di Daniele Petruccioli
A proposito di: Lutz Seiler, Kruso, tradotto da Paola del Zoppo, Bracciano, Del Vecchio, 2015, pp. 608, € 18,00
Il primo romanzo di Lutz Seiler, poeta, saggista e scrittore di racconti nato nel 1963 nell’allora Repubblica democratica tedesca, tra le voci più interessanti della Germania contemporanea, uscito per la collana «Insel» della Suhrkamp nel 2014 e subito caso letterario, campione di vendite e vincitore di premi come l’Uwe Johnson e il Buchpreis 2014, è approdato nel 2015 in Italia grazie all’editore Del Vecchio (casa editrice particolarmente sensibile alla qualità letteraria, che ha già pubblicato raccolte di poesie e saggi di questo autore) e a Paola Del Zoppo, sua traduttrice verso l’italiano.
Kruso è la storia dell’amicizia tra Edgar Bendler, studente di letteratura tedesca in fuga dalla morte della fidanzata e da altre mancanze di senso proprie della vita (nell’ex RDT e non solo), e Alexander Krusowitsch, giovane addetto alla cucina del ristorante Eremita, figlio di russi e rivoluzionario visionario, che accoglie i fuggiaschi da est verso ovest in transito sull’isola di Hiddensee, affacciata sul Baltico a poche decine di miglia marine dalla Danimarca.
L’incontro avviene nel 1989, a pochi mesi dalla “Svolta” della DDR, ma il lettore comincia a intuire l’anno in cui si svolgono gli eventi solo dopo essersi bene addentrato nel romanzo, e la Svolta vera e propria entra in gioco non prima dell’ultima parte (che poi si inoltra – come un istmo del romanzo stesso – fino ai giorni nostri, nella ricerca portata avanti da Edgar di notizie sui cadaveri dei fuggiaschi nel mar Baltico conservate negli archivi della polizia danese).
Questa confusione del lettore è senz’altro voluta, e deriva, credo, dal fatto che l’intera struttura di Kruso – divisa per capitoli a prima vista pressoché acronici, sospesi, quasi monadi isolate che tuttavia si richiamano in un modo che non ti aspetti, laterale, vorrei dire analogico – ha moltissimo del racconto onirico. I riferimenti (quando non addirittura i referenti), svariano liquidi, sia quando a parlare è il narratore sia nei (molti) monologhi e (più rari) dialoghi di cui il libro è punteggiato.
Come se non bastasse, si tratta di una scrittura intrisa di intertestualità, quasi un patchwork di citazioni nascoste, a partire ovviamente dal Crusoe di Defoe, ma allargandosi a macchia d’olio nella cultura europea e occidentale, da Dostoevskij a Don DeLillo, in tutta la sua estensione temporale, dalla Bibbia a Trakl. Seiler ha imbevuto il romanzo delle sue letture e dunque, giocoforza, della sua autobiografia. La storia dell’amicizia tra Ed e Kruso diventa quindi una sorta di precipitato di storia collettiva, storia letteraria e formazione del singolo.
Di una simile liquidità è costituita, evidentemente, anche la lingua del romanzo, che si presenta quasi organicamente come la soluzione satura che lascia scorgere in trasparenza quel precipitato di cui abbiamo appena parlato. Seiler usa una lingua apparentemente semplice, poco aggettivata, a tratti addirittura quasi burocratica, con la continua smania di rivelarsi esegetica proprio mentre confonde le acque del senso:
Inzwischen hatte er verstanden, dass Esskaa nichts anderes bedeutete als die gesprochene Abkürzung für Saisonkraft. SK erinnerte an den Begriff des EK, des Entlassungskandidaten beim Militär, und wie es während seiner Zeit bei der Armee eine EK-Bewegung gegeben hatte, ein Konglomerat aus derben bis tödlichen Späßen, verbunden mit einem unbedingten Verlangen nach Unterordnung (alles zusammengenommen eine Art martialischer Vorfreude auf den Tag der «Freiheit», die Entlassung), würde es auch eine Esskaa-Bewegung geben, schlussfolgerte Ed, natürlich mit eigenen, ganz anderen Gesetzen, weshalb es nur von Vorteil sein konnte, sich diesen Kodex so rasch wie möglich anzueignen (Seiler 2014, 80-81).
