di Gianfranco Petrillo
A proposito di: Edoardo Esposito, Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre, Roma, Donzelli, 2018, pp. 169, € 25,00
Chiunque ci abbia provato sa che non è cosa semplice entrare nel merito dei testi delle traduzioni e rilevarne modalità stilistiche e culturali. Farlo, poi, in sede storica, collocando le traduzioni nel contesto letterario di un’epoca, risulta per certi versi ancora più difficile. È quanto ha fatto invece Esposito con questo libro, densissimo ad onta del numero relativamente esiguo delle pagine, in merito alle traduzioni letterarie italiane nell’epoca alla quale troppo a lungo si è addebitata la colpa di una chiusura della cultura nostrana a ogni influenza straniera, dovuta all’oppressione totalitaria del fascismo. Al contrario, furono quelli gli anni di un’eccezionale fioritura di traduzioni e di attenzione alle letterature straniere, impensabile prima della cosiddetta “grande guerra”. Lo stesso Esposito ha a suo tempo contribuito a dimostrarlo, guidando la preziosa impresa del convegno milanese su Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, del 2003, gli atti del quale, da lui curati per Pensa Multimedia di Lecce, uscirono l’anno dopo accompagnati da un volume contenente un accurato spoglio delle «riviste di cultura» dell’epoca riguardo all’oggetto. «Tra le due guerre», «entre-deux.guerres»: Esposito evita volutamente di caratterizzare l’epoca identificandola col fascismo, proprio per spogliare la questione dei rapporti letterari da ogni interferenza ideologica e immediatamente politica, avvertibile sì – ovviamente – ma non in rapporto diretto e istituzionale col regime se non negli ultimissimi anni trenta.
Quell’altra coraggiosa impresa, lo spoglio delle riviste, è stata preziosa per Esposito soprattutto per mettere a fuoco, nel terzo capitolo di questo libro, Il dibattito teorico. È infatti la prima volta che si riconosce, negli articoli che le riviste vennero pubblicando, a cavallo tra fine anni venti e inizio trenta, in materia di traduzione e traduzioni, un vero e proprio dibattito organico che aveva per oggetto non tanto, come spesso si crede citandone qualche intervento sparsamente, le velleità censorie del regime (che pure esistevano), quanto l’intimo arrovellarsi degli eredi di una grande tradizione letteraria nazionale alle prese con la modernità di cui erano espressione le letterature straniere e ormai alle porte anche in Italia. È semmai opinabile assumere, come fa Esposito, quale campo d’indagine privilegiato la «Biblioteca romantica» ideata (e per qualche tempo diretta) da Giuseppe Antonio Borgese per Mondadori agli inizi degli anni trenta. Infatti, misurandosi essa con testi originali appartenenti a canoni “classici” delle principali letterature, quel rovello appare meno appariscente in quelle traduzioni, che poterono continuare ad affidarsi alla lingua letteraria della tradizione, di quanto non dovesse forse apparire (ma ci manca appunto un riscontro scientificamente accertato) nelle coeve collane di Gian Dàuli per Modernissima e Dall’Oglio o di Morreale, Monanni e Bietti, con minori pretese letterarie ma maggiore adattamento al flusso delle corrente (e lo stesso si potrebbe dire dell’altrettanto celebrata «Il genio russo» della Slavia di Alfredo Polledro). Ma è una discussione che si potrà riprendere efficacemente proprio perché c’è intanto questo primo coraggioso passo di Esposito, dal quale emerge per la prima volta, soprattutto nel capitolo quinto, Alla ricerca di un linguaggio, il rapporto esistente tra “stile” delle traduzioni e “stile” letterario delle opere autoctone. Qui il protagonista è Vittorini, l’autore al quale Esposito dà da tempo la massima attenzione e che effettivamente risulta per più versi significativo, con la sua ambizione di imprimere il proprio marchio, come ai propri scritti, così alle traduzioni, non solo le proprie ma anche quelle altrui di cui disponeva nel suo lavoro editoriale. E non tanto per narcisismo di autore, quanto per la missione di corifeo della lettura che si era assunto e che lo portava a privilegiare, sul rispetto ai testi, la leggibilità, la forza del racconto. A mio avviso Esposito non sottolinea abbastanza la cesura netta, anche rispetto alle censure e autocensure che il clima imposto dal regime richiedeva in precedenza a traduttori e editori, costituita dalle leggi censorie che, istituito il Minculpop, nel 1938 accompagnarono, nella stupida e supina adesione al modello nazista, la barbarie delle leggi razziste. Da qui nacque la «vicenda emblematica», esposta organicamente nel capitolo sesto, dell’antologia Americana di Vittorini, stravolta, per imposizione del regime all’editore Bompiani, dagli interventi di Emilio Cecchi, che qui figura come rappresentante dell’arroccamento antiamericano ed esterofobo del letterato italiano della generazione primonovecentesca. Il caso Montale, infine, la dice lunga sulla «infedeltà», sua come di Vittorini, al servizio della «genialità» artistica, di cui entrambi si sentivano portatori e che quindi gli permettevano di servirsi senza scrupoli (come anche Gadda) delle traduzioni «letterali» di Lucia Rodocanachi, perché – preciso io – era sull’italiano che lavoravano, per piegarlo al loro “genio”.
Discorso a parte meriterebbe il quarto capitolo, Nei territori della poesia, sia per le informazioni circa gli atteggiamenti teorici dei singoli traduttori menzionati, sia per le incursioni nella critica testuale, in cui l’autore profonde le sue competenze e soprattutto la sua sensibilità linguistica ed estetica. Ma a tanto non arrivano le competenze mie.
Complimenti a Esposito: questo libro ci voleva.