di Giacomo Longhi, autore di
Mahsā Moḥeb‘ali, Non ti preoccupare, Firenze, Ponte 33, 2015 (da Negarān nabāš, Našr-e Çešmeh, Tehrān, 1387/2008)
Conoscevo già Negarān nabāš quando, nell’estate del 2014, ho ricevuto la proposta di tradurlo. Vincitore nel 2009 del premio Golshiri, aveva fatto parlare di sé per aver colto l’atmosfera di ribellione, inquietudine e scontento della gioventù iraniana appena pochi mesi prima delle contestazioni contro l’elezione del presidente Ahmadinejad, quindi colpito dal divieto di ristampa. Si sa, niente meglio della censura spinge un’opera letteraria sul mercato e il romanzo ha continuato a circolare in un’undicesima edizione misteriosamente inesauribile. Soltanto quest’anno Negarān nabāš ha riottenuto il permesso di pubblicazione ed è tornato a occupare gli scaffali delle librerie iraniane.
Ma il mio interesse superava il caso di censura. Nel leggere il libro mi aveva colpito quella formidabile carrellata di personaggi così atipici nella letteratura persiana contemporanea e, soprattutto, la prosa contaminata dallo slang della capitale. L’io narrante del romanzo è Shadi, una ragazza tossicodipendente figlia della buona borghesia progressista i cui ideali sono stati ormai archiviati. Shadi si esprime in un persiano infarcito di espressioni gergali, ma senza stravolgere le regole della lingua scritta. Come se quella ragazza sfacciata avesse conservato qualcosa dell’educazione perbene impartita dalla famiglia. Il romanzo, poi, è ricco di citazioni musicali e poetiche sia provenienti dalla cultura occidentale, sia soprattutto dai movimenti artistici della Tehran underground. Dunque un testo molto composito: slang, ma anche lirica persiana, canzoni di gruppi folk iraniani, addirittura una frase in tedesco mimetizzata dalla traslitterazione.
Come primo passo mi sono occupato della voce della narratrice Shadi. Mi è sembrato naturale optare per una sintassi aderente al parlato, mentre ho deciso di evidenziare la provenienza sociale della protagonista con degli scarti lessicali, disseminando all’interno di un linguaggio sboccato e strafottente qualche termine ironicamente ricercato, che richiamasse il buon contesto culturale in cui era cresciuta. Nel testo originale questa peculiarità emergeva dallo slang innestato su una lingua correttamente scritta, senza applicare l’ortografia del parlato che in persiano si distingue marcatamente. Esprimere questo tratto stilistico in italiano con la convivenza di vari registri mi è sembrata la scelta più plausibile, mentre ho scartato l’ipotesi di usare una sintassi troppo formale, poiché avrebbe stonato laddove la discrepanza andava percepita in modo leggero.
Tra i termini gergali, un vero cruccio è stata la traduzione di خمار (khomār), parola ambivalente che indica sia i postumi di una sbornia sia la crisi d’astinenza da droghe. Per la resa in italiano ci ho riflettuto a lungo e ho messo in atto un vero e proprio sondaggio, consultando colleghi, amici e anche altri testi letterari. Alla fine sono approdato all’espressione «stare a rota», dal sapore un po’ retro, ma ancora impressa nell’immaginario dei lettori italiani grazie alla traduzione dal tedesco di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Roberta Tatafiore (Rizzoli, 1981). Un ulteriore conforto mi è arrivato dal romanzo Devozione di Antonella Lattanzi (Einaudi, 2010), che utilizzava «stare a rota» in una storia ambientata ai giorni nostri.
Per le poesie e le canzoni citate ho avuto fortuna soltanto con Hafez, di cui ho riportato la traduzione italiana di Gianroberto Scarcia e Stefano Pellò (Ariele, 2005). Per gli altri, invece, ho dovuto cavarmela da solo, sia che si trattasse dei versi di Nima Yushij, uno dei più importanti poeti persiani del Novecento, sia che fosse la rock music dei Kiosk.
La mia edizione di riferimento è stata appunto l’undicesima. Tuttavia, consapevole che in Iran i testi arrivano al pubblico sempre un po’ sforbiciati e “pastorizzati” (mi piace ricalcare così un modo di dire persiano) mi sono procurato la bozza preparata dall’editore prima di spedire il libro al vaglio della censura. Pur non essendoci differenze nella trama, qua e là erano stati eliminati i nomi di alcuni attori famosi durante il regime dello Shah o di artisti che vivevano in esilio e il linguaggio era stato riportato a un livello meno scurrile. Come traduttore, a costo di allontanarmi dal testo così come lo avevano conosciuto i lettori iraniani, ho preferito essere fedele all’autrice piuttosto che alla scolorina del censore. Così ho reintrodotto nomi e cognomi e ignorato le bonifiche. In traduzione qualcosa si perde qualcosa si guadagna.