di Gianfranco Petrillo
A proposito di: Elisabetta Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani. Sintonia spirituale e comune cultura europea nei carteggi (1920-1955), Roma, Artemide, 2016, pp. 217, € 25,00
La figura di Thomas Mann, così familiare ai lettori italiani della seconda metà del Novecento, da un paio di decenni e forse più viene come a sfumare in dissolvenza, soverchiata dall’attenzione agli autori e alle autrici di lingua inglese e postcoloniali. Questo lento tramonto accompagna così il travaglio che attualmente sta vivendo non tanto l’Unione europea, quanto l’idea stessa di un’Europa unita, dopo secoli e secoli di sanguinosissimi conflitti, da un comune sostrato culturale e da un comune destino di solidarietà. Nessun autore ha interpretato meglio di Mann il travaglio che, attraverso due orrende guerre, ha portato la vecchia Europa a imboccare finalmente la via della pace e della concordia, fondata non solo su interessi comuni ma anche, e soprattutto, su valori comuni, intrisi di umanesimo. E forse in nessun paese più che in Italia la sua parola ha toccato da vicino il cuore di lettori fatti avvertiti, quanto e più di quelli tedeschi, da quelle tragedie e tra i più entusiastici assertori dell’unità europea: «Abbiamo avuto soltanto dei maestri di conoscenza e qualche verità da scoprire. Thomas Mann è stato uno di questi e dei più essenziali – scriveva Eugenio Scalfari nel 1986 (La sera andavamo in via Veneto, Mondadori, p. 68) – Ci ha indicato la vacuità dei confini politici e la bruttura dei confini razziali. La forza imbattibile delle convinzioni morali. L’ineffabilità della musica come espressione suprema dello spirito. La civiltà dei modi come tratto distintivo di democrazia e di rispetto degli altri. Tutto questo senza predicazioni né manifesti, ma attraverso racconti, personaggi, fantasia». Ora la crisi che l’unità europea sta attraversando, ancor prima che nella miope e insipiente lotta economica e politica, nella coscienza di una parte dei cittadini d’Europa, ben si riflette nel lento abbandono del magistero manniano.
Si direbbe quindi un’iniziativa di preterintenzionale tempestività, la pubblicazione di questo documentatissimo libro sui rapporti intercorsi tra il grande scrittore tedesco e alcuni suoi sodali italiani, che, facendo seguito a Thomas Mann, un Don Chisciotte senza casa, di Massimo Bonifazio, rende benemerita la casa editrice Artemide verso quanti, come chi scrive, sentono che di quel magistero e dell’«umanesimo militante» di Mann si ha oggi bisogno più che mai. La principale tra i corrispondenti italiani del grande scrittore tedesco fu Lavinia Mazzucchetti, non la prima, ma certo la più assidua e attiva “contrabbandiera” degli scritti di Mann in Italia, divenuta poi sua grandissima amica. Su di lei, come abbiamo già documentato su “tradurre” nella primavera del 2015, esiste una fioritura di studi, che va comunque ulteriormente coltivata, ma che giustifica per ora la sua collocazione in secondo piano da parte di Mazzetti, la quale si concentra invece soprattutto su Enzo Ferrieri (pp. 11-24), su Arnoldo Mondadori (e dintorni) (pp. 25-124), su Giulio Einaudi (pp. 125-146) e su Umberto Campagnolo (pp. 147-217), fornendo una documentazione di prima mano molto allettante.
Enzo Ferrieri (1890-1969) è stato un grande animatore culturale. Negli anni venti creò a Milano una rivista e un circolo, «Il Convegno», che contraddicevano nei fatti il becero nazionalismo sia “strapaesano” che “novecentesco” che affiancava il fascismo, invitando a collaborare quanto di meglio, da Valéry a Rilke, facesse respirare alta poesia nell’Europa in procinto di essere soffocata dai totalitarismi. Mann non poteva mancare tra i suoi interlocutori, ma non venne a Milano: non per divieti autoritari né per esplicita (e ancora prematura) opposizione da parte sua al regime che si veniva instaurando, ma per naturale incompatibilità col clima politico italiano, come risulta appunto dalle sue lettere.
