di Franco Nasi
A proposito di Francesco Laurenti, Tradurre. Storie, teorie, pratiche dall’antichità al XIX secolo, Roma, Armando, 2015, 272 pp., € 25
Le numerose e articolate teorie sul tradurre di questi ultimi decenni, quasi unanimemente, tendono a mettere al centro delle loro ricerche la descrizione dell’atto traduttivo. Inutile definire delle regole valide in generale; sembra invece essere più proficuo cercare di comprendere le norme che entrano in gioco in una particolare situazione traduttiva (editoriale, accademica, creativa ecc.) o in un determinato momento storico culturale. Così si guarderà alla possibile o presunta differenza fra traduzione, adattamento, imitazione, riscrittura, e da ultimo trans-creazione, con uno sguardo problematico e non definitorio, cercando di capire quali vincoli (testuali o extratestuali) intervengono nel processo traduttivo oppure quando in una particolare situazione una traduzione è accettabile o adeguata ecc. Non un approccio di tipo normativo o prescrittivo, dunque, ma descrittivo.
Proprio perché la definizione stessa di traduzione viene vista sempre più come un atto situato, che assume un significato diverso a seconda delle diverse culture e dei diversi momenti storici che una cultura attraversa, molti teorici hanno cominciato a dedicare alla storia della traduzione o alla “tradizione della traduzione” un’attenzione particolare. In tempi non recentissimi, a cavallo degli anni sessanta e settanta del Novecento, ma inserendosi in un filone di ricerche storiografiche radicato nella critica italiana, Mattioli e Folena avevano già indicato come fosse necessario definire il campo andando a recuperare storicamente le diverse declinazioni che il termine traduzione aveva assunto nel tempo. Una simile prospettiva è presente anche in opere canoniche degli studi sulla traduzione, da Apel a Berman a Venuti, che giungono a definire paradigmi epistemologici originali e oggi luoghi comuni, come il movimento del linguaggio o l’imperialismo traduttivo, ponendo al centro della loro argomentazione un excursus spesso molto approfondito della declinazione del termine traduzione in una stagione particolare della cultura occidentale, come il romanticismo tedesco nel caso di Apel e Berman, o la tradizione anglosassone nel caso di Venuti.
Questa attenzione alla storia della traduzione ha significato anche una maggiore attenzione alle figure dei traduttori, alla loro formazione, alla loro professione e, più in generale, alle loro biografie. Sono state intraprese opere monumentali come The Oxford History of Literary Translation in English (diretta da Peter France e Stuart Gillespie, usciti fino ad ora i primi quattro dei cinque volumi previsti) o la Histoire des traductions en langue française (diretta da Yves Chevrel e Jean-Yves Masson e prevista in quattro volumi, di cui tre ad oggi pubblicati dall’editore Verdier), che cercano di studiare l’impatto che le traduzioni di opere letterarie hanno avuto sulle letterature nazionali, sui vari generi (dalla letteratura popolare alla filosofia alla poesia) con indagini teoriche e storiografiche rigorose e feconde, che considerano temi come il copyright, la censura, l’editoria e le diverse figure di traduttori.
In questo panorama si inserisce ora questo lavoro ampio e, per certi versi, ambizioso di Francesco Laurenti, che compare nella collana «Hermes», diretta da Gianni Puglisi, dell’editore Armando di Roma (2015).
