di g.p.
Renate Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ‘900 (ediz. orig. Triest. Eine italienische-österreichische Dialektik, Wieser, Klagenfurt, 2002), trad. it. di Federica Marzi a cura di Gianfranco Hofer, Lint – Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia, Trieste 2009, € 30.
Anche in questo si può misurare il destino di marginalità cui Trieste è stata condannata dal soddisfacimento, con la prima guerra mondiale, dell’aspirazione di tanti suoi cittadini a essere uniti alla patria italiana, sottraendosi all’impero asburgico e contribuendo al suo crollo. Probabilmente, se il suo benemerito editore si fosse trovato in una città un po’ più “centrale”, ci saremmo accorti prima dell’esistenza di questo importante libro. Ma l’avrebbe pubblicato? Il titolo italiano ne tradisce il contenuto autentico, ma rivela l’inquietudine che dalla lettura deriva agli italiani. Che fine hanno fatto i sogni di italianità dei tanti giovani di confine nutriti di mazzinianesimo e carduccianesimo? Non è in questa sede che possiamo soffermarci sul loro conto acquisti e perdite nella transazione Austria-Italia. Ma è proprio a questo conto, in campo intellettuale (ma non solo), che mira sostanzialmente Renate Lunzer. Non tanto il rimpianto di una felix Austria, ne deriva, quanto di un’Europa che avrebbe potuto avere alcune delle caratteristiche migliori di quell’impero: la buona amministrazione, la tolleranza, la multietnicità e multiconfessionalità, la protezione delle arti. E che ebbe invece, grazie al trionfo del nazionalismo (cui alcuni di quei giovani – vedi Rocca – furono tutt’altro che insensibili), snazionalizzazioni di popoli altrui, odii etnici, un’altra guerra tragica e disastrosa, massacri, persecuzioni. E spaesamento. Finirono per sentirsi apolidi in una patria ben diversa da quella che avevano sognata, alcuni di loro che avevano scelto con decisione l’Italia rinfacciando alle autorità austriache l’impossibilità di frequentare in territorio asburgico un’Università italiana.
Di certo, a questa patria pasticciona, arrogante e millantatrice, essi diedero molto di più di quanto ricevettero. Basta scorrere i nomi di coloro che vengono ritratti uno per uno in queste pagine, per riconoscere ingegni che hanno profuso tesori alla cultura italiana e non solo triestina e giuliana: Biagio Marin, Ervino Pocar, Carlo e Giani Stuparich, Alberto Spaini, Enrico Rocca, Bobi Bazlen, Carolus Cergoly. L’assunto di Lunzer, che consiste nel rivelare appunto l’infrangersi del sogno irredentistico, le fa aggiungere anche personalità di generazioni successive a quella: (Lino) Carpinteri & (Mariano) Faraguna, Ferruccio Fölkel (ma è un peccato che non abbia incluso il fiumano Enrico Burich) e, soprattutto, Claudio Magris, il teorizzatore del “mito asburgico”, al quale è dedicato quasi un terzo, molto bello, del libro ma di cui qui non ci occuperemo. Perché in questa sede ci interessa la generazione precedente, di cui Lunzer ci offre il background culturale, ignoto a tanti, forse perché – temiamo – volutamente ignorato. Di quei giovani uno, Carlo Stuparich, andato volontario in guerra in nome di Trieste italiana con la consapevolezza di poter fare la fine di Cesare Battisti, fece invece quella di altri 600.000 poveri fanti: fu ucciso al fronte, comodo simbolo, per l’Italia fascista e nazionalista, dell’irredentismo riscattato con la vittoria. Gli altri furono pressoché inevitabilmente – e non tutti consapevolmente – impegnati nell’improbo compito di svelare agli italiani il mondo culturale contro il quale era stata ottenuta quella vittoria: poeti (Marin), narratori (Cergoly), saggisti (Giani Stuparich), ma soprattutto consulenti editoriali (Bazlen) e traduttori (Pocar, Rocca e Spaini).
Heine, Kleist, Hofmannstahl, Keller, Kafka e Mann, Trakl e Rilke, Stefan George, Arnold Zweig, Stefan Zweig, Musil, Joseph Roth…; ma l’elenco degli autori che tramite loro sono entrati in modo stabile nella nostra cultura è troppo lungo per essere esaurito qui. Si tratta di autori che agli occhi dei lettori di buona volontà hanno preservato la cultura tedesca dalla condanna senza appello in cui sono incorsi, con le efferatezze del nazismo, la Germania politica e il suo popolo in armi (compreso, dal 1938 in poi, quello austriaco), rendendola feconda di stimoli e di aperture intellettuali per le generazioni future e contribuendo senz’altro, sia pure in subordine alle motivazioni geopolitiche, in modo decisivo alla rapida riammissione dei tedeschi nel consesso europeo.
Soprattutto grazie al lavoro di Magris, l’importanza della presenza delle loro opere in italiano è data per acquisita e scontata, e non ci si è mai chiesto, se non occasionalmente e con esiti tutto sommato frustranti (il Bazlen cercato da Daniele Del Giudice in Lo stadio di Wimbledon), chi erano costoro, da dove venivano, che fardello avessero sulle spalle. Forse si può rimproverare a Lunzer un eccesso di apprezzamento verso i meriti dell’aquila bicipite. Però questo libro, passato pressoché inosservato, ci rivela le frequentazioni, le amicizie, gli studi, gli ideali di quei giovani: esperienze abbastanza simili tra loro, ma non identiche. Senza l’assorbimento del tedesco nelle scuole asburgiche, quale lingua madre al pari dell’italiano, essi non avrebbero mai potuto svolgere questo ruolo fondamentale per la cultura italiana del Novecento. Ma ci rivela soprattutto il dramma, che tutti loro hanno vissuto, dello spaesamento cui sopra si accennava. Di cui è punta estrema la vera e propria tragedia di Enrico Rocca, irredentista così entusiasta da abbracciare nazionalismo prima e fascismo poi, da slanciarsi volontario in guerra restando ferito, per poi scoprire precocemente la verità sul regime e soprattutto sulla sua politica sopraffattrice delle minoranze di frontiera e soffrirne fino a scegliere, nel 1944, il suicidio.
Dal quadro offertoci da Lunzer, l’occhio della quale non può che essere “austriaco”, si può partire per scavare più a fondo su un coté importante della cultura italiana del Novecento.