Se il nome di Enzo Ferrieri, come quello del suo amico e cofondatore del «Convegno» Carlo Linati, è noto almeno a chi coltiva le lettere, quello di Campagnolo lo è invece solo alla cerchia più ristretta di chi si occupa di storia del federalismo europeo. Filosofo, esule antifascista, docente universitario a Padova, assertore della cultura europea come «civiltà dell’universale», Campagnolo (1904-1976) fu nel 1950 il fondatore e primo segretario generale – non esente da critiche – della Société européenne de culture, con sede a Venezia, nonché primo direttore della sua rivista «Comprendre». Il suo carteggio con Mann, che fruttò ben quattro contributi dello scrittore tedesco alla rivista, testimonia la consonanza di visione della cultura comune europea come piattaforma per il superamento di storici e tragici motivi di conflitto, nel clima creato da quel Movimento federalista europeo fondato da Altiero Spinelli allora ai primi vagiti. È lo stesso clima che dettò a Thomas Mann la nobile Prefazione alle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (1954), accogliendo con entusiasmo la richiesta di Giulio Einaudi. Questi dovette superare una certa riluttanza dei curatori Giovanni Pirelli e Piero Malvezzi di fronte a quel nome, al quale Pirelli avrebbe preferito Sartre, più espressamente “di sinistra” e “impegnato”: salvo ricredersi a lettura avvenuta.
Ma la parte più corposa e senza dubbio più interessante del libro è quella dedicata ai rapporti di Mann con Arnoldo Mondadori, suo figlio Alberto e la loro casa editrice. Dico subito: ne emerge nettamente la figura di un grande imprenditore. Se sempre affascinante è leggere come Thomas Mann si atteggiava nei confronti del destino delle proprie opere e soprattutto ammirare come fosse ormai ben salda la barra sulla rotta del suo impegno umanista, è Mondadori il vero protagonista di queste pagine. Al centro del lungo rapporto, iniziato già negli anni trenta, sta la decisione mondadoriana, dopo la guerra, di pubblicare, primo editore straniero, di Mann l’Opera omnia (Mazzetti decide curiosamente che si tratta di un femminile plurale: le Opera omnia; fosse plurale, e quindi l’originale latino, sarebbe neutro, reso per consuetudine in italiano con il maschile; ma opera è ormai parola italiana, singolare femminile, anche in questa particolare accezione, cui si adegua l’aggettivo omnia). Decisione tutt’altro che facile, perché costosa e non di sicura resa economica. Mann accettò anche di rinunciare a un 1 per cento dei suoi diritti per permettere a Lavinia Mazzucchetti, curatrice dell’intera impresa, di percepire un «giustificato» 2 per cento, che «andrebbe però a pesare in modo considerevole sul nostro preventivo», spiegava Mondadori chiedendo allo scrittore questo sacrificio il 10 febbraio 1947, nei durissimi tempi della ricostruzione dell’economia italiana. «Con la realizzazione delle sue [sic nella traduzione mazzettiana di un originale che non viene pubblicato] Opera omnia non miriamo in alcun modo a un grosso successo finanziario, bensì, in primo luogo, alla realizzazione di un importante progetto culturale»: «La prego di voler interpretare la mia richiesta, dovuta unicamente alle difficoltà economiche, in modo corretto, tenendo conto dei fini che mi sono prefissati, e di accettarla nel senso di un contributo a un’opera culturale» (pp. 54-55). Non c’è né ipocrisia né nobile disinteresse culturale, qui: c’è lungimiranza imprenditoriale.