Nel frattempo aveva capito che essetì altro non era che l’abbreviazione di “stagionali”. Però l’abbreviazione gli faceva venire in mente quelle usate nel periodo militare, come cc, i candidati al congedo, e come durante il suo servizio nell’esercito ci fosse stato un movimento di cc: una vasta gamma di scherzi da rozzi a fatali (che presi insieme creavano una sorta di gioioso clima d’attesa per il giorno della “libertà”, il congedo), legati a un incondizionato bisogno di sottomissione; dovevano esserci anche movimenti di stagionali, concluse Ed, ovviamente con regole proprie, completamente diverse, ragion per cui poteva essere solo un vantaggio appropriarsi di quel codice il più presto possibile (pp. 100-101).
Vediamo come si comporta la traduzione rispetto a tutto ciò.
Innanzitutto – come in qualsiasi libro tradotto per Del Vecchio – in fondo al volume si trova uno spazio dedicato a chi ha tradotto il libro, La scatola nera del traduttore: una manciata di pagine su cui i traduttori possono scrivere quello che vogliono (sul libro, su se stessi, sul loro rapporto con il libro). Quella di Paola Del Zoppo è piuttosto lunga e articolata, e questo dovrebbe far molto piacere a chi si interessa di traduzione. Personalmente sono grato a quei traduttori che, avendone la possibilità, rendono conto al lettore delle difficoltà trovate, del loro sguardo sul libro, di come si sono comportati di fronte ai tanti possibili bivi linguistici e interpretativi di un romanzo.
Questo è decisamente il caso, e infatti Del Zoppo ci avverte subito delle problematiche intertestuali (p. 587), specificando senza nascondersi la scelta di ritradurre ogni riferimento per non perdere «il lieve scarto d’intensità, intonazione e addirittura linguaggio che si avverte a una lettura attenta del romanzo» (p. 588). Scelta coraggiosa, visto che la pratica editoriale contemporanea di solito vuole che per le citazioni si ricerchino le cosiddette “traduzioni accreditate” (ovvero quelle pubblicate, possibilmente di traduttori noti e da grandi case editrici). Una scelta, tra l’altro, che implica conseguenze lessicali e sintattiche.
Del resto Del Zoppo, traduttrice storica di Seiler, sa di inserirsi in un contesto e – se vogliamo – in un gioco molto frequentato dall’autore, rappresentato, come dicevamo, da una fitta trama di rimandi tra intertestualità, storia collettiva, storia dei personaggi e formazione personale, tanto che in Kruso stesso viene inserito uno «studio su Faust in Italia, di Paola del Zoppo» (p. 360), in una mise en abîme che, oltre a essere scherzosa (il che in arte non guasta mai), indica una sorta di avallo da parte dell’autore e una direzione precisa al traduttore, anzi alla traduttrice.
Ma proviamo a dare un’occhiata più da vicino alle conseguenze lessicali e sintattiche (ovvero, di parola e di andamento) di cui si parlava.
Dal punto di vista lessicale, la traduzione di Del Zoppo lavora su un doppio binario. Da una parte tende a dare al lessico una patina straniante. Ce ne avverte la stessa autrice della traduzione, sempre nella sua Scatola nera, quando, parlando dei vari problemi lessicali anche legati a termini storici e realia (pp. 589-592), spiega di aver cercato di conservare il più possibile i termini originali, fidando nella conoscenza del lettore di alcune specificità storico-culturali, da una parte, e dall’altra approntando un nutrito glossario in fondo al volume (non solo per i cosiddetti termini culturospecifici, ma anche per una serie di elementi come film, libri, canzoni che hanno avuto rilevanza particolare nella storia della RDT).
D’altra parte, però (e questo ci interessa forse di più, perché è un fatto tutto interno alla lingua e alla cultura verso cui Del Zoppo traduce, ovvero l’italiano), la traduzione dissemina il romanzo di alcuni termini che vorrei chiamare «parole pastello», capaci di conferire al testo tradotto una patina quasi anticata, che fa da contrappeso allo straniamento dei termini originali, creando una sfilza di sensazioni vorrei dire casalinghe, che accompagnano e sostengono il lettore nel suo viaggio lessicale attraverso terre e soprattutto tempi lontani.
Un paio di esempi:
Schon vor zwölf Uhr war die Terrasse von Gästen überschwemmt, an jedem Vormittag vier überfüllte Schiffe voller Tagestouristen, die sich vom Hafen her ins Hochland des Dornbuschs wälzten, als gäbe es keinen zweiten Ort. Auch die Lichtung und der Wald ringsum waren dann bis zur Steilküste hin mit Urlaubern besetzt, sprungbereit (Seiler 2014, 91-92).
