La traduzione in situazioni di emergenza: crisi umanitarie, sanitarie, e catastrofi naturali

Walter Quirt, Conflict, 1935, olio su pannello, Smithsonian American Art Museum

di Paola Brusasco

Le situazioni di crisi – che si tratti di fenomeni naturali o conseguenze di attività umane – sono caratterizzate da alcuni aspetti comuni: l’evento è inaspettato o smentisce le previsioni, costituisce una minaccia per la sicurezza, la salute, la vita o le infrastrutture, e richiede interventi rapidi per contenere gli effetti (Sellnow, Seeger 2013). Tali sconvolgimenti della normalità, seguiti di solito da una temporanea inadeguatezza delle reazioni e da una limitata possibilità organizzativa, provocano, oltre a vittime e danni materiali, anche traumi, angoscia e confusione. Un diverso tipo di crisi, meno improvviso ma altrettanto critico, è quello che si verifica in zone di conflitto o nei campi profughi, dove spesso vengono messi in atto interventi umanitari. In tutti questi frangenti, la comunicazione assume un’importanza vitale, sia per consentire un’efficace collaborazione fra squadre di soccorso o operatori umanitari – spesso internazionali –, forze dell’ordine, volontari, cittadini, sia per aiutare le persone colpite, alleviarne il dolore o organizzare azioni e strutture di sostegno. Nelle società contemporanee accade inoltre spesso che siano presenti comunità di origini e culture diverse i cui componenti non sempre padroneggiano la lingua locale. La comunicazione, urgente e necessaria, rischia pertanto di essere poco efficace o di non raggiungere una parte della popolazione, il che può determinare conseguenze importanti per tutti.

In modi diversi, due eventi recenti hanno richiamato l’attenzione sull’attività di mediazione linguistica (nel senso più ampio di traduzione e interpretazione) e sugli attori coinvolti: la diffusione del virus SARS-CoV-2 e la fine della missione militare statunitense in Afghanistan. La pandemia che ha colpito il mondo nel 2019 ha imposto alla maggior parte della popolazione l’apprendimento di pratiche e termini come «distanziamento sociale», «lockdown», «trasmissione per aerosol»; tuttavia, la disseminazione di conoscenze e notizie da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità avviene nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite più tre addizionali (tedesco, hindi e portoghese), riproducendo una gerarchia dominata dall’inglese (lingua delle conferenze stampa e degli aggiornamenti immediati) che nelle versioni locali a cura dei singoli paesi spesso esclude le minoranze linguistiche, precludendo loro l’accesso a informazioni vitali (Piller, Zhang, Li 2020). In effetti, una rapida ricerca su siti di Comuni e Regioni nei primi mesi della pandemia permetteva di trovare dati statistici, comunicati relativi alle azioni intraprese, divieti e indicazioni di comportamento in italiano, talvolta in inglese, ma, con l’eccezione del Comune di Milano, mai in lingue extraeuropee. Vero è che i siti web istituzionali sono solo una delle possibili fonti di informazione, ma sarebbe stato opportuno predisporre materiali e comunicati tv e radio in varie lingue o sottotitolati, in modo da raggiungere un maggior numero di persone e promuovere una migliore comprensione delle misure adottate per ridurre il contagio. Il secondo evento, il ritiro americano dall’Afghanistan, ha invece richiamato l’attenzione sul timore di rappresaglie contro interpreti e traduttori, evidenziando come le persone che si occupano della mediazione linguistica in zone di conflitto vengano a trovarsi in una posizione ambigua che vede venir meno la differenza fra civili e militari prevista dal diritto internazionale umanitario. L’art. 50 del Protocollo aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, che ambiscono a regolare giuridicamente i rapporti tra parti in conflitto bellico, definisce «civile» chiunque non appartenga alle forze armate, ma il ruolo dell’interprete in zone di conflitto comporta anche la partecipazione a missioni e spostamenti che lo mettono in una posizione assai diversa rispetto alla popolazione civile e al contempo gli danno diritto a una forma di protezione, estesa alla famiglia, in virtù della quale in caso di evacuazione ha la precedenza rispetto ad altri civili (Moser-Mercer 2015), poiché lavorare con forze internazionali durante o dopo un conflitto lo rende un traditore per le milizie locali. Fra le modalità di narrazione dei conflitti, Baker (2010) individua la costruzione del discorso pubblico intorno a criteri di differenza (il nemico è altro da noi e incarna il male) e omogeneità (ciascuna parte è ben definita nelle sue caratteristiche e costituisce un gruppo), che lasciano poco spazio a chi, come traduttori e interpreti locali, costituisce un punto di contatto tra i due fronti. L’ambiguità della posizione dell’interprete emerge nel racconto di un ufficiale della RAF, l’aeronautica britannica, di stanza in Bosnia nel 1999: pur non armati, gli interpreti vestivano la mimetica per chiarire che operavano a fianco delle forze britanniche, il che li collocava in una posizione ibrida dichiarandone tuttavia l’affiliazione. Moser-Mercer (2015) sottolinea inoltre la necessità di definire con maggiore precisione lo status giuridico dell’interprete distinguendo fra situazione di conflitto – emergenziale e regolata dal diritto internazionale umanitario – e post-conflitto, caratterizzata da processi di pacificazione e ricostruzione che possono durare anni e dalla fine della protezione ricevuta dall’interprete durante la fase attiva delle ostilità. Se assunti da organizzazioni internazionali impegnate sul campo, gli interpreti locali godono delle stesse tutele del personale straniero, ma spesso vengono ingaggiati informalmente o per incarichi specifici, il che li lascia privi di tutele legali e sociali.

