di Valerio Nardoni
A proposito di Vittorio Bodini. Traduzione, ritraduzione, canone, a cura di Nancy De Benedetto e Ines Ravasini, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2015, 282 pp., € 35,00
Vittorio Bodini (1914-1970), poeta, traduttore, studioso militante e docente universitario, occupa un posto di primo piano nell’ispanistica del secolo scorso, soprattutto grazie alla sua opera di traduttore, che trova forse nella versione einaudiana del Don Chisciotte (1957) il suo punto più alto. A essa si affiancano però altri imprescindibili contributi, come, ad esempio, l’antologia dei Poeti surrealisti spagnoli (Einaudi, 1963), il cui interesse va ben al di là della semplice maestria del traduttore, qualificandosi come documento di prima mano di una generazione (con Oreste Macrí, Carlo Bo, Leone Traverso, Mario Luzi ecc.) che ha fatto dell’attività traduttoria un’esperienza fondante per la formazione di una lingua, di una coscienza e di una identità nazionale nel grande quadro europeo.
Queste le linee generali e generiche, opportunamente approfondite in un volume molto ben strutturato, che traccia un itinerario completo delle traduzioni di Vittorio Bodini, per una monografia scandita, compatta e unitaria, che premia il disegno delle curatrici.
In linea con il nome della collana dell’Università di Bari che ospita il libro – «La Stadera» – da esso si evince un ritratto giusto e ponderato del Bodini traduttore, a tratti un poco didascalico, ma certamente mai edulcorato (altro merito del volume). In altre parole, insieme ai meriti indiscutibili del grande ispanista, sono qui dibattuti proficuamente anche quegli aspetti meno convincenti, che possono essere riscontrati a più livelli e per vari motivi: col tempo cambiano non solo la lingua, il gusto e il pubblico, ma anche la prassi della traduzione e – dato fondamentale, quando si parla di autori classici – evolve la conoscenza critica e la percezione degli autori e delle loro opere. E vanno tenuti in conto anche i personali errori del traduttore Bodini, che per il suo appassionato coinvolgimento col teatro di García Lorca – come suggerisce Nancy De Benedetto nella prefazione, rimandando agli studi di Fausta Antonucci e Paola Laskaris che trattano il tema nel dettaglio – giunge ad abusare fortemente dell’uso del calco; questo anche secondo un gusto proprio del traduttore, quale si può riscontrare in molti punti del suo postumo Corriere spagnolo,– libro di prose incentrate sul suo viaggio di studio in Spagna negli anni Quaranta, ripubblicato un paio d’anni fa, per la cura di Antonio Lucio Giannone, da Besa – che «dovette determinare un grande coinvolgimento per Bodini, che si risolse in una adesione incondizionata fino ai limiti del trash; ora per l’ammirazione di una bravissima ballerina che “aveva molti piedi”, ora per la riproduzione letterale di espressioni come “a me dell’universo non m’importa un peperone”».
La qualità artistica delle traduzioni di Vittorio Bodini, il suo ruolo emblematico di mediatore culturale fra i più rilevanti del Novecento, devono quindi irrimediabilmente fare i conti con alcune tendenze e soluzioni che oggi percepiamo come superate o poco congrue. Tutto ciò è del tutto normale e non vi è da dibattere oltre; mentre risulta di interesse meditare su tali «imperfezioni» o«spregiudicatezze» andando a ricollocarle (questo lo schema della maggior parte dei saggi contenuti nel volume) sia nel sistema testuale e creativo del traduttore, sia in quello culturale e editoriale del momento storico in cui egli ha operato. L’insieme di queste riflessioni è il tesoro che il Bodini traduttore ci ha lasciato e che le curatrici del volume hanno inteso riscattare dalla «non meritata penombra» in cui si trovava.
Il volume si apre con una sorta di lectio magistralis in cui Giovanni Caravaggi tratteggia la propria esperienza di studioso-traduttore – sia di autori antichi, sia di autori novecenteschi, come Vittorio Bodini – mettendo in rilievo la necessità, prima di intraprendere una qualsiasi traduzione, «di uno sforzo ermeneutico non indifferente», affinché «la ricerca incessante di forbiti effetti di cesellatura linguistica», in cui si esplicita il lavoro del traduttore, scaturisca da «un approfondimento dei significati profondi del testo e delle tradizioni letterarie in cui si colloca», al fine di «tentare [corsivo mio] di stabilire il rapporto di corrispondenza tanto dei motivi tematici, delle motivazioni psichiche, delle peculiarità lessicali, morfologiche e sintattiche, quanto delle sequenze ritmiche e delle modulazioni sonore».
