di Stefano Ondelli
A proposito di: Eleonora Gallitelli, Il ruolo delle traduzioni in Italia dall’Unità alla globalizzazione. Analisi diacronica e focus su tre autori di lingua inglese. Dickens, Faulkner e Rushdie, Aracne editrice, Roma, 2016, 312 pp., € 30,00
Il volume espone i risultati di un progetto di ampio respiro (di cui «tradurre» ha già offerto un’anticipazione nel suo numero 8), che ha lo scopo di illustrare, con dovizia di materiali, il ruolo delle traduzioni nel contesto culturale italiano e valutare gli esiti degli approcci traduttivi sviluppati in momenti diversi della storia del nostro Paese dall’Unità a oggi. Questo obiettivo, ambizioso a partire dal titolo fino ad arrivare alle importanti Conclusioni, viene perseguito con approcci molteplici e diversificati (linguistico, letterario, storico e culturale) da Eleonora Gallitelli, che prende le mosse dall’illustrazione dettagliata del quadro teorico di riferimento (capitolo I della parte I), incentrato sulla teoria dei polisistemi letterari di Even-Zohar.
Sulla scorta di queste premesse, si individuano tre momenti significativi nella cultura linguistica e letteraria italiana successiva all’unificazione: nel primo periodo, che appunto segue quasi immediatamente il 1861, si definisce il modello linguistico di riferimento a livello nazionale. Si tratta di un’evoluzione variegata e complessa, ripercorsa principalmente sulle orme della Storia linguistica dell’Italia unita del compianto Tullio De Mauro, del 1963, anche se il paragrafo 1.3. sembra contrarre temporalmente in maniera eccessiva un’italianizzazione della Penisola che, come ci dicono le statistiche su dialettofonia e alfabetizzazione, avviene gradualmente nell’arco di oltre un secolo, per di più muovendo i primi passi molto lentamente e velocizzandosi solo nel secondo dopoguerra, per arrivare a compimento non prima del’ultimo ventennio del Novecento. Il secondo momento è segnato dal rinnovamento in atto tra le due guerre mondiali, che aprirà le porte alla cultura americana (anche in questo caso, la consacrazione mi pare possa dirsi successiva); il terzo e ultimo periodo considerato si pone a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila, quando la lingua e la cultura italiane vengono progressivamente relegate a un ruolo periferico a causa della globalizzazione economica e culturale, dominata dall’inglese come lingua franca (e ci si chiede se la posizione linguistica e culturale dell’Italia potesse essere considerata più centrale nella seconda metà dell’Ottocento, in un periodo di virtuale bilinguismo col francese delle classi colte, quando i prosatori italiani si rivolgevano a modelli esogeni – su tutti, i romanzi storici e naturalisti). Di converso, del polisistema linguistico-letterario dell’inglese si sottolineano la precoce standardizzazione e la successiva frammentazione sia a livello “locale” (Dickens ne è un esempio), tramite l’impiego di molteplici registri e varietà nella prosa letteraria, sia (più tardi) a livello globale, con l’affermazione in diatopia di più varianti nazionali di quella che, in aggiunta, è ormai è diventata la lingua franca mondiale.
Va doverosamente rimarcata la ricchezza di notizie che riguardano il contesto storico, linguistico e culturale che introduce ciascuna delle opere analizzate nella parte II del volume: Little Dorrit di Charles Dickens nella resa di Federigo Verdinois; Light in August e The Hamlet di Faulkner, rispettivamente nelle versioni di Elio Vittorini e Cesare Pavese; The Satanic Verses nella traduzione di Ettore Capriolo. Per ognuna si forniscono dettagli su biografia dell’autore, genesi dell’opera e temi trattati, sul modus operandi del traduttore, sul contesto storico e linguistico della cultura di partenza e di quella italiana di arrivo, nonché sull’accoglienza dell’opera in Italia e (se del caso) nel mondo.