Già prima di mezzogiorno la terrazza era piena di ospiti, ogni mattina quattro navi, stracolme di turisti giornalieri, dal porto si riversavano sulla terraferma, lì sull’altopiano del Dornbusch, quasi non ci fosse un altro luogo al mondo. Anche la radura e il bosco intorno a quel punto erano occupate da villeggianti fin sul limitare della costa a picco, pronti al salto (p. 114).
Si può notare, subito, dal punto di vista lessicale (sulla sintassi torneremo), l’attenta differenziazione sinonimica con cui Del Zoppo segue Seiler (Gästen, Tagestouristen, Urlaubern che diventano «ospiti», «turisti giornalieri», «villeggianti»). La parola però che qui mi interessa di più è quel «villeggianti», lemma che, sebbene secondo De Mauro abbia la stessa marca d’uso (sia cioè altrettanto diffusa), per esempio, di «vacanzieri» (sua possibile alternativa come traducente), è però di uso molto più antico, visto che è attestato fin dal Settecento (secondo lo Zingarelli), mentre occorrenze di «vacanziere» si trovano solo dal 1967 (sia secondo De Mauro che Zingarelli).
Ecco la «parola pastello», quella lieve vertigine lessicale che ci fa tornare indietro mentre il resto del testo ci spinge avanti, ricreando così il gioco spiazzante dell’originale con mezzi tutti interni alla lingua e alla cultura della traduzione.
Qualcosa di molto simile accade nel brano seguente:
Du arbeitest im Abwasch. Du sprichst alles hundert Mal ins Becken, so lange, bis es stimmt. Eigentlich möchtest du ganz versinken dabei, abtauchen, aber inzwischen genügt dir das kleine Kreisen deiner Hände im Wasser. Dazu das Gedämpfte, kaum hörbar, die Unterwassergeräusche. Die nach links und rechts schwenkende Schwebe, wenn ein Teller zu Boden trudelt, versenkt wird wie ein Schiff. Davon die Stellung deiner Zeilen. Oder der dumpfe Klang, wenn etwas rasch zu Grunde geht, stapelweise. Du kannst das alles retten, reinigen, bergen, trocknen – jedes Geräusch ist eine Höhle, ist eine Sprache, Ed (Seiler 2014, 216).
Lavori al lavaggio. Ripeti tutto cento volte nella vasca, finché non è perfetto. In realtà vorresti sprofondare, svanire sott’acqua, ma intanto ti basta disegnare piccoli cerchi con le mani. E si aggiunge il brusio sordo, appena udibile, i rumori subacquei. L’onda che si sposta a destra e sinistra quando un piatto si va ad adagiare sul fondo, si inabissa come una nave. E da lì la posizione delle tue righe. O il suono ovattato quando qualcosa finisce sul fondo rapidamente, impilandosi. Tu puoi salvare tutto, pulire, ammucchiare, asciugare – ogni rumore è una grotta, è una lingua, Ed (p. 263).
Vorrei concentrarmi qui sulla traduzione di tre parole: das Gedämpfte, dumpf e stapelweise (un aggettivo sostantivato, un aggettivo e un avverbio). Il dizionario bilingue Rizzoli-Larousse (che riprende il vecchio Sansoni a cura di Vladimiro Macchi di metà anni Settanta del Novecento, rivisto all’inizio del nostro secolo – la mia edizione è del 2002), dà come traducenti, rispettivamente: «attenuato, attutito» (per gedämpft, aggettivo), «stantio, ammuffito, cupo, sordo, roco», «pila, mucchio» (per Stapel, sostantivo).
Anche qui, la scelta mi sembra netta: «brusio sordo», «ovattato», «impilandosi», appaiono esempi limpidi di «parole pastello»: servono a farci sentire a casa (coerentemente, peraltro, con il campo semantico del pulire e asciugare, che l’originale stesso lega al concetto di salvezza) prima della stoccata finale (che, come dicevamo all’inizio, si finge esegetica proprio mentre crea confusione tra le significanze; qui – paradigmaticamente – col doppio salto mortale metaforico della chiusa: rumore-grotta – ignoto, mistero, morte – e rumore-lingua – comunicazione, comprensione, esegesi e, al limite, ermeneutica).