È evidente che una disamina particolareggiata di qualunque traduzione porta inevitabilmente alla conferma di una sconfitta del traduttore, il cui demerito però – questo l’implicito omaggio al maestro Bodini – ha il pregio di stimolare e portare avanti la riflessione sui «significati profondi» del testo e della sua costellazione di ragioni e significati. È il caso, questo, del saggio di Antonio Gargano, che medita sulle traduzioni novecentesche del Lazarillo de Tormes, un testo emblematico, la cui incontrovertibile semplicità – densissima però di sottigliezze e implicazioni – spinge costantemente il traduttore su un doppio precipizio: o l’eccessiva semplificazione o una innaturale artificiosità. Un rischio sempre incombente sul lavoro del traduttore, anche come non esauribile ignoranza di tutti i possibili richiami e sottintesi di cui si nutre la grande letteratura.
Oltre alle molteplici riflessioni stimolate dalle imprecisioni bodiniane, i singoli interventi offrono ampio spazio alla descrizione del panorama editoriale: propongono sempre un quadro completo delle traduzioni precedenti, coeve e talvolta successive a quelle di Bodini, entrando anche nel merito delle strategie editoriali e dei rapporti del traduttore con l’Einaudi (come nel caso dei due successivi studi dedicati al Chisciotte). Nel caso dell’antologiadei surrealisti spagnoli – dato che il libro è anche una creazione di Bodini e non la versione italiana di un libro spagnolo – la dimensione editoriale si arricchisce inoltre di un’analisi delle motivazioni profonde e delle ragioni militanti del curatore, che con questo volume segna «uno dei momenti in cui l’ispanismo italiano ha potuto collocarsi in una dimensione d’avanguardia all’interno dell’ispanismo internazionale» (Grilli). Bodini si immerge nella poesia di quel gruppo di poeti che – ciascuno a suo modo, con maggiore o minore intensità – «trova nella lezione dell’avanguardia d’oltre i Pirenei, una soluzione non solo estetica, ma civile, d’impegno, per fare fronte alla vacillante situazione politica interna della Penisola» (Grasso).
Come sintetizza Francesco Fava, «non è mai con distaccata equanimità del critico (o nell’ottica professionale del traduttore), ma sempre con l’accalorato coinvolgimento dell’uomo e del poeta che Bodini guarda alla Spagna e ai suoi scrittori». Paradossalmente, però – rileva ancora Fava – se c’era in Spagna un poeta lontano da Vittorio Bodini, era proprio Pedro Salinas: «La penisola viscerale, tellurica, mediterranea, popolare di cui egli va in cerca si tinge di un “intimo colore” (Giannone) le cui tonalità non sono le medesime della Spagna di Pedro Salinas: poeta tutto urbano, madrileno, borghese, non poteva essere (quali furono invece García Lorca o Rafael Alberti) lo scrittore più prossimo all’autore de La luna dei Borboni». Chissà che, in questo caso, non sia stata proprio la distanza fra i due scrittori a farsi sostanza poetica, permettendo a Bodini di non perdere nella versione italiana il raziocinio che Pedro Salinas fonde all’espressione delle passioni, proprio come traspare nel titolo Ragioni d’amore, che il curatore sceglie per la sua storica antologia. In questo caso – fatte salve le giuste riserve, il volume si va liberando dei numerosi segni rossi sulle traduzioni – protagonista è proprio l’atteggiamento esistenziale non necessariamente allineato e la maestria ritmica del poeta e traduttore Vittorio Bodini.
In conclusione di questa sintetica lettura, una parentesi sulla traduzione degli entremeses cervantini, traduzione uscita postuma (1972), che – come ci ricorda in nota Ines Ravasini che se ne è occupata – fu definita da Macrí (nel dettaglio si riferiva al Rufián viudo) come «il vertice dell’arte traduttoria bodiniana, congregati il gergo della malavita e la parodia forsennata, quanto oggettiva, del linguaggio petrarchesco-gongorino». Negli entremeses sembrano appunto condensarsi al meglio le aspirazioni e le qualità del poeta, dello studioso e del traduttore Bodini, così come emergono da questo volume, perché la resa del testo richiede allo stesso tempo vivacità e raffinatezza, spessore e spregiudicatezza.