di Giulia Baselica
A proposito di: Bruno Osimo, Manuale di traduzione di Roman Jakobson, Blonk, 2016, 98 pp., € 12.00
Jakobson non ha mai scritto un manuale di traduzione. Questo volume realizza quindi un duplice e meritorio intento: in primo luogo ricostruisce, con procedimento consequenziale, la riflessione sulla traduzione del grande linguista, filologo, semiotico e critico letterario russo – cui si deve, fra l’altro, il modello lineare classico della comunicazione, caratterizzato dalle ben note sei funzioni della lingua – riportando una preziosa bibliografia dei contributi alla teoria della traduzione (estratta dalla sterminata produzione dello studioso), per la maggior parte poco nota, se si esclude il saggio Aspetti linguistici della traduzione, contenuto nella raccolta Saggi di linguistica generale (pubblicata da Feltrinelli a cura di Luigi Heilman nel 1966; l’edizione originale del volume è Essais de linguistique générale, a cura di Nicolas Ruwet, Éditions de Minuit, Paris, 1963, mentre la prima versione dello scritto, intitolata On Linguistic Aspects of Translation venne pubblicata nella raccolta On Translation, a cura di R.A. Brower, da Harvard University Press nel 1959). In secondo luogo questo breve ma denso saggio impone al lettore-traduttore (o al lettore interessato e sensibile alle questioni e agli aspetti della traduzione) una necessaria presa di coscienza. Nella Premessa Osimo afferma infatti: «tutti i traduttori, anche i più refrattari alla teoria, seguono dei principi. Il motivo per cui è poco sensato “non essere interessati alla teoria” se si traduce è che tutti i traduttori, magari a loro insaputa, hanno una teoria». L’asserzione, assiomatica nella sostanza, è interessante perché induce a riflettere sulla necessità di ammettere l’esistenza di un’effettiva relazione tra la prassi e la teoria della traduzione, di quest’ultima rilevando il carattere descrittivo e orientativo.
Il Manuale, strutturato intorno alla nozione di «segno linguistico», si articola in tre capitoli (rispettivamente intitolati: Jakobson e le fasi mentali della traduzione; Jakobson: traduzione come somiglianza attribuita; Tre tipi di traduzione o tre fasi del processo traduttivo) nei quali risaltano, in particolare, alcune interessanti intuizioni. Nella visione jakobsoniana della traduzione interlinguistica si pone in evidenza la funzione dell’interpretante, che identifica una essenziale attività insita nella mente che codifica o che decodifica il messaggio, quindi il testo. La teorizzazione dell’interpretant si deve al semiotico Charles Peirce che, collocando tale funzione fra sign e object (il signifiant e il signifié di Saussure), permette di identificare e di spiegare le forme individuali e contestuali della comunicazione in ogni sua variante: poetica, affettiva, formale, ecc. Jakobson pone in relazione l’attività traduttiva con un codice peculiare, il cosiddetto «linguaggio interno», teorizzato e indagato dallo psicologo bielorusso Lev Vygotskij, rilevando l’incessante attività di traduzione intralinguistica che avviene nella mente di ogni singolo individuo a partire dall’età infantile. A tale proposito chiosa Osimo: «qualsiasi discorso è una traduzione del discorso mentale e, come tutte le traduzioni, è diversa dall’originale e può essere ripetuta infinite volte, con risultati sempre nuovi». L’intuizione di Jakobson permette dunque di riconoscere da un lato una relazione di continuità fra la pratica della traduzione intralinguistica e la pratica della traduzione interlinguistica e, dall’altro, conseguentemente, la indiscutibile, necessaria natura ontogenetica della pluralità degli esiti traduttivi. Inoltre il rapporto fra traduzione e linguaggio interno schiude ulteriori scenari e attiva nuove sfide, in quanto il linguaggio interno, osserva George Steiner in Dopo Babele: «ha una storia complessa, probabilmente irrecuperabile: sia per quantità che per contenuto significante, le divisioni tra ciò che diciamo dentro di noi e ciò che comunichiamo agli altri non sono mai le stesse nelle diverse culture o nelle varie fasi dell’evoluzione linguistica» (trad. di Ruggero Bianchi, Sansoni, Firenze, 1984, da After Babel, Oxford University Press, Oxford, 1975).
Nella triplice classificazione delle forme di traduzione operata da Roman Jakobson – la traduzione endolinguistica o riformulazione (la già ricordata traduzione intralinguistica), la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta e la traduzione intersemiotica o trasmutazione – quest’ultima rappresenta, all’epoca della sua formulazione, una visione del tutto nuova della natura di un particolare processo di traduzione, così espressa: «la traduzione intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» e si esprime, per esempio, nella realizzazione di un’opera filmica a partire da un’opera letteraria. L’Autore del Manuale di traduzione di Roman Jakobson si sofferma a lungo su tale, complesso, esito della riflessione sulla traduzione, tuttavia conducendo il pensiero del linguista russo a non del tutto limpide conclusioni: «la lingua scritta sarebbe così una traduzione intersemiotica (il cambio di codice è evidente nel fatto che, invece di suoni, sono usati segni grafici)». In realtà Jakobson nel definire la traduzione intersemiotica non si riferisce a una mera sostituzione di codice, bensì, specificamente, al cambiamento da codice linguistico (o verbale) a codice non linguistico (o non verbale): intersemiotic translation or trasmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of non-verbal sign systems; e, se i segni verbali sono espressione di un codice che si distingue per la complessità della sua grammatica e beneficia della proprietà metalinguistica e della plurifunzionalità, i segni non verbali, pur rendendo possibile la loro comprensione attraverso i vari sistemi semiotici – iconico-visivo, mimico-gestuale, sonoro – non rendono agevole, (per non dire ‘impossibile’), la trasmissione dei messaggi complessi. Risulterebbe dunque difficile convenire che «la scrittura e la lettura, l’ascolto e il parlare sono immancabilmente processi di traduzione intersemiotica».
Nel porre l’accento sulla fondamentale importanza del contesto sia nella comunicazione sia nella traduzione, Jakobson dichiara la centralità del rapporto fra variazione e invarianza, speculare a quello fra marcatezza e non marcatezza. Una volta identificati i termini nei quali si realizzano tali rapporti, il traduttore ricerca quindi nella lingua d’arrivo i mezzi o lessicali o grammaticali per mantenere l’invarianza da lui stesso eletta, «dal momento che qualcosa deve perdersi nel passaggio comunicativo», e per rendere la variazione scelta dall’autore. La traduzione è secondo Jakobson sempre possibile – soltanto la poesia è intraducibile per via del ruolo preminente della paronomasia e dell’affinità semantica delle somiglianze fonologiche proprie delle varietà morfologiche e sintattiche e si offre esclusivamente alla trasposizione creatrice – e sono proprio gli elementi lessicali, morfologici e sintattici, che la lingua d’arrivo mette a disposizione del traduttore, a consentire il superamento di quella legge naturale e universale, prova della ricca varietà delle lingue, nonché delle connotazioni proprie di ognuna, sfida continua per ogni traduttore: le lingue differiscono per ciò che devono esprimere e non per ciò che possono esprimere. Così si realizza nella traduzione quella che per lo studioso russo è l’unica equivalenza possibile: l’equivalenza nella differenza.