Il volume è diviso in quattro macro capitoli che scandiscono quattro millenni di storia della traduzione, dalle Origini del tradurre: Asia Minore, Antico Egitto e Grecia fino all’Ottocento. La partizione è cronologica e si articola in Antichità (dagli antichi egizi alla vulgata di Girolamo) , Età di mezzo (dalla nascita degli alfabeti gotico, armeno e cirillico, per fermare in lingue prive di scrittura la parola evangelica, alle versioni di testi astronomici e matematici del basso medioevo) , Età moderna (da Petrarca e Boccaccio al Settecento), Verso la contemporaneità (che si occupa del XIX secolo). A ciascuna partizione sono dedicate rispettivamente 22, 30, 138 e 46 pagine. Per quel che conta, si può notare già da questo semplice dato quantitativo che i quattrocento anni che vanno dai prodromi dell’Umanesimo al Settecento, sembrano coincidere con il periodo di massima vivacità della riflessione sul tradurre, o almeno a questo capitolo l’autore dedica il maggior numero di pagine. Il volume presenta poi un’ampia bibliografia e una introduzione. Mancano un indice dei nomi e un indice analitico. La loro assenza si nota con un certo disappunto, vista la natura del volume, che alcuni potranno certo leggere dalla prima all’ultima pagina come una bella narrazione in cui si incontrano personaggi familiari o del tutto inattesi, ma che per la sua natura di manuale verrà spesso utilizzato anche come testo di consultazione. Così, se si volesse andare subito al punto in cui ci si aspetta che venga trattato il pensiero di Raimondo Lullo o di Cervantes (cito due nomi a caso che qualcosa di non irrilevante hanno fatto e scritto sul nostro argomento) si sarebbe costretti a qualche ricerca individuale, con il dubbio poi, nel caso in cui queste informazioni non venissero trovate, che la colpa non sia dell’autore del manuale che ha escluso dalla sua ricostruzione questi autori, ma della nostra incapacità di sfogliare il libro.
Se Tradurre viene invece letto dalla prima all’ultima pagina, come una sorta di narrazione, condotti dall’oscillazione un po’ ipnotizzante del pendolo che sembra scandire la ricostruzione di Laurenti fra teorie preoccupate della “fedeltà” al testo fonte e altre concentrate sulla resa poeticamente riuscita del testo di arrivo, si incontreranno, come si diceva, numerosi autori canonici della riflessione sul tradurre, da Cicerone a Girolamo, da Huet a Schlegel, ma anche tanti altri spesso marginali o del tutto assenti nelle storie della traduzione. È il caso di Francesco Soave (1743-1806) traduttore in italiano nel 1800 del famoso trattato di Hugh Blair Lectures on Rhetoric and Belles Lettres, al quale fa seguire, in una nuova edizione del 1838, il saggio Sull’arte del tradurre in Istituzioni di Rettorica e di belle lettere tratte dalle lezione di Ugo Blair (Firenze, Ricordi e Compagno), ricco di brillanti riflessioni fra cui una relativa alla traduzione dei “difetti” del testo di partenza. Vale la pena, sulla scorta dell’utile trattazione e della indicazione bibliografica di Laurenti, riportare parte del passo che si trova alle pp. 268-269 del trattato di Soave:
Dirò cosa che saprà di strano a prima giunta, cioè dovere il traduttore fare intravvedere i difetti stessi dell’autore che egli traduce: perocchè formando questi una speciale qualità dello stile, col toglierli al tutto, si verrebbe ad alterarne il carattere. E in quella guisa che se tradurrai Cicerone, dovrai tenerti a quello sfoggio ch’egli fa di ornamenti, sì che a luogo a luogo ne trasparisca non ispiacevole ridondanza.[…] Né pensi alcuno essere cosa facile ricopiare ad arte i difetti altrui «che anzi non è piccola fatica (segue il Giordani) né poca arte richiede, chi voglia ritrarre una bruttezza per tal modo che sia riconosciuta, e non divenga intollerabile». Conciossiacché bene sta che il lettore intravveda i difetti dell’autore che tu traduci; ma starebbe assai male che intravvedesse i tuoi. E tuo difetto sarebbe se coll’industria tua non sapessi recargli quel diletto, che gli scemerebbe la poca diligenza, o la ricercatezza del tuo originale. Chi legge una traduzione vuol riconoscere qual è l’autore, e vuole che l’arte del traduttore glielo renda piacevole anche negli stessi difetti.