La traduzione di materiali informativi, la formazione di interpreti locali non professionisti in grado di operare in situazioni di emergenza o conflitto, come pure la preparazione di volontari che, qualora necessario, possano fungere da mediatori per la propria comunità, dovrebbero quindi essere parte integrante del ciclo di gestione delle catastrofi (evento – risposta – ritorno alla normalità – mitigazione del rischio – preparazione a eventi futuri), di cui possono potenziare l’efficacia, soprattutto nelle fasi di risposta immediata all’evento e impegno in vista di emergenze future. Questa consapevolezza si sta lentamente diffondendo, soprattutto in paesi esposti a notevole rischio sismico e meteorologico e caratterizzati dalla presenza di varie comunità linguistiche, come la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti. La ricerca scientifica è finora piuttosto limitata, sebbene si rilevino importanti eccezioni che uniscono aspetti teorici e pratici, quali i progetti INTERACT e InZone, illustrati di seguito, e iniziative curate da Translators Without Borders, una comunità di oltre 60.000 linguisti che si occupa di fornire gratuitamente traduzioni ad associazioni senza fini di lucro attive in situazioni di emergenza o nei settori della sanità e dell’istruzione, formare mediatori nelle lingue con minori risorse e sensibilizzare pubblico e istituzioni sull’importanza della mediazione linguistica e culturale nelle operazioni umanitarie.

INTERACT

INTERACT (International Network on Crisis Translation) è un progetto triennale, finanziato dall’Unione europea e concluso nel 2020, i cui partecipanti hanno svolto ricerca transdisciplinare sulla traduzione in scenari di crisi con l’obiettivo di realizzare iniziative e materiali, nonché fornire competenze di base a volontari disponibili a fungere da traduttori in caso di necessità. Al progetto, con capofila la Dublin City University, partecipavano altre università di paesi anglofoni (University College London, University of Auckland, Arizona State University), l’associazione Translators Without Borders, la rete internazionale no-profit di raccolta e revisione di studi in campo sanitario Cochrane, la piattaforma di traduzione automatica Unbabel, e Microsoft. L’assunto era che la lingua non è solo uno strumento fondamentale nella fase di risposta alla crisi, ma anche uno strumento di prevenzione di danni futuri, e come tale deve essere oggetto di programmazione nell’ambito delle iniziative messe in atto dai singoli paesi per sensibilizzare le comunità a possibili emergenze, aumentarne la resilienza e ridurre il numero di vittime. La possibilità di avere accesso alle informazioni e ritrasmetterle per ridurre la vulnerabilità è vista come un diritto; la fruizione deve essere gratuita, multimodale e disponibile attraverso più canali, in forma scritta e orale in tutte le lingue delle comunità interessate dall’evento, ivi comprese le persone con bisogni speciali. Uno studio sull’uso della traduzione nei materiali informativi e nelle pratiche per la gestione delle catastrofi in Irlanda, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Giappone e Stati Uniti (O’Brien et al. 2018) ha evidenziato un limitato, ma crescente, grado di consapevolezza nei primi tre paesi, investimenti nella traduzione automatica e app per il riconoscimento vocale in Giappone, ed esempi di buone pratiche negli Stati Uniti: ogni organismo federale predispone un Language Access Plan (Piano per l’accesso linguistico) per provvedere alla traduzione di materiali e procedure per le persone con padronanza limitata dell’inglese; durante le emergenze è attivo un servizio telefonico in cinquanta lingue, e ci sono materiali disponibili online in ventuno lingue con istruzioni per eventi come alluvioni, incendi, terremoti, epidemie.

