di Franco Nasi
Tradurre è un’intenzione, a cura di Nicoletta Dacrema, Marcos y Marcos, Milano 2013, pp. 270, € 18,00
In un utile passo de Le project d’une critique “productive”, apparso postumo nella raccolta Pour une critique des traductions: John Donne (Paris, Gallimard, 1995; disponibile anche in italiano nella versione di Gisella Maiello: Traduzione e critica produttiva, Salerno, Oedipus, 2000), Antoine Berman dà alcuni suggerimenti su come procedere nella lettura critica di un testo in traduzione. La prima cosa da fare è di resistere alla tentazione di un confronto immediato fra testo in traduzione e originale. Quando, come nel caso delle poesie, capita di avere il testo a fronte, spesso l’occhio di chi conosca anche solo un poco la lingua di partenza corre fra i due testi: questo avviene nella migliore delle ipotesi perché il lettore ha bisogno di una mano o è curioso di vedere una soluzione traduttiva alternativa a quella che mentalmente va facendo, nella peggiore delle ipotesi perché, sadicamente o stupidamente, è a caccia dell’errore. Berman raccomanda di lasciar perdere questo esercizio inutile e di concentrarsi piuttosto sulla lettura e rilettura del testo di arrivo, accantonando per ora l’originale. Primo obiettivo è di verificare la tenuta della traduzione come testo, «il grado di consistenza (…) al di fuori di ogni relazione con l’originale, il grado di vita immanente» (p. 51). Si individueranno così le zone in cui si avvertono passaggi problematici, che stonano, oppure le zone in cui la lingua ha accenti stranieri, ritmi insoliti o fin troppo omologati alla modalità standard della lingua di arrivo. Si passerà poi all’analisi dell’originale, che dovrà procedere con uguale rigore, nel tentativo di cogliere le particolarità stilistiche fondamentali, il «centro di gravità» (p. 55). Terzo passaggio «per comprendere la logica del testo tradotto» è «andare alla scoperta del traduttore», della sua «posizione traduttiva» e del suo «progetto» (pp. 58-60). Centrale non è più la intentio auctoris, importante ma sempre difficile da verificare e comunque secondaria rispetto alle ragioni interne del testo; dominante semmai diventa l’intenzione delle opere, quella originale e quella scaturita dall’atto del tradurre, e l’intenzione del traduttore.
Questa breve premessa, con il suo richiamo alla centralità della figura del traduttore e del progetto traduttivo, può essere una chiave d’ingresso al bel volume curato con rigore da Nicoletta Dacrema e nello stesso tempo può suggerire una modalità di lettura alternativa. Tradurre è un’intenzione esce nella collana dei libri di «Testo a fronte», diretta da Franco Buffoni, nata a fianco della meritoria omonima rivista di traduttologia fondata nel 1989 da Emilio Mattioli, Allen Mandelbaum e dallo stesso Buffoni.
Dopo una utile Introduzione metodologica di Dacrema, il volume raccoglie sette esperienze o esercizi di traduzione quasi tutti di passi tratti da opere letterarie di diversi generi, ciascuno dei quali accompagnato dal testo originale. Si ha modo così di leggere la traduzione di Patrizia Mureddu di 14 esametri omerici in cui si racconta della morte di Ettore; le prime cinque pagine di Memorie del sottosuolo (o Appunti o Annotazioni del o dal sottosuolo o da uno scantinato o da un seminterrato…) con il vorticoso incipit di Dostoevskij: «Io sono una persona malata … Io sono una cattiva persona. Sgradevole, ecco che persona sono io», nella versione di Pierluigi Cuzzolin; la traduzione ritmica dell’interessante racconto giovanile di Rilke Der Rath Horn (Il consigliere Horn) di Nicoletta Dacrema. Seguono due versioni, dal punto di vista formale ancor più problematiche, se possibile, delle precedenti. Nella prima Fabio Vasarri sfida le invenzioni vertiginose di Michel Leiris, che smonta il proprio nome, lo riduce a brandelli, alle singole lettere, per poi caricare ciascuna lettera e il suono complessivo del suo nome di analogie e associazioni imprevedibili, fino a restituire un autoritratto singolarissimo di sé stesso: “MICHEL LEIRIS: […]. M, come il mare che si estende fino alle montagne marmoree della morte, da mezzanotte a mezzogiorno. […] MICHEL, è un nome da uomo grasso, con le guance cascanti. È il nome di un bevitore di birra che tiene sulle ginocchia e palpa a piene mani grosse comari di kermesses fiamminghe. È un nome da fifone, un nome moscio, senza consonante dura, senza niente che rotoli o si scateni come una scarica di pietre» (p. 155). La seconda è il lungo poemetto The Ballad of the Yorkshire Ripper (La ballata di Pete lo squartatore) del poeta inglese Blake Morrison, in cui Massimo Bocchiola deve non solo affrontare la forma chiusa della ballata, ma il dialetto dello Yorkshire del narratore della storia o altre diverse varianti locali di personaggi secondari, caratterizzati linguisticamente dalla loro appartenenza alla working class. Da ultimo la traduzione, questa volta dall’italiano allo spagnolo, de Il visitatore notturno, un racconto per l’infanzia di Dacia Maraini, a cura di Joan Armangué i Herrero, e una serie di brevi testi burocratici di tipo giuridico- amministrativo che, per una legge europea intesa a tutelare la promozione delle lingue minoritarie, sono stati tradotti dall’italiano al dialetto sardo ad opera di Ignazio Putzu.
