di Paolo Mazzocchini
a proposito di: Tradurre i classici, «Autografo» 60, 2018, [XXVI], pp. 176, € 20,00
Il numero 60 della rivista «Autografo» riproduce gli atti del seminario di studi Tradurre i classici tenutosi a Pavia nell’ottobre del 2017 e raccoglie i contributi di vari autori, quasi tutti antichisti che si sono spesso dedicati in prima persona alla pratica della traduzione di grandi autori greci e latini.
La miscellanea si apre con il saggio introduttivo di Elisa Romano Tradurre i classici: retrospettive e riflessioni marginali, dove vengono focalizzati alcuni problemi preliminari concernenti la traduzione dei classici, espressione da intendersi – sottolinea l’autrice – nella sua piena ambivalenza di traduzione moderna di classici antichi e di traduzioni di testi altrui realizzate da autori antichi. In particolare, la studiosa concentra criticamente la sua attenzione su alcuni stereotipi della storia della traduzione letteraria: anzitutto quello che individua in un paio di noti passaggi di Orazio (Ars poetica, 131 s.) e di Cicerone (De optimo genere oratorum, 14 s.) la nascita della traduttologia occidentale all’insegna della costante tensione dialettica fra traduzione letterale (o di servizio o filologica) e traduzione d’autore (o traduzione libera o traduzione-interpretazione). Secondo l’autrice, questa dicotomia appartiene piuttosto alla modernità e viene proiettata all’indietro con un certo arbitrio e attribuita indebitamente ai due grandi della letteratura latina. La stessa arbitraria e stereotipa forzatura riconoscerebbe alla letteratura latina il primato pionieristico della traduzione letteraria (a partire da Livio Andronico) mentre è vero che una assidua attività traduttiva in greco veniva già da tempo svolta presso i grandi centri della civiltà ellenistica (si pensi soprattutto alla traduzione della Bibbia dei Settanta). L’autrice cerca poi di puntualizzare lo status del dibattito recente sul problema della fedeltà/infedeltà della traduzione nelle sue varie sfaccettature concettuali e terminologiche e, soprattutto, di riconsiderare il problema della intraducibilità (spesso insuperabile, se non attraverso un impoverimento o una distorsione semantica) di vari termini della lingua di partenza come premessa di un irrinunciabile ricorso all’ esegesi: quando la lingua di arrivo non basta a riprodurre la valenza piena di un termine della lingua di partenza, allora si impone la necessità del commento esplicativo e integrativo. Traduzione ed esegesi sono una cosa sola o meglio due aspetti della stessa attività interpretativa: la traduzione è una scelta esegetica (talora dolorosamente e drasticamente selettiva), e il commento esegetico è la continuazione (e l’arricchimento) della traduzione sotto altra forma. L’intervento si conclude con la sottolineatura di un paradosso: mentre la traduzione è oggi il mezzo principale attraverso il quale lettori più e meno colti si avvicinano alla letteratura greca e latina, la riflessone teorica sulla traduzione dei classici è ancora sorprendentemente scarsa. Chi se ne occupa lo fa anzitutto partendo dalla propria concreta esperienza di traduttore di questo o quell’autore classico: così succede in effetti per tutti gli autori dei successivi contributi della miscellanea.
Il primo di questi, Carlo Carena, ripercorre nel secondo saggio della raccolta (Tradurre Orazio: perché e percome) le tappe della fortuna di Orazio lirico presso traduttori italiani più e meno illustri, dal Cinquecento fino al Novecento. Opportunamente Carena, prima di proporre una ricca carrellata di traduzioni d’autore di illustri odi oraziane, sottolinea come alla base di questa duratura fortuna delle Odi presso i nostri moderni traduttori sussista una preponderante motivazione extra-formale: non sarebbe stata solo, cioè, l’eccezionale qualità artistica dell’Orazio lirico a favorire una così ardua e assidua sfida traduttiva, ma anche e soprattutto la valenza universale, perennemente attrattiva, dell’etica oraziana, con i suoi precetti di misura, di saggezza e di controllato edonismo. Curioso apprendere, in proposito, che questa fascinazione morale esercitata dal poeta pagano abbia superato bene, senza gravi danni, la prova di austeri preconcetti religiosi di traduttori cristiani come il sacerdote Loreto Mattei. Ma più interessante è constatare che nelle varie epoche i traduttori si sono adoperati – con risultati qualitativamente vari – per adattare Orazio ai metri, allo stile e al gusto letterario del proprio tempo, dalle arie metastasiane del Gargallo, attraverso gli endecasillabi di Pascoli e di Cetrangolo fino al verso libero (e alla forte personalizzazione stilistica) di Fortini e di Ceronetti.
