettere a disposizione le scansioni integrali senza incorrere in alcuna rimostranza).

La marcatura, come abbiamo visto, implica non solo la legittimazione legata al marchio dell’editore o alla firma del prefatore, ma anche il posizionamento dell’opera (o dell’autore) in un repertorio, ovvero in un insieme di testi a cui è riconosciuta legittimità da parte di uno o più gruppi di attori del sistema d’arrivo: l’acquisizione a più repertori (nel caso di Lukács quelli dell’Einaudi, della collana «Saggi», della critica letteraria marxista, della politica antifascista) assicura di norma un maggiore e più stabile capitale simbolico. In questo senso sono fondamentali sia il modo della manipolazione dell’oggetto libro (che più spesso di quanto si immagini può arrivare a un vero e proprio riassemblaggio realizzato ex novo nel campo d’arrivo, come nel caso de Il marxismo e la critica letteraria), sia il suo posizionamento in uno o più campi. Abbiamo visto come il ruolo di Solmi e Cases sia determinante nel collocare Il marxismo e la critica letteraria e la Breve storia innanzitutto nel campo letterario, soprattutto attraverso l’associazione fra le posizioni di Lukács (non ancora consacrato), dell’Einaudi (in progressiva ascesa simbolica) e di Cases (ai suoi esordi come critico).

La lettura, infine, si può a sua volta analizzare come una presa di posizione che, come tale, risponde prevalentemente alla logica del sistema d’arrivo. La gamma di queste prese di posizione non include peraltro solo gli scritti su quel determinato autore o opera, ma anche l’adozione di una postura (se si tratta di un autore), di un metodo (se si tratta di un testo scientifico) o di una poetica (se si tratta di un testo letterario). Nel riprodurli, gli attori del sistema d’arrivo realizzano in una molteplicità di modi quella che Itamar Even-Zohar ha chiamato «interferenza» (1990, 53-70): dal saggio critico, al rifacimento, a quella che si può definire la riproduzione di un gesto, come quando Cases legge alla luce delle categorie di Lukács la letteratura italiana contemporanea. Anche in questo caso il concetto di traduzione si allarga ben oltre l’orizzonte della mera testualità.

Ma la cosa che più mi preme sottolineare è che una sociologia storica della traduzione permette di sfuggire al determinismo che tuttora inficia i molti studi che giudicano tanto le trasposizioni interlinguistiche quanto le operazioni sociali che le accompagnano sulla base di criteri di valore legati all’oggi e raramente posti in discussione. Se ho giocato un po’ con l’espressione «senso della lotta», sovrapponendo materialismo marxista e sociologia bourdieusiana, è per sottolineare che se lo spazio dei possibili in cui è stata prodotta la Breve storia era storicamente e socialmente determinato, gli esiti delle operazioni di selezione, marcatura e lettura che l’hanno interessata non lo erano affatto. La Breve storia poteva anche non essere tradotta; o poteva esserlo, ma non da Einaudi; o poteva esserlo da Einaudi, ma non da Cesare Cases; o poteva esserlo da Cases, ma dieci anni più tardi, in tutt’altro contesto e con un senso del tutto diverso. Ricostruire scientificamente lo spazio dei possibili, gli interessi specifici degli attori, le poste in gioco delle traduzioni del passato serve a mantenere vivo il senso della lotta, come che lo si voglia intendere, anche nel presente.

Bibliografia

Questo saggio riproduce in versione italiana – con qualche modifica e qualche aggiunta – «Le sens de la lutte». La Breve storia della letteratura tedesca de György Lukács en Italie (1945-1958), apparso sulla «Revue germanique internationale» 31 (2020), in un numero tematico a cura di Michela Passini e Blaise Wilfert-Portal dedicato alla traduzione di testi storiografici (https://journals.openedition.org/rgi/). La ricerca è stata realizzata nell’ambito del progetto LTit – Letteratura tradotta in Italia (www.ltit.it), avviato nel 2013 grazie a un finanziamento del Futuro in Ricerca del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca italiano e tuttora in corso grazie a un finanziamento PON-AIM del Fondo Sociale Europeo.

Per le traiettorie dei diversi intellettuali presi in esame si vedano, laddove non altrimenti indicato, le preziose voci del Dizionario Biografico degli Italiani Treccani (www.treccani.it/biografico). Per la ricostruzione della complessa storia delle pubblicazioni di Lukács in Italia e all’estero si veda la Bibliografia curata da Maruyama Keiich su https://gyorgylukacs.wordpress.com/bibliografia/.

