di Damiano Latella
A proposito di: Nancy De Benedetto, Contro giganti e altri mulini. Le traduzioni italiane del “Don Quijote”, Lecce, Pensa Multimedia, 2017, pp. 200, € 32,00
Nel 2016 il mondo ha celebrato i quattrocento anni dalla morte di uno dei padri del romanzo moderno, Miguel de Cervantes. Cosa è accaduto in Italia al suo capolavoro in questi quattro secoli, dal punto di vista traduttivo? Nancy De Benedetto ha colto l’occasione per ripercorrere la fortuna italiana del Don Chisciotte, concentrandosi sul rapporto tra alcune delle traduzioni più significative fra Ottocento e Novecento e la rispettiva epoca letteraria. Un viaggio decisamente più breve di quanto sarebbe lecito aspettarsi, dato che fino al 1949 le versioni integrali (affiancate, peraltro, da un numero assai cospicuo di riduzioni e adattamenti) si contano sulle dita di una mano e non sono distribuite a cadenza regolare.
L’ingegnoso Cittadino Don Chisciotte della Mancia. Composto da Michele di Cervantes Saavedra. Reca questo titolo la prima versione italiana del 1622, tradotta da Lorenzo Franciosini, contemporaneo di Cervantes, linguista e lessicografo fiorentino. Si badi alla provenienza, perché da Franciosini nasce una duratura tradizione traduttiva che assocerà il lugar de la Mancha… alla Toscana. L’indiscutibile prestigio linguistico di Firenze connota il romanzo fin dal primo sostantivo. «In una Terra della Mancia» scrive Franciosini, che si rifà con quel “Terra” all’antico significato di “città” quale appare in Dante e in Boccaccio. E quindi anche l’hidalgo diventa cittadino. Una scelta certo infelice rispetto all’originale e ai piccoli villaggi sparsi per la meseta, ma se non altro coerente all’interno del modello di italiano scelto dal traduttore. I problemi nascono quando, dopo due secoli in cui i pregiudizi dei letterati italiani alimentano una scarsa considerazione per le opere provenienti dalla Spagna, e di conseguenza non sono necessarie altre edizioni, si giunge nel 1818 alla versione di Bartolomeo Gamba, nativo di Bassano del Grappa.
Sui rapporti tra Gamba e la Spagna non sappiamo quasi nulla. Conosciamo, invece, il clima culturale in cui si muoveva: l’editoria veneziana e il finire del neoclassicismo, con un relativo ritorno all’ordine, se comparato agli eccessi barocchi. Dal confronto con Franciosini, De Benedetto ricava molte considerazioni rivelatrici. In primo luogo, non si riscontra un influsso delle traduzioni francesi allora circolanti (c’è di che gioire, visto che si annoverano tra le belles infidèles). Poi emergono le differenze tra gli usi letterari dei due secoli. Se nel Seicento Franciosini «non traduce quel che gli sembra superfluo» (p. 40), nell’Ottocento Gamba non può più permettersi di lasciare inalterati molti nomi parlanti, o di italianizzare foneticamente i toponimi con risultati talora tragicomici per le nostre orecchie (l’Azoguejo che ancora oggi dà il nome a una piazza di Segovia diventa per il traduttore toscano un temibile Azzoghescio…). Ma soprattutto, la sintassi dell’italiano si è molto semplificata e ha reso antiquate certe amplificazioni. Il grande merito del veneto è stato quello di modernizzare l’andamento dei periodi, riavvicinandosi alla struttura di Cervantes. Tuttavia, non si può dire altrettanto del lessico. A duecento anni di distanza, l’hidalgo resta suo malgrado cittadino di una terra della Mancia, con tutti gli anacronistici spostamenti di senso derivanti dai citoyens della Rivoluzione Francese. Perché Gamba, geograficamente estraneo alla tradizione fiorentina, insiste con un certo numero di arcaismi toscaneggianti per così dire già arcaici nel 1622? De Benedetto sostiene che in origine, più che una nuova traduzione, si volesse pubblicare una revisione del lavoro di Franciosini, e vanno in questo senso i numerosi esempi in cui si conservano significati rari ben poco ottocenteschi e a tratti fuori contesto. Si tratta di una tesi senza dubbio interessante e meritevole di approfondimento, pur tenendo conto dell’incognita legata al grado di conoscenza dello spagnolo dei due traduttori e agli strumenti a loro disposizione.
