di Giovanna Granato
autrice di Nora Krug, Heimat, Torino, Einaudi Editore, 2019 (da Belonging, New York, Scribner, 2018)
Il mio studio è tappezzato di libri. Sulla parete sinistra, ad altezza d’occhio, ci sono tutte le traduzioni che ho fatto finora. Ogni volta che le guardo penso che ciascuno di quei libri, insieme alla sua storia, racconta qualcosa della mia.
Heimat di Nora Krug segna un punto di rottura. È arrivato in un momento d’insofferenza, quando le tante pagine dei tanti libri tradotti cominciavano ad accumularsi con ripetitività meccanica, rischiando di far diventare lavoro un’arte che si sottrae a tutte le regole, specie a quelle lavorative. E per rompere le regole niente era meglio di una graphic novel, genere che mi era del tutto estraneo e che in più offriva la prospettiva di lavorare insieme a un grafico per adattare il testo alle immagini, riportandomi agli inizi, quando traducevo per il teatro e poi mi divertivo col regista e gli attori ad adattare i tempi dei sopratitoli a quelli della recitazione.
Pensavo di concedermi una distrazione; mi sbagliavo.
Anche se un’intera generazione la separa dalla seconda guerra mondiale, Nora Krug è cresciuta col marchio dell’infamia. A scuola le hanno insegnato a bandire parole come «eroe» o «vittoria» e a riservare la parola «razza» alle specie animali. Una forma di epurazione al contrario. Più tardi va a studiare negli Stati Uniti, dove dissimula l’accento tedesco per evitare di sentirsi apostrofare con un Heil Hitler, e quando si trasferisce definitivamente a Brooklyn e sposa un ebreo newyorkese, le rivolgono troppe domande sulla sua famiglia a cui non sa rispondere. Così decide di non scappare più dal passato; di voltarsi e guardarlo in faccia.
Prima di affrontare la seconda guerra mondiale, il nazismo, l’Olocausto, ci vogliono anni di ricerche: frequenta biblioteche, mercatini delle pulci, archivi, interroga familiari, studiosi, raccoglie fotografie, documenti. L’idea è ricostruire la storia della sua famiglia e, indirettamente, della sua Heimat. Una storia da raccontare agli americani, però, in inglese, per rispondere alle loro domande. L’uso di una lingua non sua, una lingua che deborda, rompe gli argini del disegno e a tratti lo prevarica, che non riuscendo a uscire dai confini della pagina si piega su sé stessa e gira intorno ai margini, costituisce un filtro che permette di toccare cose dolorose da distanza di sicurezza. E a volte apre scorci inattesi sull’animo di chi la usa. Come quando fehlerfrei diventa, nell’inglese di Nora Krug, fault-free.
Per chi come me orbita nello spazio privilegiato tra lo scrittore e il lettore che è la Heimat del traduttore, la parola fault, visto l’argomento trattato, rende subito il terreno scivoloso perché rimanda a una zona semantica insidiosa dove campeggia la «colpa», mentre il tedesco Fehler corrisponde a un più neutro «errore, sbaglio» che in inglese troverebbe un corrispettivo forse più oggettivo in mistake.
Alla fine di Heimat, Nora parla al telefono con Walter, il figlio emigrato in Florida di un uomo che ha aiutato suo nonno. Quando a Walter s’incrina la voce per la commozione lei, sotto l’inglese che stanno usando come lingua franca, sente premere il tedesco. Da qui la scelta di tradurre in italiano «esente da errori» anziché, come forse avrebbe voluto l’inglese, «libero da colpe», pur sapendo che sovrapporre una terza lingua rischia a ogni parola d’incrinare un equilibrio delicatissimo.
E da qui il mio continuo limare e smussare, non solo per far entrare le frasi italiane in spazi concepiti per quelle inglesi e delimitati dalle immagini, come pensavo all’inizio, ma anche per restituire la leggerezza di un fumetto e il distacco di un documento storico a un testo intriso di emozione.