AE: Archivio di Stato di Torino, Giulio Einaudi Editore, Segreteria editoriale, Corrispondenza con autori e collaboratori italiani (https://archiviodistatotorino.beniculturali.it/fondi/?id=1563): la sigla è seguita dal nome dell’intestatario del fascicolo.

Antologia 1949: Antologia Einaudi 1948, [a cura di Cesare Pavese], Torino, Einaudi

Bontempelli 2000: Pier Carlo Bontempelli, Storia della germanistica. Dispositivi e istituzioni di un sistema disciplinare, Roma, Artemide

Boschetti 2007: Anna Boschetti, La genesi delle poetiche e dei canoni. Esempi italiani (1945-1970), in «Allegoria», n. 55, pp. 42-85

Bourdieu 2002: Pierre Bourdieu, Les Conditions sociales de la circulation internationale des idées, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n. 145, pp. 3-8

2016: Pierre Bourdieu, Le condizioni sociali della circolazione internazionale delle idee, trad. di Gerardo Ienna (da Bourdieu 2002), in «Studi Culturali», a. XIII, n. 1, pp. 69-79

Casanova 1999: Pascale Casanova, La République mondiale des lettres, Paris, Seuil

2002: Pascale Casanova, Consécration et accumulation de capital littéraire. La traduction comme échange inégal, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n. 144, pp. 7-20

Cases 1953: Cesare Cases, Il pensiero estetico di Lukács, in «Notiziario Einaudi», a. II, n. 9 (settembre), pp. 4-5

1954: Cesare Cases, La monade tedesca, in «Il Contemporaneo», a. I, n. 32 (6 novembre), p. 5 (prima di tre Lettere dalla Germania, apparse sulla rivista quello stesso mese)

1956: Cesare Cases, La storia della letteratura tedesca fuori dagli schemi dell’«intelletto» e del «sentimento», in «Notiziario Einaudi», a. V, n. 4 (aprile), pp. 5-6

1958a: Cesare Cases, Alcune vicende e problemi della cultura nella RDT, in «Nuovi Argomenti», a. VI, n. 34 (settembre-ottobre), pp. 1-49

1958b: Cesare Cases, Un ingegnere de letteratura, in «Mondo operaio» (Supplemento scientifico-letterario), a. XI, n. 5 (maggio), pp. 7-17

1964: Cesare Cases, Prefazione, in György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, nuova edizione, Torino, Einaudi

1985: Cesare Cases, Su Lukács, Torino, Einaudi

2003: Cesare Cases, Confessioni di un ottuagenario, Roma, Donzelli

Chevrel, Masson 2012: Yves Chevrel, Jean-Yves Masson, Histoire des traductions en langue française, Lagrasse, Verdier

Croce 1949: Benedetto Croce, Georg Lukács: Goethe und seine Zeit, in «Quaderni della Critica», n. 14 (luglio), pp. 110-112

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Forte 2006: Luigi Forte, Intervista a Cesare Cases, Alessandria, Edizioni dell’Orso

I verbali del mercoledì 2011: I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, a cura di Tommaso Munari, Torino, Einaudi

I verbali del mercoledì 2013: I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, a cura di Tommaso Munari, Torino, Einaudi

Lukács 1945a: György Lukács, Die deutsche Literatur im Zeitalter des Imperialismus. Abriß ihrer Hauptströmungen, in «Internationale Literatur», n. 3 (marzo), pp. 53-65, n. 4 (aprile), pp. 62-68 e n. 5 (maggio), pp. 70-84

1945b: György Lukács, Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur, in «Internationale Literatur», n. 8/9 (agosto-settembre), pp. 82-103, e n. 10 (ottobre), pp. 91-105

1946: György Lukács, Prussianesimo e nazismo attraverso la letteratura, riduzione e traduzione a cura di Antonio Ghirelli, in «Il Politecnico», n. 33 (settembre-dicembre), pp. 27-29

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Sisto 2010: Michele Sisto, «Un fuorilegge della critica». Cesare Cases critico militante negli anni cinquanta, in Per Cesare Cases. Atti della Giornata di studio (Torino, 24 novembre 2008), a cura di Anna Chiarloni, Luigi Forte e Ursula Isselstein, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 99-118

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