La recensione / 6 – Come la merce libro è stata prodotta da settant’anni in qua e qual è il suo mercato

di Gianfranco Petrillo

A proposito di: Gabriele Turi, Libri e lettori nell’Italia repubblicana. Roma, Carocci, 2018, pp. 154, € 14,00

Gabriele Turi è uno dei padri fondatori della tardiva ma ormai abbastanza agguerrita storia dell’editoria in Italia. Docente di storia contemporanea a Firenze, direttore della rivista «Passato e presente», autore di Casa Einaudi (Bologna, Il Mulino, 1990) e curatore, con Iolanda Palazzolo, di una pionieristica Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea (Firenze, Giunti, 1997), ha fondato nel 1995 e diretto per tutta la sua esistenza, fino al 2013, una piccola ma sostanziosa e preziosa rivista, «La Fabbrica del libro», che si può ancora trovare on line nel sito della Fondazione Mondadori (http://www.fondazionemondadori.it/cms/culturaeditoriale/195). Questo suo nuovo contributo costituisce – direi: finalmente – una decisiva svolta nella materia. Le vicende della produzione libraria italiana vengono spogliate dell’aura idealistica della storia delle idee e della letteratura – in cui, per solito (con le debite eccezioni), sono rimaste avvolte finora – e lette come un aspetto della storia sociale ed economica, come Turi avverte fin dall’Introduzione (p. 9). Ma questa innovativa visione soffre degli stessi limiti pressoché inevitabili che hanno contribuito a quel prevalente tipo di lettura: la scarsità di archivi di case editrici, l’assenza spesso voluta di documentazione amministrativa e contabile in quelli esistenti, la povertà delle ricerche settoriali e locali, così come l’assenza, in Italia, di modelli e tipologie sociologiche dell’editore e del lettore, impediscono tuttora di andare a fondo negli aspetti industriali e commerciali di questa branca dell’economia (minore? non poi tanto, se all’epoca del boom a Milano il settore editoriale era secondo per crescita solo a quello delle costruzioni – p. 38) e consentono di affrontare solo per assaggi quelli sociali. È molto difficile stabilire la redditività dei libri, per esempio, sia per gli editori che per gli autori. E altrettanto difficile è descrivere l’autentico impatto che essi hanno sulla società.

La prima preoccupazione di Turi è quella di alzare lo sguardo dalla produzione letteraria, alla quale per solito si limita l’attenzione degli osservatori esterni e degli studiosi, per tenere in considerazione l’intero panorama dellindustria del libro. Ne sortisce, in primo luogo, la cura per la distinzione tra le diverse sue branche, di cui quella letteraria (narrativa e, irrilevante, poesia), sia pure prevalente, è solo una. Considerare che esistono la scolastica, la saggistica, la varia, l’editoria religiosa ecc. permette di superare, pur non smentendole, le convenzionali etichettature delle case editrici e della loro produzione in termini di critica letteraria e di ideologia. La caratteristica principale dell’editoria italiana è quella di essere geograficamente policentrica. I centri principali sono Milano, Torino, Firenze, Venezia, Bologna, Roma, Bari. Essi però non possono essere classificati in base alle propensioni ideali prevalenti (tra anni quaranta e anni settanta, secondo Eugenio Garin, un Sud crociano, una Firenze “azionista”, un Nord marxista). Piuttosto esistono tendenze locali alla specializzazione: una Milano prevalentemente letteraria (ma con i giganti Mondadori e, oggi, GEMS generalisti), una Torino saggistica e scolastica come Bologna e Firenze, una Bari saggistica (p. 50). È un primo tentativo, non del tutto convincente, da verificare e approfondire. E poi c’è il grande mare della piccola editoria, caratteristica tutta italiana, con un ruolo locale spesso di grande rilievo. Le specializzazioni locali possono apparire sorprendenti. Brescia, per esempio, può essere considerata una vera e propria capitale dell’editoria cattolica, con la presenza di case editrici di tutto rilievo per dimensioni e, soprattutto, importanza culturale, come Morcelliana, La Scuola e Queriniana: una caratterizzazione locale a cui non è stata estranea una personalità dello spessore di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI. Ma l’editoria cattolica è fortemente presente anche a Bologna, Torino, Roma e in altri centri. Le pubblicazioni religiose, con il 7,7 per cento, sono, per numero di titoli, seconde solo alla narrativa (22,2%), ma occorre ricordare che a contribuire alla loro forza sta lenorme diffusione dei messali (di cui è monopolista Marietti di Torino, che lo era nel mondo finché è durata la liturgia in latino) e di altre pubblicazioni devozionali. L’importanza dell’editoria religiosa richiama la necessità di far rientrare dalla finestra le caratterizzazioni ideologiche, prestando l’opportuna attenzione all’editoria collegata alle ideologie e, finché è durato, al sistema dei partiti (pp. 55-73).

