di Gianfranco Petrillo
A proposito di Tullio Gregory, Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Olschki, 2016, 72 pp., € 14
Non è chi non veda, anche non sapendo il latino, nella parola translatio (translationem all’accusativo) l’etimo dell’inglese translation, cioè traduzione. Perché tradurre è trasferire, transferre, il verbo di cui translatio è appunto il sostantivo. Gregory chiarisce presto: sotto l’endiadi usata da Quintiliano (I sec. d.C.) per indicare l’attività di traduzione, transferre aut circumire [trasferire e aggirare],
si potrebbe iscrivere la storia delle problematiche del tradurre. Ma non di teoria della traduzione si intende qui trattare, quanto piuttosto del tradurre – fuori da ogni considerazione di carattere letterario – come trasferimento di un testo in una lingua diversa dall’originale, strettamente connesso a ogni translatio studiorum [trasferimento degli studi], a ogni passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto geografico, politico e linguistico, per salvare eredità che si sarebbero altrimenti perdute (p. 16).
Compito sacrosanto dei traduttori, lo svolgimento diacronico del quale in Occidente l’autorevole storico della filosofia ripercorre a grandi linee da Cicerone fino al Settecento, in verità con un progressivo affievolirsi dell’attenzione, che in dissolvenza scompare in seguito quasi del tutto, a causa della crescente complessità e poliedricità della questione in tempi moderni e contemporanei. E compito di cui i grandi intellettuali della tarda latinità e del Medioevo – sia cristiani che musulmani – erano ben consapevoli, ancor prima che l’Umanesimo facesse del tradurre una vera e propria missione militante. Da Cicerone a Boezio e Cassiodoro è «un continuo tradurre, un trasmettere un patrimonio di conoscenze»: «il trascrivere, il tradurre tradizioni antiche è premessa per la nascita di una nuova cultura». La translatio imperii, il trasferimento dell’impero dall’ambito pagano a quello cristiano, dal Mediterraneo all’Europa, coincide con la translatio studii, il trasferimento, la traduzione, del sapere (p. 21).
Nel XIII secolo «tutto il sapere era peraltro la trascrizione e l’eredità di più antiche culture orientali – indiane, persiane, caldaiche – delle quali la cultura araba era l’ultima translatio» (p. 26): un’attività – talvolta promossa dal potere politico stesso (come per esempio alcuni califfi arabi), consapevole della sua importanza – nella quale si segnalano personalità dimenticate ma che furono i veri protagonisti di «un profondo mutamento culturale e filosofico»: Adelardo di Bath, Giovanni di Siviglia, Ugo di Santalla, Ermanno di Carinzia, Enrico Aristippo, Bartolomeo da Messina, Gerardo (o Gherardo) da Cremona, Giacomo Veneto, Guglielmo di Moerbecke, Moshè Ibn Tibbon, i quali trasferirono dal greco al latino o dall’arabo (dove erano già pervenuti dal greco o da altre lingue orientali) al latino testi che altrimenti sarebbero andati completamente perduti e, nel far ciò, crearono «un lessico filosofico, scientifico, teologico in gran parte nuovo» che sarebbe giunto fino alla modernità (p. 28).
Gregory qui spezza meritoriamente una lancia a favore dell’«importanza fondamentale della traduzione di testi “tecnici”», tenuti sempre ai margini dell’attenzione degli studiosi, che si concentrano piuttosto sulle «versioni cosiddette “letterarie”, con una distinzione fra “generi” di dubbio valore storico» (p. 29).
Di fondamentale importanza fu il richiamo al rigore filologico nel tradurre levato da insigni umanisti come Leonardo Bruni o Lorenzo Valla, da cui nacquero le discussioni sul tradurre «che si infittirono fra Quattrocento e Cinquecento» a proposito della preferenza del latino o del volgare come lingua d’arrivo, questione connessa strettamente alla consapevolezza dell’arricchimento culturale che proveniva dalle traduzioni. Giordano Bruno – racconta il suo amico e sodale John Florio – esprimeva pubblicamente la sua idea che dalla traduzione tutta la scienza avesse scaturigine (thought publikly that from translation all science had its offspring – citato a p. 48). Ed ecco quindi chi, come Pietro Pomponazzi, affermava perentoriamente la necessità di «una nuova translatio dal greco, dal latino, alle lingue volgari, vernacolari» (p. 52), che aveva anche – sosteneva nel 1549 Joachim du Bellay – una «forza demitizzante» nei confronti dei teologi, venerables Druydes (venerabili druidi), che si ritengono unici detentori dei segreti della teologia (p. 54). E sappiamo anche quale potenza rinnovatrice, rivoluzionaria, ebbe l’ondata di traduzioni dell’Antico e del Nuovo Testamento nei vari volgari, che si ebbe in quei decenni. Il primo italiano a compiere questa impresa fu, nel 1471, il frate camaldolese Niccolò Malerbi (o Malermi) e quella, dopo la proibizione tridentina delle traduzioni in volgare, restò a lungo l’unica versione in italiano autorizzata dalla Chiesa cattolica (ma vedi, in questo stesso numero di «tradurre», l’articolo di Norman Gobetti dedicato alla questione).
Rilevata l’attenzione che Croce e Gentile dedicarono alla scelta dei curatori e traduttori della collana di «Classici della filosofia moderna» da loro creata presso Laterza agli inizi del secolo scorso, Gregory conclude:
Ma la storia delle traduzioni in età contemporanea – e in questa prospettiva la storia delle case editrici e dei traduttori – è ancora da scrivere anche perché dobbiamo liberarci dal pregiudizio che antepone l’autore al traduttore, riconoscendo al primo un’originalità che il secondo non avrebbe; si rischia in tal modo di dimenticare che se ogni cultura è un processo di appropriazione, di interpretazione di esperienze diverse, con il loro trasferimento in contesti e linguaggi nuovi, la traduzione intra e interlinguistica svolge un fondamentale ruolo di mediazione nel quale il traduttore è attore e protagonista (pp. 65-66).
Parole sacrosante, che suggellano un’affascinante, per quanto sommaria, cavalcata attraverso i secoli. Macchiata però da un grave neo: nel libro nessuna delle numerose, e talvolta lunghe, citazioni – quasi tutte in latino, ma alcune anche in francese e in inglese – viene tradotta, contraddizione significativa di un atteggiamento mentale accademico tanto radicato quanto inconsapevole, che di fatto impedisce la translatio studiorum, il trasferimento della cultura tanto osannato nel libro, a chi non è della conventicola.