Anche Maria Grazia Ciani, nel breve saggio Come un assedio, come una guerra: tradurre l’Iliade, affronta le problematiche della traduzione dei classici a partire dalla propria esperienza concreta di traduttrice dell’Iliade. L’autrice dichiara sin da subito di non credere troppo all’applicazione di regole o di principi traduttivi universalmente validi: «ogni traduzione si risolve alla fine in una esperienza assolutamente personale, creatrice a sua volta di nuove regole che per lo più rimangono legate a “quella” particolare traduzione» (p. 41). Propende quindi per una visione empirica e artigianale dell’attività traduttiva e, si direbbe quasi, autodidattica. L’atto della traduzione letteraria così intesa può comunque produrre ricadute positive di più ampia portata: può arricchire la lingua d’arrivo stimolandone l’innovazione e la creatività; ma può anche di converso valorizzare il testo di partenza svelandone o attualizzandone le potenzialità poetiche. Si tratta in ogni caso di un cimento arduo e faticoso, soprattutto quando si tratti di tradurre testi letterari di lingue antiche e morte. In questo caso infatti bisogna misurarsi addirittura in «uno scontro impari con una materia inerte che deve essere riportata in vita, risvegliata con intuito e delicatezza come la Bella addormentata» (p. 42). A conferma di questa fatica improba e aggiuntiva che il greco antico, in particolare, impone ai traduttori, l’autrice riporta le voci autorevoli di Italo Calvino, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. La studiosa ritiene comunque che, al di là di queste difficoltà, la sfida delle lingue morte vada raccolta dai traduttori moderni e riferisce istruttivamente, in proposito, delle difficoltà metodologiche e dei molteplici ripensamenti che hanno accompagnato la sua lunga attività di traduttrice dell’Iliade, con particolare riferimento ai problemi posti dalla riproduzione, difficile ma irrinunciabile, del ritmo esametrico e della cadenza interna dell’originale. A questo riguardo prende in considerazione, a conclusione del suo intervento, la recente traduzione dell’Iliade di Franco Ferrari, riscontrandovi, appunto, una peculiare incisività proprio nella resa di quel ritmo, ottenuta attraverso sequenze sillabiche opportunamente scandite e un uso frequente ed efficace degli enjambements.
Ha la forma di un resoconto esperienziale anche il successivo contributo di Alessandro Fo, Ricordi di un traduttore di Catullo: problemi metrici, lessicali, di tono. Il titolo delinea di per sé la scansione fondamentalmente tripartita dell’articolo. Nella prima parte, dedicata al metro, l’autore. illustra la propria adozione di una metrica «barbara dell’accento ritmico» (p. 51), che riproduca cioè, fin quando è possibile, la struttura dei metri catulliani sia nel numero delle sillabe che nella coincidenza dell’accento ritmico italiano con l’arsi latina. Successivamente l’autore passa (dopo una gustosa divagazione polemica sul vezzo tipografico oggigiorno in voga della centratura nella impaginazione grafica della poesia, pp. 55-57) a trattare dei problemi di resa lessicale che si è trovato ad affrontare traducendo il Liber. Un primo problema si è posto a proposito sia delle ricorrenti parole chiave della visione etico-estetica di Catullo (venustas/venustus, iucundus, lepos/lepidus, fides, foedus, pius ecc.) sia dei numerosi diminutivi/vezzeggiativi presenti nel suo linguaggio poetico (pp. 57 ss.). Le scelte traduttive dell’autore, nel primo caso, sono state in generale improntate ad una certa elasticità e adattabilità agli specifici contesti, fermo restando il vincolo (relativo) della omogeneità di resa che la iteratività morfo-lessicale di un poeta richiede al traduttore. Il problema, per altro, si ripropone analogamente più avanti (pp. 67 ss.) per le costanti di traduzione che riguardano espressioni fisse, dove la riproduzione coerente di questa fissità è quasi d’obbligo, pena la perdita, nel testo d’arrivo, di stilemi caratteristici ricorrenti dell’originale e di significativi richiami verbali interni all’opera.