Un altro personaggio poco noto che Laurenti inserisce nel capitolo sull’Ottocento è Antonino Carrano, autore del pamphlet Della difficoltà e prestanza del tradurre, pubblicato a Reggio Calabria nel 1862, interessante sia per le cose che vengono dette sia, soprattutto, per la vis polemica e lo stile graffiante rivolto contro la «colluvie d’illetterati» che «scribacchia traduzioni in sì buon dato “che a numerarle impazzirebbe Archite”» (pp. 3-4 del trattatello di Carrano). Carrano, suggerisce Laurenti, si oppone alla moda che aveva caratterizzato le traduzioni in Italia a cavallo tra Sette e Ottocento, spesso artefatte, pretenziose e per questo ammuffite e senza vita; e lo fa con una verve retorica scoppiettante, che ricorda certe impennate di Gadda o Manganelli, e di cui val la pena riportare almeno un breve esempio, nel quale si parla, per inciso, anche dell’uso delle note in traduzione:
Corre pure specialissimo debito a chi traduce, che quando trovi scuro o inintelligibile l’originale testo, di allogare in piede o in fine dell’opera delle noterelle giustificative e acconce a chiarire il passaggio col soccorso di altri autori, ciò faccia sopra tutto nelle versioni scientifiche per intelligenza de’ tironi. Eviti l’egregio traduttore le voci mucide e vizze, le plebee e rugginose, i barbarismi, i neologismi, gli arcaismi, gl’idiotismi, i riboboli improprî, i solecismi, e scrupoleggi per non afforiestierare col testo, e snaturare le dizioni e guise di dire della favella, che sarebbe per lui grave scandalo, e non lieve detrimento alla nobilissima arte delle lettere. Nello scorcio dell’ultimo tramontato secolo, e nella prima metà di quello che diciamo nostro, qual miriade o fiume di traduzioni, segnatamente dal francese, non inondò da un capo all’altro l’Italia nostra? E se pure ne togli poche e ben condotte e di fisionomia italiana, non è il resto che sordido imbratto di gallicume e forestierume. Bugiarde traduzioni che avversano i fini supremi dell’arte, e formano la vergogna della nostra penisola (pp. 7-8).
Un passo che, se non altro, potrebbe suggerire con un inatteso «afforiestierare» un modo attestato per rendere in italiano quel foreignization, contrapposto da Venuti in poi alla strategia traduttiva addomesticante.
Il libro di Laurenti, ed è questo un evidente elemento positivo, sollecita dunque alcuni nuovi incontri, che si possono facilmente approfondire anche grazie alla disponibilità on line di questi testi altrimenti difficilmente reperibili, che permettono di ricostruire la storia di un’idea del tradurre in vari momenti e in varie culture. Sorprende tuttavia un poco che a certi autori, come ai due sopra citati, siano dedicate rispettivamente cinque e tre pagine, quando invece a figure determinanti per la storia della traduzione come Erasmo da Rotterdam o Goethe siano concesse invece una paginetta a testa. È evidente che la quantità non dice molto, e che forse la novità può indurre a indulgere sulla scoperta e a dare per scontata la conoscenza di autori capitali come quelli citati. E questo potrebbe essere assolutamente legittimo in un testo che avesse come obiettivo principale quello di esplorare nuovi percorsi, un po’ meno in uno che dichiara di tentare «se non proprio di ridisegnare, almeno di aggiungere qualche tessera al mosaico della genealogia di chi si è espresso in merito alla traduzione nel passato». Se l’aggiunta di qualche nuova tessera sembra essere stata felice, qualche giustificazione metodologica in più sarebbe stata opportuna per spiegare meglio certe scelte, inclusioni ed esclusioni comprese. Restando alla introduzione, che in un libro come questo è fondamentale per dichiarare al lettore le ragioni della ricerca e i metodi che si sono seguiti (a meno di non voler pensare che la storia sia unica e in quanto tale unica sia anche la sua narrazione), non si può non notare il giudizio piuttosto liquidatorio e sommario che viene rivolto ai non meglio definiti Translation Studies quando si legge:
Troppo spesso però la storia delle teorie della traduzione è stata ridotta, anche da coloro che ne riconoscono l’importanza nella genesi dell’odierna traduttologia, a un insieme confuso e frammentario di intuizioni sparse e riconducibili alla sfera empirica […]. La traduttologia più recente infatti, pur cercando nei modelli del passato la legittimazione della propria scientificità, non è ancora riuscita a carpire a fondo la stretta interconnessione che sussiste tra le intuizioni odierne e quelle di un passato che deve a tutt’oggi essere reinterpretato. Solo comprendendo il proprio passato la traduttologia potrà infatti immaginare un futuro per una disciplina che, come scienza, si sta definendo solo da qualche decennio. Certo, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, si è assistito a livello internazionale a un interesse crescente in questa direzione, ma gli studi generali al riguardo sono ancora troppo rari (p. 11).
