di Barbara Ivančić
Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre. Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 270, € 24,00
Molto è stato scritto sul genio di Karl Kraus e sulla sua penna polemica e sferzante, capace di smascherare i risvolti più meschini e ipocriti dell’umanità. Irene Fantappiè ha studiato e analizzato i tratti di quella penna, introducendoci nell’officina della scrittura krausiana. L’immagine dell’officina qui è più che mai calzante, perché la produzione di Kraus si basa in larga parte su un lavoro di smontaggio e rimontaggio testuale. Fantappiè lo illustra sull’esempio di due opere pressappoco contemporanee nella produzione krausiana, Theater der Dichtung e Die letzten Tage der Menschheit, che hanno avuto una ricezione molto diversa da parte della critica – quasi ignorata la prima, molto citata la seconda -, ma che appaiono entrambe fondamentali per cogliere l’essenza della poetica di Kraus. Poetica che si può riassumere nelle tre parole chiave che fungono da sottotitolo del lavoro di Fantappiè e che rimandano rispettivamente alle tre parti in cui il libro è suddiviso: Recitare, Citare e Tradurre.
Si tratta di tre procedimenti espressivi che la studiosa esamina, sia singolarmente sia nel loro interagire, e che mette in relazione con un altro concetto cardine della produzione krausiana, vale a dire l’intertestualità. Kraus parte infatti sempre da testi di altri autori – tra cui Nestroy, Offenbach, Hauptmann, Goethe e, soprattutto, Shakespeare -, decostruendoli e ritagliandoli, per poi inserire i frammenti selezionati in una cornice nuova, in cui li mescola e intreccia con testi propri. A questa tecnica, che ben si riassume nel binomio «forbici e colla» (p. 230), si aggiunge – soprattutto in una prima fase della sua scrittura, che va grossomodo dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti dello scorso secolo – lo strumento della voce, cui spetta un ruolo centrale nella ri-elaborazione e ri-creazione testuale. Da qui il concetto di teatro basato sulla lettura scenica, la re-citazione: il Theater der Dichtung appunto, come lo denomina Kraus nel 1925, intitolando così l’ampio progetto di letture, riscritture e traduzioni cui si era dedicato negli anni precedenti. Il termine Dichtung rimanda tanto al processo quanto al risultato di quel lavoro di scomposizione, selezione e ri-tessitura su cui si basa l’opera; in questo senso, il traducente italiano “teatro della poesia” ne coglie solo parzialmente la natura, perché annulla il momento azionale veicolato dal nome d’azione.
Mentre tali tecniche sono state studiate in merito al Kraus scrittore, soprattutto per quel che riguarda Die letzten Tage der Menschheit e la famosa rivista «Die Fackel», basata, in larga parte, su operazioni di ritaglio e citazione, poca attenzione è stata dedicata all’uso che egli ne ha fatto nel processo traduttivo. Fantappiè si dedica invece anche e soprattutto a questo aspetto, dimostrando quanto le forbici e la colla – ma forse vi si potrebbe e dovrebbe aggiungere la voce – fossero allo stesso tempo anche gli strumenti principali del Kraus traduttore. Basti ricordare le sue famose traduzioni di Shakespeare, che traggono origine dalle traduzioni schlegeliane che Kraus rivedeva e reinterpretava con l’uso della propria voce e della propria penna. In questo senso la traduzione viene spesso a coincidere con la citazione, proprio come la citazione è anche traduzione.
Come ricorda Fantappiè, alla base di questa concezione del tradurre c’era il desiderio di ritrovare «lo Ursprung [origine] di un testo e di un mondo che Kraus sente essere irrimediabilmente perduto» (p. 229), e in questo senso la studiosa ne mette bene in evidenza il carattere moderno e innovativo: la traduzione, e con essa la citazione, sono da intendersi letteralmente come spostamenti, come trans-lationes temporali e spaziali, che in quanto tali presuppongono e stimolano quel processo di manipolazione e di rewriting che decenni dopo sarebbe diventato il nucleo centrale dei translation studies. Il bel libro di Fantappiè ha quindi (anche) il merito di far emergere appieno il Kraus rewriter, sia quando autore sia quando traduttore, e di far così cogliere il ruolo del rewriting nella storia della traduzione e in quella dei rispettivi sistemi letterari. E che non si tratti di mera riproduzione o addirittura di trascrizione, bensì di forme ibride di autorialità in cui la riscrittura equivale alla creazione di Frei-Räume, di spazi in cui è possibile muoversi e respirare liberamente, e dunque creare testi nuovi, lo dimostra anche la breve ma interessante rassegna con cui il volume si conclude, in cui la studiosa si sofferma su testi di autori che presentano forme di autorialità e principi compositivi vicini a quelli krausiani, tra cui Benjamin, Flaubert, Enzensberger, Borges.