Nel caso dei diminutivi/vezzeggiativi (pp.59 ss.) l’autore. si è destreggiato con maggiore libertà ricorrendo di volta in volta alla replicazione del termine (turgiduli ~ “gonfi gonfi”; pallidulus ~ “pallido pallido”), a perifrasi (languiduli somni ~ “sonni di un dolce languore”), a una ulteriore determinazione aggettivale (solaciolum ~ “piccolo conforto”), talora all’impiego di suffissi non sempre codificati dall’uso corrente nella nostra lingua (uvidulam ~ “umidetta”). Una certa libertà inventiva (per altro corrispondente a quella dell’originale) l’autore si è riconcessa per la traduzione di una categoria lessicale più di altre artificiosa e letteraria come quella degli aggettivi composti epicheggianti (clarisonas ~ “chiarisonanti”; fluentisono ~ “fluentisonante”; silvicultrix, nemorivagus ~ “abitaselve”, “boschierrante”).
Particolare impegno ha richiesto all’autore anche la resa delle punte epigrammatiche di alcuni carmina, laddove la pregnanza e la ricercatezza del dettato poetico si coniuga spesso con l’ambivalenza o la polivalenza semantica (pp. 60 ss.): è il caso, in particolare, del famoso distico scommatico indirizzato a Giulio Cesare (c. 93) o dell’altro, non meno pungente, riservato a Nasone (c. 112). Allo stesso modo sfidano l’abilità e la creatività del traduttore tutti quei luoghi catulliani dove il gioco sonoro delle allitterazioni e delle assonanze contribuisce decisamente alla determinazione ovvero alla suggestione del senso. In questo caso soluzioni più “letterali” e piattamente filologiche rischiano di impoverire l’originale: la difficile via d’uscita sta, secondo l’autore, nel tentativo di riprodurre in italiano, con una certa libertà, figure di suono di volta in volta equivalenti o compensative (pp. 64 ss.). Un significativo e giustificato spazio l’autore dedica, alla fine del suo contributo, ai delicati problemi di resa che ha dovuto affrontare misurandosi con il c. 68 e specialmente con gli stupendi e quasi intraducibili vv. 69-72 (Is clausum lato patefecit limite campum, /isque domum nobis isque dedit dominae,/ ad quam communes exerceremus amores./ quo mea se molli candida diva pede / intulit et trito fulgentem in limine plantam / innixa arguta constituit solea) dove Catullo rievoca il suo primo incontro d’amore con Lesbia nella casa offerta da Allio. Le soluzioni adottate dall’autore, in questo caso, dimostrano certo sensibilità e finezza notevoli nel trattamento dei valori musicali e delle metafore luminose disseminate nel testo («la casa […] dove, con morbido passo, sul chiacchierare dei sandali, / volle in splendente candore la mia dea giungere: e pose / sopra la soglia consunta la rifulgente sua pianta»). Ma si ha nel contempo l’impressione, confermata un po’ dall’insieme del Liber tradotto da Alessandro Fo, che il condizionamento metrico “barbaro” cui egli ha voluto comunque e ovunque sottoporsi gli precluda talora la strada di ulteriori, più sintetiche e spigliate (meno letterarie) scelte traduttive.