A parte il tono eccessivamente assertorio e troppo semplicistico, le sommarie indicazioni bibliografiche date all’inizio di questa nota volevano proprio testimoniare come l’insistenza degli studi recenti sulla storia della traduzione, sulle figure del traduttore, sulla ricezione delle traduzioni nel mercato editoriale e sulla influenza che queste hanno avuto nel plasmare le diverse politiche letterarie delle varie culture dimostri che un cambiamento epistemologico importante c’è stato e che ha dato già frutti molto interessanti. Credo che pochi oggi sostengano che la traduzione è un fatto meramente linguistico. Una concezione degli studi sulla traduzione come attività interdisciplinare o transdisciplinare porta già di per sé a superare di slancio la sterile e ripetitiva, o «quasi ossessiva» come la definisce Laurenti, contrapposizione fra sostenitori della traduzione «fedele alla lettera» o «fedele allo spirito». E porta anche , sempre più spesso, da una parte a sondare con scrupolo le storie della traduzione proprie di una particolare cultura apparentemente marginale o periferica (penso ad esempio all’ottimo volume Between Cultures and Texts, recentemente apparso a cura di Antoine Chalvin, Anne Lange e Daniele Monticelli sulla storia della traduzione in Estonia per l’editore internazionale Peter Lang, 2011), ma anche alle aperture verso le culture extraeuropee come quella cinese o araba che hanno dato alla teoria della traduzione contributi importanti e non solo in tempi recenti (e non è un caso che Munday nella terza edizione del suo fortunato Introducing Translation Studies – Routledge, 2012 – abbia inserito nella sua breve storia della traduzione una parte proprio su Early Chinese and Arabic discourse on translation). Vero è che in un volume di 272 pagine non si può parlare di tutte le tradizioni sulla traduzione, ma sembra una facile giustificazione evitare il problema teorico scrivendo, come fa Laurenti: «L’approccio fondamentalmente eurocentrico rappresenta un aspetto dell’inevitabile parzialità di uno studio che chiedeva di essere condensato nello spazio di un volume» (p. 15). Con l’aggravante, se vogliamo, che questo eurocentrismo si riduce a seguire quasi esclusivamente le tradizioni francese, inglese, tedesca, italiana, con qualche rara apertura alla Spagna e, soprattutto nelle prime partizioni, a riferimenti al mondo arabo, egizio e slavo.
Apprezzabile lo sforzo di Laurenti, utilissime certe sue indicazioni e scoperte di autori poco noti, ma l’impianto generale del lavoro, nonostante le dichiarazioni introduttive, si mantiene all’interno di una storiografia (o di un modo di intendere gli studi sulla traduzione) che ci pare abbia fatto il suo tempo. Per riprendere il famoso titolo del libro di Hans Robert Jauss Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft (1967), se la storia della traduzione vuole essere davvero «una provocazione per la scienza della letteratura», un modo aperto e comprensivo di studiare questa complessa e vitale attività, un contributo a una revisione epistemologica degli studi sul tradurre, allora deve procedere su nuove strade, imboccando sentieri inesplorati e, soprattutto, osservando il territorio con sguardo diverso.