In poche pagine si addensa un’impressionante quantità di informazioni sia sull’editoria – che qui più ci interessa – che sul suo mercato, cioè i lettori. Questo, paradossalmente, va un po’ a scapito della chiarezza della lettura storica (pardon: diacronica), in quanto taluni eventi editoriali vengono menzionati in contesti storicamente (ossia socialmente, economicamente e culturalmente) diversi da quelli in cui si collocano cronologicamente, come è il caso dello straordinario successo dei libri di papa Francesco (p. 56) o dell’accostamento tra i conti fatti in tasca a Umberto Eco e ad Andrea Camilleri e quelli a Luigi Russo (p. 29). Ovviamente, le periodizzazioni – dopoguerra, miracolo economico, espansione commerciale degli anni settanta, crisi successive con conseguenti processi di concentrazione da un lato e di frammentazione dall’altro – sono tutte tenute in debito conto, ma dal punto di vista interpretativo si ha la sensazione di una certa oscillazione tra un asse classificatorio e uno più tradizionalmente storico.

Un libro innovativo e utilissimo, dunque. Tuttavia, da questo peculiare posto d’osservazione, è d’obbligo esprimere, sia pure con rammarico, una ormai consueta doglianza. Alle traduzioni sono espressamente dedicate le pagine 31-33. Di rilievo sono le modificazioni intervenute nella ragguardevole incidenza dei titoli tradotti sul numero complessivo di quelli pubblicati annualmente: il forte aumento dal 13,4 per cento nel 1955 al 20 per cento negli anni ottanta e il susseguente calo al 17,6 per cento nel 2015, dovuto a motivi esclusivamente economici, cioè all’aumento del costo dei diritti a livello internazionale e ai tempi sempre più stretti richiesti dalla lavorazione. Questa diminuzione non impedisce tuttavia all’Italia di restare ai primi posti tra i grandi paesi avanzati in fatto di traduzioni pubblicate. L’assenza di dati, scrupolosamente coltivata dalle case editrici, circa l’incidenza dei libri tradotti sul fatturato è una lacuna gravissima non certo imputabile all’Autore ed è questione che rientra a buon diritto tra i punti da sottoporre all’attenzione che gli storici dell’impresa dovrebbero cominciare a dedicare all’editoria, inducendo anche le case editrici a una maggiore trasparenza. La sottolineatura dell’«importanza della figura del traduttore» (p. 31) è però purtroppo smentita in tutto il libro dal consueto sistematico silenzio sul nome degli autori delle traduzioni citate, pari al silenzio altrettanto scrupolosamente voluto e coltivato dalle case editrici, tranne per i casi divistici che da un po’ di tempo in qua compaiono talora nei media. Delude poi la ripetizione acritica del solito luogo comune sul “decennio delle traduzioni”, gli anni trenta, imperniato sull’altrettanto divistico (e mal assortito, a guardarlo da vicino) binomio Pavese-Vittorini (p. 32), che ignora totalmente quanto in questi ultimi anni è stato messo in luce – grazie, in primo luogo, proprio alla «Fabbrica del libro», ma poi anche, mi si consenta, a questa rivista – circa il ruolo svolto, tanto per fare qualche nome, da case editrici come Modernissima, Corbaccio, Slavia, Sperling & Kupfer, la stessa Mondadori; da collane come «Biblioteca romantica», «Il genio russo», «Narratori nordici», «Biblioteca europea», la stessa «Medusa»; da traduttori/editori come Gian Dàuli, Giuseppe Antonio Borgese, Alfredo Polledro, Franco Antonicelli, Lavinia Mazzucchetti, Enrico Piceni, Giacomo Prampolini, Leone Ginzburg… E fin qui si parla, come al solito, della sola letteratura. Ma se, come è nelle manifeste intenzioni di Turi, si tiene conto anche della saggistica, dove il ruolo del traduttore è stato assolutamente  fondamentale (e accuratamente nascosto da editori e media), soprattutto nel corso dei decenni sessanta-settanta, oh, allora è un abisso che si spalanca.

Questo appunto era doveroso. Certo, lo spazio ristretto era tiranno, per una storia così ampia. C’è una piccola e divertente svista, a pagina 28, dove Vitaliano Brancati figura autore di Il gatto con gli stivali invece che di Il vecchio con gli stivali. Auguriamo di tutto cuore a questo libro una più ampia e profonda seconda edizione, in cui la correzione di questa comprensibile distrazione possa essere una minuscola tappa sulla promettente strada imboccata da questa prima.