di Federica Gavioli
autrice di Chinelo Okparanta, La felicità è come l’acqua, Roma, Racconti edizioni, 2019 (da Happiness, Like Water, Boston, Houghton Mifflin Harcourt, 2013)
Chinelo Okparanta ci porta lontano. Dieci racconti per colmare la distanza che separa un quartiere rispettabile di Port Harcourt, in Nigeria, da una villetta dall’altra parte dell’oceano, nel New Jersey. Dieci racconti in cui si intrecciano storie di violenza domestica, lo spauracchio della sterilità, l’omosessualità vissuta come tabù e le subite differenze di classe: storie intervallate dal rumore degli ignami pestati nel mortaio e profumi sconosciuti che si sprigionano da pentole fumanti.
Il ritmo è quello del racconto orale: si procede saltando all’indietro o di lato su storie parallele; si “ascoltano” notizie passate di bocca in bocca, pettegolezzi, proverbi antichi e favole tramandate da generazioni. Al traduttore tocca dipanare la matassa e ricostruire le trame. Più che un compito di chirurgia cronologica, è una caccia al tesoro, dove, tra gli accavallamenti e i depistaggi narrativi, l’obiettivo è trovare la struttura portante del racconto.
In verità, più della caccia al tesoro, a darmi del filo da torcere è stato un racconto che, già alla prima lettura, aveva tutta l’aria di essere un rompicapo senza soluzione. In Fairness, due ragazzine desiderano assomigliare ai volti stampati sulle copertine delle riviste occidentali, a tal punto da elaborare un esperimento a base di candeggina per schiarirsi la pelle. A mano a mano scopriamo che quel desiderio è in realtà un’ossessione morbosa, alimentata dalle pressioni sociali e familiari e dal florido mercato delle creme sbiancanti. La storia è costruita interamente sulla polisemia di fairness, in cui il rimando al colorito chiaro della pelle e ai valori di equità e giustizia vanno di pari passo. Il gioco tra i due significati diventa manifesto nel finale, dove emerge che l’esperimento per diventare «chiare», pur con il suo esito tragico, rappresenta per le ragazze un’occasione di rivalsa, perché avere una pelle chiara equivale ad acquisire uno status sociale di prestigio. Un’ulteriore complicazione: la carnagione ideale a cui aspirano le ragazze è il colore giallo-dorato della papaya, che ho scoperto essere alla base di molte creme sbiancanti, spesso pubblicizzate con l’immagine del frutto sulla confezione, costringendomi a escludere termini come «candore» o «bianchezza». In questa complessa stratificazione di significati, ho privilegiato, perché centrale nel racconto, l’aspetto cromatico, sacrificando, ahimè, l’accezione morale di fairness. Ho quindi optato, dopo interminabili indecisioni e ripensamenti, per un semplice «chiarezza».
Un’altra piccola insidia: nel libro convivono tre lingue: inglese, igbo e pidgin. Nell’originale, l’igbo è accompagnato da brevi traduzioni inserite direttamente nel testo dall’autrice, quindi la versione italiana doveva seguire la stessa strategia. E il pidgin? Come tradurre una lingua che anche per il lettore anglofono (non nigeriano) non è immediatamente comprensibile ma nemmeno totalmente estranea? Igoni Barrett ha definito il pidgin «la distanza più breve tra due pensieri» (A. Igoni Barrett, Culo nero, 66thand2nd, trad. Massimiliano Bonatto), interpretandolo quindi come una lingua di mediazione tra inglese e lingua locale, una sorta di scorciatoia comunicativa. Seguendo questa riflessione, ho deciso di renderlo con semplificazioni o espressioni colloquiali, adottando dunque un registro diverso. Nel quinto racconto, tuttavia, il termine pidgin runs girl era troppo specifico per poter essere tradotto. «Escort», o il più eufemistico «accompagnatrice», non avrebbero esaurito la complessità dell’originale, che descrive un tipo specifico di prostituzione: ragazze (in genere studentesse) che si vendono su internet per condurre uno stile di vita al di sopra delle proprie reali possibilità economiche.
Tradurre questi racconti a metà tra due continenti non è stato solo un viaggio avventuroso, ma anche un’occasione per cercare, ampliando il concetto di Igoni Barrett, quella distanza più breve che collega due pensieri, due lingue e due mondi distanti.