Interessante è il taglio dell’ultimo contributo della prima sezione (Traduzioni di Virgilio traduttore) firmato da Andrea Cucchiarelli. L’autore sviluppa nella prima parte del suo intervento riflessioni circa la stretta e virtuosa interazione fra traduzione e interpretazione: base irrinunciabile di partenza per l’interpretazione, la traduzione la precede inevitabilmente come prius logico; ma la segue anche come momento di approdo, ri-traduzione che si adatta e si modifica finalmente proprio sulla scorta delle chiarificazioni e delle puntualizzazioni di senso che il percorso analitico dell’esegesi ha nel frattempo prodotto. A supporto di questa tesi l’autore riporta la propria esperienza di traduttore delle Epistole di Orazio in due diverse occasioni: la prima per una edizione bilingue di alta divulgazione; la seconda per un lavoro scientifico accompagnato, oltre che dalla traduzione, anche da un folto apparato scientifico. La prima traduzione e la successiva ri-traduzione sono giocoforza risultate differenti, non solo in virtù della loro diversa destinazione, ma soprattutto perché il lavorìo critico ed esegetico della seconda ha inevitabilmente condizionato anche le scelte traduttive. Una interpretazione che si aggiunga e si accompagni alla traduzione, per altro, può integrarla utilmente esplicitando i dubbi e le varianti testuali ed esegetiche che la traduzione in sé, costretta a scegliere, non può testimoniare. È stato il caso, per l’autore, della sua esperienza recente di editore e commentatore delle Bucoliche di Virgilio per una collana universitaria, dove al testo e al commento è stata giustapposta la classica e autorevole traduzione di Alfonso Traina. Ne è risultato per altro, accanto a qualche inevitabile difformità o discordanza, anche un proficuo scambio: l’interprete (cioè l’autore) ha tratto spesso dalla versione di Traina orientamento e indicazione per alcune sue ipotesi esegetiche; il traduttore, per parte sua, ha modificato talora le sue scelte traduttive accogliendo ipotesi elaborate dall’interprete. Nella seconda parte del suo contributo, Cucchiarelli propone alcuni esempi di traduzione dall’Eneide, laddove questa convergenza o sovrapposizione di traduzione e interpretazione si presenta in una forma particolarmente intrigante e sofisticata. Si tratta cioè di passi nei quali il testo virgiliano traduce e interpreta in latino riconoscibili luoghi omerici. Il compito del traduttore moderno si fa qui più arduo perché egli dovrebbe «rendere percettibile, all’interno del testo di arrivo, non soltanto stile e modi identificanti del poeta latino, ma anche l’eco del grande archetipo omerico» (p. 112). Si tratta cioè di una sfida resa più difficile dal raffinato gioco intertestuale dell’originale virgiliano: un gioco ben visibile, per altro, al lettore dell’età di Virgilio, molto meno ovvio per il lettore medio contemporaneo. Anche perciò la presenza esplicita di una interpretazione critica che integri la traduzione sarebbe secondo l’autore auspicabile, particolarmente nel caso di una letteratura, quella latina, in costante e complessa aemulatio dei grandi modelli greci e, come tale, a sua volta traduttrice e interprete di essi.
La seconda sezione del volume è incentrata sul grande anglista e traduttore Roberto Sanesi: di lui si propongono testi inediti e rari tratti dal suo archivio e accompagnati da brevi saggi di Nicoletta Trotta, Gabriele Rossini e Anna Beltrametti. I testi di Sanesi sono rispettivamente frammenti e saggi sulla traduzione (frammenti dai Diari giovanili, pp. 132 ss; da un Diario degli anni 1985-1996, pp. 136 ss.; e i due saggi Cultura di traduzione, pp. 139 ss. e Sul tradurre, frammenti, pp. 144 ss.); un poemetto in spagnolo maccheronico (Tarea de vacaciones, pp. 155 ss.) cui segue una testimonianza del latinista Vincenzo Guarracino (Colori e segni da interpretare, pp. 162 ss.) che per altro si è cimentato, per parte sua, nella traduzione dei Tarea di Sanesi in latino; e infine una traduzione di alcuni frammenti di Senofane (p.169), testo particolarmente interessante perché di fatto è l’unica prova traduttiva dal greco antico che Sanesi ci abbia lasciato.
Per quanto questa seconda sezione risulti abbastanza eterogenea rispetto alla prima, l’esperimento di traduzione in latino dei Tarea da parte di Guarracino e soprattutto la traduzione senofanea dello stesso Sanesi la riconnettono in certa misura ai temi guida della raccolta.