Ogni «esperienza» è introdotta da una «riflessione» che permette al lettore di comprendere meglio le motivazioni che hanno guidato ogni traduttore nelle proprie scelte. Il lettore è invitato così a entrare nei rispettivi laboratori, in cui ciascun traduttore ha affinato una propria singolare modalità di operare, così come avviene nelle botteghe dei migliori artigiani che, come diceva Benjamin a proposito dei narratori, modellando la ceramica lasciano impressa nella materia la loro stessa impronta. In questi laboratori, ed è una preoccupazione comune a tutti gli autori, il traduttore si preoccupa di mostrare al lettore prima di tutto come “funziona” il testo da tradurre, quali sono i suoi elementi dominanti, in che cosa consista la sua integrità o compattezza, poiché, come scrive Cuzzolin, il «compito fondamentale del traduttore, quello da cui dipende gran parte della riuscita della sua traduzione», sta nella «capacità di ricostruire anche nella lingua d’arrivo una “unità testuale”, quella stessa che l’autore ha prodotto nella sua lingua, dotata di quella caratteristica che […] Maria-Elisabeth Conte aveva individuato nella coerenza del testo – la sua quidditas» (p. 61). Quale sia quell’essenza di un testo che va preservata nell’atto della traduzione è tema sul quale in molti hanno disquisito, a cominciare da autori molto noti che hanno visto le proprie opere, certo non prive di problemi linguistici e formali, tradotte in diverse lingue, come Umberto Eco (per Il nome della rosa con l’arcinoto Dire quasi la stessa cosa) o Douglas Hosfstader (per Gödel, Eschel e Bach in un denso saggio intitolato significativamente The search for Essence ‘twixt Medium and Message, comparso in Traductio, ed. D. Delabastita, St. Jerome, Manchester, 1997).
In Tradurre è un’intenzione la parola, anziché agli autori, è data ai traduttori, non più invisibili, accomunati dalla volontà di restituire una traduzione che sia un “testo” coerente e vitale. È per questo interessante notare come ciascuno di loro concentri la propria attenzione su aspetti diversi nel tentativo di individuare quella nota dominante del testo di partenza, quella “essenza”, o struttura portante, che deve essere preservata nella ricreazione del nuovo testo. Così per il linguista Cuzzolin «le ragioni ineludibili» (p. 49) del testo vanno ricercate non solo nel lessico, ma nella lingua, nella grammatica, nella sintassi, nell’ordine stesso delle parole, come si vede benissimo nella sua attenta analisi dell’incipit di Memorie del sottosuolo. Per la grecista Patrizia Mureddu è fondamentale tener conto dell’elaborazione orale del testo omerico e dell’artificiosità linguistica che caratterizzava l’epica già in età molto antica, al punto che si potrebbe trovare forse anche in questo quella peculiarità testuale che il traduttore dovrebbe cercare di preservare. Per questo, si chiede Mureddu, «è proprio inevitabile perdere nella traduzione quella suggestiva patina di “alterità” che la lingua dei poemi trasmetteva al suo pubblico fin dai tempi più remoti?» (pp. 32-33). E la sua traduzione quasi regolare in endecasillabi sciolti con alcune scelte lessicali desuete («traguardando / il bel sembiante dove maggiormente / accessibile fosse», p. 45) sembrano voler riproporre quella peculiarità del testo fonte. Per Massimo Bocchiola, poeta oltre che autore di moltissime traduzioni di romanzi e poesie, responsabilità del traduttore sarà di mantenere le specificità della forma ballata (in questo caso quartine di versi irregolari) e di «perseguire una identità segmentale verso per verso», rendendo nel contempo il tono e il registro del monologo performativo di Morrison, così profondamente segnato dall’assunzione della variante dell’inglese dello Yorkshire, con i suoi toni duri e concisi, particolarmente difficili da ottenere in italiano. Il ricorso a un dialetto locale, come quello pavese, padroneggiato da Bocchiola, potrebbe essere, a detta dello stesso traduttore, una soluzione che permetterebbe forse una miglior resa dei versi di Morrison. Bocchiola ne dà un breve saggio traducendo una quartina appunto nel suo dialetto, del quale scrive: «A colpo d’occhio appare chiaro come […] per ruvidezza intrinseca di lingua marginale non meno che per ossitona brevità delle singole parole, si presenti più adatto della lingua toscana a tradurre l’inglese» (p. 167). Tuttavia una traduzione in dialetto pavese richiederebbe a nota una traduzione in italiano, mentre il dialetto dello Yorkshire, pur con alcune peculiarità grafiche, fonetiche o idiomatiche, è perfettamente comprensibile a qualunque lettore britannico.