A questa esauriente contestualizzazione fa seguito un’approfondita analisi comparativa di brani scelti delle varie opere e delle relative traduzioni. La disamina procede a vari livelli, con osservazioni di tipo semantico e stilistico che vengono correlate alla strategia traduttiva di volta in volta adottata, a cui si aggiungono osservazioni puntuali sulle scelte più strettamente linguistiche, in particolare con riferimento allo scarto tra la carica innovativa dei testi originali e le difficoltà di resa in un italiano che, a causa della pressione della norma di stampo letterario, sembra perlopiù mancare delle risorse espressive dispiegate negli originali in inglese. L’ampia e variegata messe di dati storici, linguistici e culturali viene ricondotta a unità nelle Conclusioni, laddove ci si chiede, ancora una volta, se si possa parlare di «progresso nella traduzione» (p. 269). I case studies condotti nella parte II del volume indicano che, se per «progresso» si intende una maggiore adeguatezza della trasposizione interlinguistica, in realtà a periodi storici diversi corrispondono approcci traduttivi diversi, non sempre mirati a una resa più efficace della ricchezza linguistica e contenutistica del testo originale. In particolare, con riferimento ai tre periodi considerati,
dall’addomesticamento rispetto della prima fase si arriva a un intervento più libero, e talvolta spregiudicato, del traduttore, che segue il suo gusto e i suoi valori personali nella seconda, sino ad arrivare a un nuovo tipo di addomesticamento, più superficiale e conservatore nell’ultima (p. 270).
In conclusione, si conferma il contributo fondamentale di un approccio interdisciplinare volto a cogliere pienamente gli svariati fattori che concorrono alla definizione del polisistema letterario.
Se da un lato la presentazione dei tre case studies risulta dettagliata e convincente, qualche perplessità di ordine metodologico viene invece sollevata dall’approccio quantitativo adottato soprattutto nel capitolo II della parte I del volume, quando si pone a confronto «l’effettivo uso di certi elementi linguistici nelle traduzioni e nei romanzi autoctoni» (p. 47) in Italia nei tre periodi considerati. Pur nella consapevolezza della natura cursoria delle indagini presentate, intese ad aprire la strada a uno studio di più ampio respiro, nell’intento di fornire qualche indicazione utile a una eventuale prosecuzione, mi soffermerò qui su alcuni aspetti relativi alla compilazione e al bilanciamento di un corpus da sottoporre ad analisi (semi)automatica di tipo quantitativo e su alcune considerazioni relative al contesto linguistico dell’Italia postunitaria.
Fondamentalmente, l’obiettivo è stabilire se la lingua usata da romanzieri e traduttori italiani sia variata nel tempo, e se lo sia in modo analogo, sfruttando le possibilità offerte dal software Wodsmith Tools. A questo scopo sono stati assemblati due corpora monolingui paragonabili comprendenti dieci romanzi italiani e dieci tradotti dall’inglese verso l’italiano per ciascuno dei tre periodi considerati: 1870-1910, 1930-1965 e 1989-2001. Al di là della consistenza numerica totale (in questo caso, oltre 5 milioni di parole), in base all’approccio della linguistica dei corpora, per poter condurre a conclusioni valide, il campione considerato deve essere reale e rappresentativo di una certa varietà; in base ai principi della statistica testuale, un corpus risulta indagabile se presenta type token ratio <20% e hapax <50%.
Ora, a prescindere dal fatto che abbiamo a che fare con opere di tipo letterario e paraletterario (quindi comunque solo una parte della totalità dei testi tradotti), tutti i testi originali sono in lingua inglese. Anche se oggi è innegabile il dominio incontrastato dell’inglese su tutto il mercato editoriale italiano, la situazione è stata assai diversa da metà Ottocento fino a metà Novecento. Il corpus qui selezionato rende conto (in maniera esplicita: p. 49) esclusivamente dell’influenza dell’inglese sulla lingua italiana: se misuro l’incidenza della perifrasi progressiva, nulla so della fortuna di altre strutture (per es. la frase scissa: è Marco che mi ha invitato), magari tacciate di gallicismo, che pure hanno contribuito all’affermarsi dell’italiano dell’uso medio (secondo l’etichetta utilizzata da Francesco Sabatini) o neostandard (come invece lo ha chiamato Gaetano Berruto). Questo è importante non solo per un confronto linguistico diretto ma anche, presumo, per una valutazione delle strategie traduttive dispiegate in diacronia: la maggior famigliarità linguistica e culturale con le realtà francofone europee, soprattutto nell’Ottocento, è molto probabilmente suscettibile di avere ripercussioni sul comportamento dei traduttori.
