di Tiziana Cerrato
Maurizio Bettini,Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Einaudi, 2012, € 23
L’Odusia di Livio Andronico, il testo che ha dato inizio alla letteratura latina, è una “traduzione” dell’Odissea. Ma siamo certi che la nostra concezione dell’atto del tradurre sia applicabile al mondo romano? Nel suo saggio Bettini propone un ampio viaggio tra le espressioni latine e greche che hanno a che fare con la traduzione, per invitarci a non sovrapporre arbitrariamente le nostre categorie di pensiero ad altre culture. Per i Romani il concetto di traduzione “fedele” o “letterale” è in effetti privo di senso. Vertere, il termine usato ad esempio nei prologhi plautini per indicare l’atto del tradurre, significa “rovesciare”, sottoporre un testo a un mutamento radicale, a una metamorfosi, che fa assumere all’enunciato le caratteristiche di una forma nuova, benché il testo conversus conservi indicia ο documenta della sua condizione precedente. A questo proposito Bettini propone alcuni esempi da commedie latine palliatae, cioè di argomento e costume greco, ricavate da originali della “commedia nuova” di età ellenistica. Naturalmente, com’è noto, in questo caso non si può parlare di traduzione, ma piuttosto di rifacimenti, nei quali il poeta si sente autorizzato a modificare nomi e personaggi, aggiungere scene, “contaminando” la trama originale con elementi tratti da altre commedie e mutando quindi l’identità del testo, per avvicinarlo alla sensibilità e al gusto del pubblico romano. Del resto un reale confronto non è quasi mai possibile: solo in due casi possediamo passi del testo greco originale e del rifacimento latino (alcuni versi del Plocium di Cecilio Stazio e i corrispondenti del Plokion di Menandro; una scena delle Bacchides di Plauto confrontabile con un passo, ritrovato su papiro, appartenente al Dis exapaton di Menandro) e in entrambi è evidente che il vertere del poeta latino va ben al di là di quanto noi intendiamo con l’atto del tradurre.
Tra le diverse metafore culturali espresse dalle parole latine con cui è indicata la pratica della traduzione Bettini si sofferma, oltre che sul vertere, in particolare sulla sfera dello scambio economico, individuabile sia in reddere, “restituire”, che nel termine interpres, “mediatore”. Quest’ultimo è etimologicamente collegabile a pretium e alla preposizione inter: l’interpres, che per gli antichi dev’essere conscius, “consapevole”, e auctor, “autorevole”, è colui che si pone tra due parti contribuendo a stabilire il prezzo. Di fidus interpres parla Orazio nell’Ars poetica: anche in questo caso l’espressione non indica affatto un interprete “fedele alla lettera del testo” in senso moderno, ma piuttosto “affidabile, onesto”. La responsabilità del traduttore nel rapporto col lettore è peraltro un concetto richiamato anche da Cicerone nel De optimo genere oratorum, la prefazione alla traduzione perduta di due orazioni di Eschine e Demostene: in questo testo, pur dichiarando di non aver tradotto come un interpres, ma piuttosto come un oratore, senza preoccuparsi di scambiare ciascuna parola latina con una greca, afferma però di aver conservato il piano del senso, l’efficacia delle figure di pensiero, nell’intento di restituire al lettore “il peso delle parole”, senza imbrogliare (anche in questo caso la metafora culturale sottesa a questa espressione richiama la sfera dello scambio economico, della moneta).
Nel suo viaggio tra le parole Bettini fa brevemente tappa in Grecia, soffermandosi sul termine hermeneia, “traduzione” o “interpretazione”, che esprime in realtà la possibilità di realizzare la comunicazione (nello Ione di Platone il poeta è hermeneus degli dei). L’etimologia della parola è legata a Hermes, il dio della comunicazione linguistica, ma anche il dio dei mercati. Anche in questo caso scambio linguistico e scambio commerciale sono legati tra loro.