Nelle note con cui accompagna l’evolversi della pubblicazione delle opere di Mann presso Mondadori, Mazzetti dà opportunamente conto del numero di copie tirate di ciascun titolo la prima volta. Si tratta sempre – tranne nel caso del Doctor Faustus, d’altronde non eclatante- di cifre inferiori alle 3.000, irrisorie a fronte dell’impegno editoriale complessivo. Mondadori sapeva molto bene che cos’è un best seller: già prima della guerra sia Via col vento sia La grande pioggia avevano superato abbondantemente le 100.000 copie, e c’erano altri titoli che, pur senza arrivare a tanto, vendevano decine di migliaia di copie. Ma sapeva anche che la forza di un grande editore sta nel catalogo: nel far campeggiare a lungo fra i suoi titoli, cioè, alcuni grandi classici che continueranno a vendere ben al di là del primo impatto col pubblico e che “illuminano” e trainano gli altri. Aveva fatto questa scelta con D’Annunzio, con Verga, con Pirandello. Merito prima di tutto di Lavinia Mazzucchetti avergli proposto Thomas Mann, ma, afferma giustamente Mazzetti, «merito di Arnoldo Mondadori […] l’aver riconosciuto “l’umanesimo militante” dello scrittore» (p. 29). E la fortuna di Mann starà pure un po’ impallidendo, ma basta andare in libreria: le sue opere sono lì, e continuano a essere comprate.
Della lungimiranza di Mondadori attesta anche la creazione, per la realizzazione del progetto, di «un comitato esclusivo di traduttori specializzati che hanno la piena padronanza della lingua tedesca, essendo però nello stesso tempo dei letterati» (p. 54). Peccato che Mazzetti non abbia approfondito questo aspetto per noi di grande interesse. Come ci si mosse nei confronti dei precedenti traduttori di Mann? Lo scrittore si era dichiarato molto soddisfatto sia della Montagna incantata di Bice Sorteni Giachetti sia del Giuseppe di Gustavo Sacerdote, ma né l’una né l’altro compaiono nelle nuove edizioni. E quindi quel pool – oggi si chiamerebbe così – di traduttori da chi era formato? Proprio da coloro che risultano poi autori dei libri pubblicati? Ha resistito negli anni? Come si è proceduto nella scelta di che cosa affidare a chi? Eccetera: c’è spazio per un altro libro.
La maggior parte delle lettere (non tutte) vengono pubblicate sia in lingua originale straniera – tedesco, inglese, francese – sia in traduzione, e questo è un merito che apprezziamo molto. Ma purtroppo quegli originali, offerti (e anche questo è meritorio) in riproduzione diretta, che di per sé presentano perciò più di un problema di impaginazione, intercalano l’esposizione saggistica e, preceduti o seguiti come sono, senza un criterio uniforme, dalle rispettive traduzioni, creano ulteriore confusione nell’esposizione stessa, già di per sé non molto chiara a causa dei continui andirivieni cronologici, in questo caso aggravati dai continui andirivieni cui si è costretti per i raffronti testuali. Sarebbe stato opportuno forse presentare l’interessante corpus dei carteggi a sé stante, preceduto da un’introduzione che mettesse a fuoco le tre o quattro questioni fondamentali che così invece Mazzetti è costretta a ripetere a ogni nuova esposizione di un carteggio. A inficiare il merito del libro sta poi la grave assenza di un indice dei nomi. Infine l’incorrere in qualche svista, da cui nessuno va esente, è sempre degno di comprensione, ma qui alcune sono davvero clamorose, come per esempio l’involontaria trasformazione dei carnefici in vittime (p. 114: a Meina nel 1943 «era stato perpetrato il primo terribile massacro di truppe delle SS in Italia») o, a pagina 129, l’attribuzione di una nota introduttiva alla prima edizione delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi 1952) al futuro insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelski, allora novenne, il quale l’ha stesa, ovviamente, solo in occasione dell’edizione del cinquantennale, anno 2002. Naturalmente la collana «Proteo» in cui il libro compare è debitamente dotata di Comitato scientifico e di «referees anonimi», ci assicura il controfrontespizio: così almeno i valutatori accademici sono tranquilli.