Fino a tutto il XIX secolo si susseguono revisioni e riduzioni anche di ampia diffusione, ma nessuna nuova versione integrale, fino all’arrivo di quattro ispanisti che nell’arco di una trentina d’anni traducono il Don Chisciotte per quattro editori diversi. Sono Alfredo Giannini (Sansoni, 1923-27, nella «Biblioteca sansoniana straniera»), Ferdinando Carlesi (Mondadori, 1933, nella «Biblioteca Romantica»), Gherardo Marone (UTET, 1954, «I grandi scrittori stranieri») e, infine, Vittorio Bodini per i «Millenni» Einaudi nel 1957. Con l’eccezione di quella di Marone, comunque giunta fino agli anni novanta, sono tutte traduzioni attualmente disponibili, il che dimostra una longevità davvero non comune nel panorama editoriale. De Benedetto si allontana dall’asse puramente diacronico e individua due tendenze, che uniscono da un lato Giannini e Marone, con edizioni annotate e commentate come si addice a un classico visto come oggetto di studio, e dall’altro Carlesi e Bodini, in cui prevale l’intento di togliere la patina antica al capolavoro cervantino per renderlo fruibile a un pubblico più largo. Su tutti, però, si stende l’ombra per certi versi svantaggiosa di Benedetto Croce, che con la cultura spagnola intrattenne un rapporto profondo e ricco di contrasti. Nel ricostruire la comune formazione culturale di quegli anni, le opposizioni si stemperano. Perfino Bodini, il più giovane dei quattro, avverte l’esigenza di ritornare sulle posizioni crociane ancora nel 1966, sebbene con un altro sguardo, come risulta dal suo contributo inedito destinato a Radio Rai riportato in appendice. Tuttavia, ogni versione conserva il proprio carattere: Giannini cerca una lingua aulica, Carlesi tende ad allontanarsi dalla lettera (il punto di contatto è che entrambi sono toscani!), mentre Marone risente della lunga gestazione della sua opera, più che decennale, producendo una versione già “vecchia” in certe scelte sintattiche e morfologiche. Bodini si distacca optando per un tono meno letterario e meno colto, come si evince dall’estensione del “lei” di cortesia in luogo del tradizionale “voi”, ma con un recupero dell’aspetto ritmico.
Il volume si chiude con una brevissima rassegna che arriva fino ai giorni nostri. Occorrerebbe un altro saggio per ripercorrere le lunghe serie di riduzioni e adattamenti che hanno reso popolare il Chisciotte in Italia, con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi (si trovano tutte catalogate in appendice). Dalle poche pagine riservate all’ultima traduzione apparsa in una collana prestigiosa, quella del 2012 per «I classici della letteratura europea» di Bompiani (testo a fronte a cura di Francisco Rico, traduzione di Angelo Valastro Canale), pare di capire che certi problemi persistano nei secoli. Anche se De Benedetto ammette di non averla letta integralmente, bastano poche righe dell’incipit per accorgersi del riaffiorare di forme desuete (il galgo corredor resta “galgo” anche in italiano, quando già Bodini aveva preferito “levriero da caccia”) e di note senza rapporto col testo tradotto ma solo con l’originale.
La strada per la traduzione di riferimento del nuovo millennio sembra ancora lunga, ma l’attenta osservazione dei precedenti contenuta in questo saggio offre spunti di riflessione, che torneranno utili a coloro che vorranno donare all’hidalgo, al fedele Sancho e ai mulini a vento un quinto secolo di esistenza.