Ne consegue che ciò che valutiamo in questo caso non è «l’italiano delle traduzioni» (o «traduttese») tout court, ma principalmente il risultato dell’interferenza con l’inglese. Questo non è solo vero per i tratti esplicitamente attribuiti al contatto tra le due lingue (la perifrasi progressiva e la frequenza dei pronomi personali), ma anche per quelli che non verrebbero «immediatamente “suggeriti” dall’inglese» (p. 55): le espressioni enfatiche mica, meno male, senz’altro e magari (peraltro di registro alquanto marcato in senso colloquiale) rientrerebbero nella unique items hypothesis di Tirkkonen-Condit (che prevede la sottorappresentazione, nelle traduzioni, di elementi non disponibili nella lingua di partenza), la frequenza del congiuntivo (scarsamente usato in inglese) e del perfetto semplice (invece più frequente che in italiano), ma anche lunghezza media dei periodi (lo stereotipo – qui smentito – prevede la preferenza dell’inglese per periodi più brevi e di norma i traduttori rispetterebbero i confini frasali dell’originale) e, finanche, la ricchezza lessicale, poiché l’inglese meglio sopporterebbe le ripetizioni rispetto a un italiano tradizionalmente votato alla variatio.
Se poi prendiamo in considerazione gli aspetti più strettamente quantitativi, occorre innanzitutto notare che il lettore avrebbe potuto beneficiare di qualche dettaglio in più per poter valutare i dati esposti. Per esempio, se i diversi subcorpora presentano differenze dimensionali fino al 20% (p. 49), a poco serve la normalizzazione dei valori su 10.000: sappiamo che certe misure risentono fortemente della dimensione del campione analizzato, a partire dalla ricchezza lessicale (correttamente così indicata in tabella 2 a p. 53, mentre per «densità lessicale»come riporta il titolo del paragrafo 2.2.2., in letteratura si tende a indicare il rapporto tra parole piene e parole vuote, sulla scorta di M.A.K. Halliday). In assenza di dati quantitativi più precisi, è difficile sostenere che venga sfatato «il luogo comune dell’impoverimento linguistico» (p. 53), uno dei capisaldi degli universali traduttivi proposti da Mona Baker.
Per quanto riguarda i pronomi relativi, la trattazione eccessivamente riassuntiva del fenomeno indagato non permette di cogliere il valore delle misurazioni di «il quale e cui preceduti dalle preposizioni per, con e di [perché] si utilizzano in contesti più formali e sono quindi più marcati, rispetto al che, indeclinabile per genere e numero» (p. 53). Pur rientrando tra i casi di che polivalente, il pronome relativo non flesso in luogo di cui o il quale (es. «è un ragazzo che ci si può fidare») mi pare un tratto dell’uso medio nella varietà orale della lingua, che però trova decisamente meno accoglienza nello scritto. Al limite, la presenza calante di il quale e cui può essere considerata un indice della riduzione della complessità sintattica, come anche la riduzione del congiuntivo. A questo proposito, invece di limitarsi ad analizzare le forme del congiuntivo e dell’indicativo imperfetto della prima e terza persona del verbo avere, sarebbe stato utile ricorrere a Treetagger, o a un altro programma di attribuzione automatica delle parti del discorso, che, seppur non esente da errori, avrebbe fornito un’immagine più chiara. Inoltre, anche se si può essere d’accordo con le conclusioni di Santulli citate a p. 58 (secondo le quali il congiuntivo sarebbe fondamentalmente una marca di registro) non si può fare a meno di notare che si stanno paragonando i risultati di tipi testuali molto diversi (letteratura e newsgroup su web). Analoghe considerazioni possono essere svolte per il passato e trapassato remoto. Al di là della semplicistica divisione in diatopia (in realtà l’abuso riguarda principalmente le regioni meridionali estreme), giustamente si cita Weinrich (p. 59) per ricordare che il passato