Comunicazione e commercio appaiono congiunti anche nei capitoli che Bettini dedica a due usanze particolari: il “commercio silenzioso” con popolazioni remote e giuste (citato da Erodoto, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Filostrato e attestato sino al XVIII secolo in vari luoghi, dall’Africa alla Siberia), in cui si riscontra un’assoluta mancanza di interpreti o intermediari che possano realizzare una comunicazione linguistica, e le offerte a Delo degli Iperborei, altro popolo remoto e giusto (menzionate da Pindaro e Plinio il Vecchio), in cui al contrario si moltiplicano gli intermediari della comunicazione.
Nella seconda parte del saggio Bettini si sofferma a lungo sulle molteplici versioni della nota vicenda della traduzione in greco della Bibbia, la cosiddetta Bibbia dei Settanta, che segna una netta frattura tra la cultura del mondo classico e quella successiva. Nel mondo classico gli uomini possedevano la parola sulle divinità: l’aedo era ispirato dalle Muse, ma conservava una sua autonomia; per questo dei miti potevano esistere molteplici versioni. Nella Bibbia invece, come dice Tertulliano, Dio parla direttamente agli uomini servendosi dell’instrumentum della scrittura. Perciò tradurre la parola di Dio pone di fronte a una sfida del tutto inedita. La prima forma del racconto di questa straordinaria avventura è presente nella Lettera di Aristea: i membri più ragguardevoli della comunità giudaica riuniti ad Alessandria d’Egitto alla corte di Tolomeo Filadelfo producono una traduzione autorevole, ma non ancora perfetta. Nelle versioni successive della storia (Filone di Alessandria, Ireneo, Pseudo Giustino), attraverso i paradigmi culturali del calco, del rapporto parentale, della reliquia, si giunge a una perfetta coincidenza fra le traduzioni dei singoli traduttori, che operano separati, e con il testo ebraico. Tale coincidenza sancisce la natura divina dell’originale e la guida dello Spirito Santo. Dio si è autotradotto. Naturalmente la traduzione dei Settanta non ha le caratteristiche di traduzione “perfetta” che il mito le attribuisce. Ne sono consapevoli sia Agostino che Gerolamo. Per Agostino comunque le discrepanze tra le varie traduzioni della Bibbia non mostrano interpretazioni sbagliate, ma hanno valore profetico, nascondono allegorie, in quanto tutti i traduttori sono ispirati da Dio. Invece per Gerolamo (che traduce la Bibbia direttamente dall’ebraico in latino) il traduttore non è un profeta: i Settanta, vissuti prima della resurrezione di Gesù, hanno espresso in modo impreciso ciò che non potevano conoscere, ignorando i testimonia che preannunciavano l’avvento del Messia e che diventeranno comprensibili solo grazie agli scritti degli Apostoli. Il Nuovo Testamento è l’instrumentum novum che contiene le chiavi per tradurre correttamente l’Antico.
Con questo viaggio affascinante, Bettini ci accompagna alla scoperta di parole e di testi che in vario modo esprimono paradigmi culturali e linguistici legati all’atto della comunicazione verbale, della riarticolazione di un messaggio da una lingua all’altra. Naturalmente Vertere non è in realtà un libro sulla traduzione nel mondo antico, in quanto l’autore è interessato agli aspetti antropologici più che a quelli tecnici e letterari del processo del tradurre. Quindi tra le numerose citazioni testuali (ove però non è quasi mai possibile operare un reale confronto tra testo originale e traduzione) mancano ad esempio i due casi più celebri di traduzione letteraria latina da testi greci, i carmi catulliani 51 (dall’Ode 31 di Saffo) e 66 (dalla Chioma di Berenice di Callimaco). Resta perciò aperto un interrogativo, pur nella consapevolezza che non bisogna sovrapporre categorie moderne ad altre culture: possiamo davvero dire che gli antichi siano stati del tutto indifferenti alle questioni che tormentano i traduttori di oggi?