Infine, due rapidissime notazioni sulla sintassi, ché non di solo lessico è fatta l’arte del racconto (ma anche – anzi forse soprattutto – di andamenti, se proprio non si vuol parlare di ritmo). Riprendendo in parte gli esempi fatti finora, vediamo come Del Zoppo sia a suo agio nel manipolare la sintassi dell’originale quando serve alla chiarezza (la parentesi del primo esempio) o a evitare in traduzione un eccesso di retorica (il «tutto» nell’ultima frase dell’ultimo esempio).
Eppure, la traduttrice non ha paura di risultare ostica o addirittura inelegante in italiano, laddove ne ravvisi la necessità per seguire un andamento dell’originale che le sembra vada salvato (perché, evidentemente, espressivo secondo l’interpretazione della traduttrice). Prova ne sia la prima frase del secondo esempio, che vale senz’altro la pena citare di nuovo: «Già prima di mezzogiorno la terrazza era piena di ospiti, ogni mattina quattro navi, stracolme di turisti giornalieri, dal porto si riversavano sulla terraferma».
Qui sarebbe stato naturale, per le abitudini italiane di stile e scrittura depositate nei secoli (abitudini di eleganza che spesso tentano mortalmente il traduttore), mettere un punto dopo «ospiti», in modo da evitare un’ineleganza paratattica. Del Zoppo conserva invece coraggiosamente la virgola dell’originale, senza inserire alcun nesso causale, giustapponendo le due immagini esattamente come fa l’autore.
Questo denota un rapporto con la sintassi non meno ambivalente che con il lessico.
Altri due esempi, tutti interni alla traduzione:
Si erano staccati ed erano già molto, forse troppo immersi nella condizione dell’attesa, rispetto ai quali Ed non di rado aveva l’impressione che avessero dimenticato l’attesa stessa, come se la loro vita già da tempo si collocasse al di là, non solo al di là dei confini del Paese, ma anche al di là del tempo, il cui corso misurabile non era in vigore grazie all’isola e alla sua magia (Seiler 2015, 205).
La prima stanza. Non ha una finestra e non ha porta, ma un’apertura. È un passaggio, e da quel passaggio arriva un po’ di luce. Tutto è fermo a prima della parola, motivo per cui Ed non può rispondere ai richiami di fuori. È abbastanza strano essere chiamati e stare lì (p. 341).
Qui mi sembra di poter dire che le curve sintattiche del primo brano si avvolgono quasi su se stesse fino a stirare il periodo in un’elasticità al limite della stucchevolezza, mentre il secondo è caratterizzato da una brevità e una spezzatura che rasentano l’aridità. Mi sembra che tanto basti a testimoniare la versatilità ritmica della mano della traduttrice (che non teme nemmeno allitterazioni e rime, vedasi, tanto per fare un esempio ad apertura di libro: «C. era stata l’eccezione, un inizio, un precipizio» – p. 297).
Che cosa significano questa versatilità, questa ambivalenza della traduzione rispetto all’originale?
A me sembra denotino una strategia tutta a posteriori, che segue il testo originale come un segugio, senza letture precostituite né tesi da dimostrare (e non era facile, credo, per una persona consapevole dei risvolti anche teorici del mestiere, come indicano sia la La scatola nera che il glossario in fondo al libro).
La strategia di Paola Del Zoppo non lavora aprioristicamente in modo “straniante” né “addomesticante” (per usare due parole oggi alla moda), bensì in modo da restare ancorata, con i mezzi di volta in volta necessari, a quei versanti dello stile dell’originale che la traduttrice ravvisa – sempre di volta in volta – come significativi. Una traduzione cioè che, sia dal punto di vista lessicale che da quello sintattico, segue l’originale, in quanto tutta rivolta all’espressività del testo tradotto.
Non, quindi, un lavoro che serve alle idee che la traduttrice ha sulla traduzione in generale, né ad abitudini e preconcetti sull’eleganza stilistica dell’attuale sistema editoriale italiano. Ma nemmeno un lavoro banalmente ancorato al senso che il testo veicola, come se l’arte della scrittura non fosse che la storia che racconta. Un lavoro, bensì, al servizio della ricezione del lettore di quella che – secondo lo sguardo della traduttrice, ça va sans dire, ovvero: secondo la sua interpretazione – è la creatività dell’autore primo. E che non ha paura, per raggiungere lo scopo, di usare mezzi anche apparentemente contraddittori o ambivalenti.