remoto è tempo della narrazione, e in particolare della fiction. Tuttavia questo non vale nei dialoghi, e una diversa estensione delle parti dialogate nei corpora potrebbe spiegare la distribuzione di questo come di altri tratti visti sopra. Inoltre, il trapassato remoto è tempo rarissimo e sottoposto a molte restrizioni in italiano (fondamentalmente compare solo nelle secondarie temporali), mentre la sola selezione dei verbi essere e avere, sempre alla terza persona singolare, non è rappresentativa dell’uso del passato remoto perché statisticamente mi pare più comune la lettura imperfettiva in molti costrutti che comprendono questi verbi (per es. ebbe le chiavi/aveva le chiavi, ebbe ragione/aveva ragione, fu soddisfatto/era soddisfatto, fu a Roma/era a Roma ecc.).
Passando alla rappresentatività del corpus, come già accennato, a p. 49 si annuncia che, pur rinunciando all’uniformità di lunghezza, si intende assicurare la medesima varietà di autori e traduttori in ciascun subcorpus. Tuttavia, all’interno di ciascun gruppo di testi, sarebbe importante considerare l’impatto della dimensione delle opere: Alice nel paese delle meraviglie o Il dovere del delitto (scil. Il delitto di Lord Arthur Savile) hanno dimensioni assai diverse da La piccola Dorrit o Jane Eyre; idem per Il giovane Holden – che per molti motivi è un romanzo linguisticamente eccentrico – rispetto a Furore o 1984. Per un bilanciamento del corpus, mi pare che, tolta la lingua di partenza (che è sempre l’inglese, anche se nelle sue versioni americana e britannica) abbiamo queste variabili in gioco: stile dell’autore originale, stile del traduttore, argomento del romanzo (che può incidere sulla lingua). È evidente che, nel caso un’opera sia di dimensioni molto maggiori rispetto alle altre, inciderà pesantemente su eventuali computi statistici relativi alle scelte linguistiche. Analogo discorso riguarda la distribuzione dei traduttori. C’è un motivo per cui sono state selezionate due opere tradotte da Verdinois (anche se una è molto breve)? Qual è l’incidenza di ogni traduttore in ciascun subcorpus? E che cosa possiamo dire dei traduttori anonimi?
Un altro problema potrebbe riguardare la distanza che intercorre tra la pubblicazione delle opere originali e delle rispettive traduzioni. La guerra dei mondi è un caso emblematico: pubblicato nel 1898, la traduzione considerata in questo studio è di quasi 70 anni posteriore (1965; tra l’altro, anche se non è riportato nella bibliografia del volume, la responsabile è Adriana Motti, la stessa della famosa versione einaudiana del Giovane Holden). Perché scegliere questa versione, quando già nel 1901 era disponibile la resa di Angelo M. Sodini, nella «Collezione di romanzi fantastici» per i tipi di Vallardi? In che senso possiamo considerare quest’opera di Wells come appartenente alle traduzioni del secondo dopoguerra? Cosa possiamo dire del problema delle ritraduzioni, a cui giustamente l’autrice fa accenno nelle conclusioni (p. 270) per sottolineare la diversità di approcci successivi allo stesso testo? Quello di Wells non è l’unico esempio: tra la pubblicazione inglese dei Misteri del castello d’Udolfo (1794) e la prima traduzione italiana passano quasi 80 anni, 64 per Davide Copperfield, 55 per Piccole donne (ma qui la situazione, come si evince dall’ISBN, si fa piuttosto intricata a causa delle riduzioni per ragazzi). Anche se tipici del periodo considerato (le distanze tra edizione originale e traduzione italiana si riducono nel Novecento, fino quasi ad annullarsi nell’ultimo periodo in esame), simili lassi temporali, molto significativi, potrebbero avere conseguenze sulla valutazione di un fenomeno complesso come il polisistema letterario (per es. in virtù della circolazione nella Penisola di versioni in francese o di traduzioni non autorizzate pubblicate a puntate su riviste).
