di Piernicola D’Ortona
A proposito di: Valerio Magrelli, La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico, Bologna, il Mulino, 2018, pp. 218, € 20,00
Nel 1969 Vladimir Nabokov pubblicò una singolare opera intitolata Poems and Problems, in cui a una prima parte dedicata all’esposizione di diciotto problemi di scacchi seguivano trentanove poesie composte in russo e autotradotte in inglese, più altre quattordici scritte nella lingua adottiva. Valerio Magrelli – poeta, studioso di letteratura francese e traduttore – rende omaggio a questa struttura bipartita dividendo il suo saggio in una prima parte d’impianto teorico e in una seconda che prende in esame casi concreti, “esercizi” che si concentrano su particolari tipologie linguistiche (acrostici, rime, metro, indovinelli, calligrammi, sottotitoli).
Non è certo casuale il riferimento agli scacchi, al carattere combinatorio del testo: se un fil rouge si può individuare nella ricchissima – quasi enciclopedica – ricognizione di Magrelli, è la concezione del tradurre come di un atto esegetico che deve creare le proprie regole, attraverso decisioni, scelte coerenti e il più possibile meditate (anche quando – ed è qui un bel paradosso – si rivelano erronee). E la metafora del gioco ha una sua lunga storia nella riflessione teorica sulla traduzione: «Il processo di traduzione ha la forma di un gioco a informazione completa», come ricorda l’autore a p. 187, citando il Jiři Levý di Translation as a Decision Process (1967) «un gioco in cui ogni mossa successiva è influenzata dalla conoscenza delle decisioni precedenti e della situazione che ne è risultata (il gioco degli scacchi, ma non le carte)».
Facendo un passo indietro, vale la pena di sottolineare la premessa teorica da cui muovono le riflessioni di Magrelli: la suggestione di partenza è che tradurre sia un atto di «ri-memorazione». Da qui il titolo del primo capitolo, Dimenticanze, nel quale i riferimenti alla neurologia (per esempio gli studi di Aleksandr Romanovič Lurija su ipermnesia e logolesi) s’intrecciano agli echi di una ricca tradizione umanistica sull’arte della memoria e l’oblio (primo fra tutti Harald Weinrich). Tutto ciò accompagna il lettore alla scoperta di un’altra metafora che si attaglia – quasi in senso fisico – all’atto del tradurre: «la punta della lingua» («l’altare su cui viene officiato il segreto della traduzione», p. 74). Il nome sulla punta della lingua è oltretutto il titolo di un’opera di Pascal Quignard (Le nom sur le bout de la langue, 1993) di cui Magrelli offre una suggestiva lettura, interpretando l’espressione come immagine della ricerca linguistica connaturata al tradurre, una ricerca che si carica di connotazioni venatorie (la «punta» si può leggere anche come quella del cane da caccia, sulle tracce di quella «parola braccata» che dà il titolo al saggio). «Tutti i nomi sono sulla punta della lingua», scrive Quignard nella traduzione di Luisa Collodi riportata da Magrelli. «L’arte è saperli convocare quando occorre, e per una causa che ne rivivifichi i corpi minuscoli e neri […] La mano che scrive è una mano che cerca a tastoni il linguaggio mancante, che brancola verso il linguaggio superstite, che si indispettisce, si irrita, lo mendica con la punta delle dita» (p. 48). Commenta Magrelli:
Il testo mette a fuoco molto bene l’impressione di attesa che precede «l’agnizione» del termine smarrito, quasi si trattasse di un autentico, drammatico riconoscimento identitario – ciò che Weinrich definisce anagnorisis, «come si chiama nella storia della letteratura quel felice evento, a partire dalla cicatrice di Odisseo» (p. 54).
Ma la dimenticanza pare essere lo strumento programmatico, la condizione ineludibile per l’accesso alla parola: ci si muove da una condizione “prelinguistica”, magmatica, dimentica di grammatiche e dizionari, per sua stessa natura “anagrammatica”. Di qui il tema del secondo capitolo, intitolato appunto Anagrammi. Un discorso assai complesso, che Magrelli affronta rifacendosi alle riflessioni, tra gli altri, del sinologo Jean François Billeter e del filosofo Douglas R. Hofstadter. Quest’ultimo, in particolare, si concentra su quello stadio immediatamente precedente l’elaborazione di un anagramma, quel «periodo di transizione» fra la scomposizione della parola e il suo rimescolamento, che potenzialmente è in grado di fornire preziose informazioni su quanto avviene durante il processo creativo.
La seconda parte del saggio, Poemi, illustra – soprattutto attraverso “traduzioni estreme”, per riprendere una formula di Franco Nasi – come combinatorietà, pratiche ludiche e quegli aggregati sfarfallanti che Douglas pone alla base del pensiero creativo si traducano in una varietà potenzialmente infinita di versioni. È in sostanza quello che Magrelli definisce con un’altra metafora «l’effetto delta»: una molteplicità di soluzioni, che si oppone all’assunto che esista una soluzione giusta, a estuario. Ovvio, più forti sono le contraintes poste dal testo di partenza (come, per esempio, nel caso di acrostico e indovinello) meno numerose risulteranno le soluzioni possibili.
Ma che dire nel caso di un sonetto di Baudelaire in alessandrini rimati come Recueillement? Come trasporre il verso francese nella metrica italiana? Le soluzioni naturalmente sono plurime (Magrelli, oltre a prenderne in esame diverse già pubblicate – come quelle di Luigi de Nardis e Gesualdo Bufalino – ne propone anche altre) e ciascuna toglie qualcosa, restituendo un particolare aspetto del testo: «Vedremo infatti nascere, da una stessa composizione, vari suoi rami, vari discendenti, vari eredi (potremmo aggiungere) che ambiscono alla conquista dell’unico trono. Ma chi di loro avrà il diritto di subentrare al re? Chi di loro è il bastardo, l’impostore? (p. 144).»
Compito del traduttore sarà scegliere un elemento dell’organismo testuale cui attribuire valore di dominante, una funzione da prediligere rispetto alle altre:
Scegliere a cosa essere fedeli significa, al contempo, decidere a cosa non esserlo […] la fedeltà a un criterio compositivo implica sempre almeno una infedeltà verso qualsiasi altro. Ovvero, tradurre vuol dire riorganizzare il testo in base a un ristretto numero di priorità, rassegnandosi a una perdita insieme deontologica e ontologica (p. 159).
Tra gli esempi presi in esame, uno dei più suggestivi è la traduzione a quattro mani di un componimento del poeta arabo dell’anno Mille, Ibn At-Tûbî, in cui le lettere lam e nun assumono valore iconico, cioè raffigurano visivamente i tratti del viso dell’amata. La soluzione che hanno adottato Magrelli e Francesca Corrao (p. 180) brilla per delicatezza e intelligenza.
In conclusione, la via del tradurre è lastricata di decisioni, sembra suggerire Magrelli, scegliendo come nume tutelare Ercole al bivio: «un semidio spiccatamente portato alle “fatiche”» (p. 205).