Anche queste riflessioni che muovono da un’esperienza diretta, da un tentativo intrapreso e poi abbandonato, rendono la lettura di questo testo proficua e sollecitante. Se mi è permesso suggerire una modalità di lettura di questo ricco volume, direi di cominciarla, come diceva Berman, dalle versioni, per poi se possibile (e qui solo i poliglotti che leggono greco antico, russo, tedesco, francese, inglese, spagnolo e sardo nella varietà campidanese andranno a nozze) leggere il testo di partenza. Dopo questa lettura critica le riflessioni di ciascun traduttore giungeranno come soluzioni a interrogativi reali sullo stile o sulle scelte lessicali o sintattiche che sono scaturiti dalla lettura dei testi. La descrizione della “lotta” con i giochi di parole o con le espressioni idiomatiche e le metafore ingaggiata da Vasarri nel tradurre Leiris, le considerazioni sul mantenimento del tono di una ingenua semplicità nella versione spagnola di Armangué i Herrero della storia per l’infanzia di Dacia Maraini, o le riflessioni linguistiche di Ignazio Putzu sui limiti del lessico giuridico amministrativo e sullo scarso sviluppo della sintassi subordinante nel sardo, saranno ancora più sollecitanti dopo la lettura dei testi tradotti.
La Introduzione potrebbe essere infine l’approdo della scorribanda fra tante esperienze. Qui Nicoletta Dacrema, con intelligenza critica, individua alcuni elementi che ritornano nelle diverse riflessioni e indica qualche possibile punto fermo nella riflessione sulla traduzione. Primo fra tutti è che non c’è una sola figura di traduttore, ma che ci sono più figure di traduttore (il poeta, il linguista, il filologo, lo storico della letteratura, ecc.) ciascuna con un proprio modo di interrogare il testo e di restituirlo. A questo fa seguito la rivendicazione dell’autonomia della traduzione letteraria che «come ha mostrato ripetutamente la critica, va considerato come un testo a sé stante, con pari dignità e funzione del testo originale» (p. 13). Un testo autonomo ma convergente, dove questo concetto non va inteso come «interpretazione a senso unico» (convergente cioè nel senso di rispetto del valore lessicale, o grammaticale, o metrico-ritmico ecc.), ma «rimodulato, e rimotivato, di volta in volta». Cosicché «il terreno su cui il traduttore dovrà muoversi sarà più accidentato di quanto non sia quello della traduzione di un testo tecnico», e il traduttore letterario «dovrà prendersi qualche rischio in più» (p. 14). Dacrema riprende poi il luogo comune, insopportabile come tutti i luoghi comuni, «traduttore traditore», per subito ribaltarlo: sottolinea infatti che la traduzione non potrà che essere un tradimento intenzionale, dove «tradire» va inteso «nel suo significato etimologico di “trasmettere”, di “consegnare”. Sinonimo innocuo, ma non innocente, del verbo “mostrare”, “rendere evidente”, esso rivela l’idea, appunto, che il traduttore vuol dare dell’opera, enfatizzando, con le sue scelte, luci e ombre dell’originale, schiarendo in un punto e scurendo in un altro, dando forza ad alcune parole e togliendola ad altre» (p. 22). Nonostante dunque le giustissime riflessioni sulla quidditas del testo con cui fare i conti nell’atto del tradurre, nessuna impossibile dichiarazione di “fedeltà” al testo. Come dicevano già Christiane Nord, Berman o Buffoni, è meglio parlare di lealtà e dimenticarsi di termini come fedeltà o infedeltà. Lealtà che il traduttore responsabile dovrebbe mantenere in due direzioni: nei confronti del source text (testo fonte di energia), con i suoi vincoli, le sue peculiarità e individualità, e nei confronti del lettore al quale, se possibile, è opportuno dichiarare come si è operato, quale progetto ha guidato nelle scelte, quali, appunto, le intenzioni di quello specifico atto traduttivo.