Infine, il terzo gruppo di traduzioni (1989-2001) non mi sembra contenere in maniera preponderante autori «globali», che provengono da ex colonie anglofone e si rivolgono al mondo, come poi viene approfonditamente spiegato nel capitolo dedicato ai Versi satanici. A parte Rushdie stesso, abbiamo Naipaul e, se vogliamo, Wilbur Smith, che è zambiano, ma la classificazione dei suoi romanzi come letteratura o paraletteratura, almeno come ambizioni autoriali, fa sorgere qualche dubbio. A questo proposito, in generale mi pare che aumenti il numero di opere di consumo mano a mano che ci avviciniamo all’inizio del XXI secolo, mentre erano piuttosto contenute nei periodi precedenti. Può essere che si tratti di una distribuzione voluta per riflettere in qualche modo l’evoluzione del mercato (ma nelle premesse si diceva che non era stato preso in considerazione il successo di vendita), ma mancano precisazioni a riguardo.
Analoghe considerazioni relative al bilanciamento valgono anche per il subcorpus degli autori italiani, per i quali, per es., fatico a trovare paraletteratura nel periodo 1930-1960: annoveriamo, in ordine cronologico, Deledda, Brancati, Vittorini, Pavese (questi ultimi due, naturalmente, compresi anche nel corpus dei traduttori), Fenoglio, Silone, Calvino, Morante, Cassola, Sciascia, quando nel subcorpus più recente troviamo autori come Volo, Camilleri, Wu Ming, Faletti. Per il problema della rappresentatività dimensionale, si consideri la differenza tra La ragazza di Bube (poco più di 65.000 parole) e L’isola di Arturo (oltre 125.000).
Come specificato precedentemente, è bene ricordare che le osservazioni svolte sopra sono intese a contribuire in maniera costruttiva alla doverosa prosecuzione di un progetto che non può che essere benaccetto e incoraggiato, stante la colpevole mancanza di studi diretti a valutare l’apporto – soprattutto linguistico – delle traduzioni alla cultura italiana postunitaria. Maggiori approfondimenti potrebbero così corroborare le stimolanti conclusioni dell’autrice, secondo la quale nel periodo tra le due guerre le traduzioni avrebbero contribuito alla rottura con lo standard linguistico, aggiungendo un tassello importante alla visione secondo cui tale rottura sarebbe principalmente avvenuta su pressione dell’italiano parlato che, nel periodo 1930-65, si trovava in una fase evolutiva precedente l’effettiva affermazione: si consideri per es. il parlato filmico, tradotto o originale, di quel periodo, o le statistiche sulla percentuale di dialettofoni in Italia fino a metà degli anni settanta. Credo tuttavia che vada tenuta distinta la nozione di Italiano dell’Uso Medio proposta da Sabatini e il concetto di «registro medio» ripreso da Coletti che, senza sostituirmi all’autore, immagino indichi una lingua priva di usi connotati (come previsto dall’ Universale Traduttivo del levelling out o convergenza) piuttosto che una varietà analoga all’Umgangsprache.
Ulteriori sondaggi potranno inoltre ampliare il panorama delle traduzioni italiane in un mondo culturalmente globalizzato, ma che non si riduce esclusivamente all’inglese (senza negarne la netta preponderanza): si pensi all’apporto sudamericano, per esempio, o anche giapponese. Resta comunque che Eleonora Gallitelli ha dato un contributo importante per diversi aspetti dell’evoluzione recente della lingua e cultura italiana che non hanno finora ricevuto l’attenzione che meritano.