Considerando sia la necessità di agire rapidamente e contenere i costi sia l’inesperienza dei volontari, la soluzione migliore parrebbe il ricorso alla tecnologia. Memorie traduttive, banche dati terminologiche e traduzione automatica, sviluppate per gestire volumi crescenti di dati, promuoverebbero maggiore accessibilità linguistica, mentre i software per il riconoscimento vocale potrebbero aiutare le persone con difficoltà di lettura o un basso livello di alfabetizzazione. Il terremoto di Haiti nel 2010 è stato il primo caso in cui la tecnologia ha contribuito massicciamente alla comunicazione interlinguistica: poiché la maggioranza dei soccorritori non conosceva il creolo né il francese, numerosi volontari specializzati in informatica hanno processato dall’estero le informazioni fornite telefonicamente dalla popolazione locale per creare mappe, tradurre messaggi e costruire sistemi per la traduzione automatica (Cadwell, O’Brien 2016). Quest’esperienza ha fornito spunto per Disaster Relief 2.0, un documento pubblicato nel 2011 dal centro di ricerca Harvard Humanitarian Initiative per promuovere una collaborazione stabile fra le organizzazioni umanitarie e i linguisti e gli esperti informatici che da tutto il mondo avevano prestato aiuto durante la crisi haitiana. In emergenze successive, come i terremoti in Nuova Zelanda (2010-11) e il tifone Bopha/Pablo nelle Filippine (2012), il ricorso alla tecnologia ha permesso di tradurre e diffondere messaggi di allerta e istruzioni tramite radio, televisione, internet, social media e telefoni (Cadwell, O’Brien 2016).

In un intervento alla Nida School of Translation Studies 2019, O’Brien ha sintetizzato le criticità rilevate dalla ricerca INTERACT sulla traduzione automatica in situazioni di emergenza: il sistema va addestrato con un’adeguata quantità di testi, che, giacché le crisi per definizione si presentano in modo improvviso, difficilmente sono disponibili; la traduzione potrebbe riguardare coppie di lingue poco diffuse per le quali scarseggiano i mediatori o, come spesso accade, lingue di cui si hanno poche risorse testuali con cui addestrare il sistema; talvolta si tratta di lessico specialistico (per esempio rischio nucleare o malattie) che richiede una banca dati terminologica; nella zona colpita potrebbe non essere disponibile l’energia elettrica o la connessione internet; il sistema dovrebbe contemplare anche un dispositivo per il riconoscimento vocale. Occorre inoltre prevedere la possibilità di tradurre passando attraverso una terza lingua che si interfacci sia con quella di partenza sia con quella di arrivo, come accadeva fino a poco tempo fa con l’inglese nei passaggi fra lingue europee meno diffuse. Al riguardo, Cadwell, O’Brien e De Luca (2019) hanno condotto un esperimento con la piattaforma gratuita open source MateCat per agevolare l’intervento di Translators Without Borders durante la crisi sanitaria provocata dal virus Ebola nella Repubblica Democratica del Congo. Come spiegano gli autori, la combinazione linguistica francese-swahili si è resa necessaria perché mentre la prima viene utilizzata dal Ministero della Salute e dalle organizzazioni umanitarie ed è comprensibile per lo più alla popolazione urbana istruita, lo swahili funge da lingua franca per le comunità vulnerabili. I traduttori però sono pochi perché chi conosce lo swahili solitamente proviene da paesi anglofoni, quindi la speranza era che la traduzione automatica contribuisse a velocizzare o migliorare il servizio. La mancanza di testi paralleli francese-swahili ha determinato il passaggio attraverso l’inglese, che ha svolto la funzione di lingua pivot. Il sistema è stato addestrato con un milione di frasi parallele francese-inglese scelte casualmente da un corpus di testi ufficiali dell’ONU (Ziemski, Junczys-Dowmunt, Pouliquen 2016), mentre il corpus inglese-swahili è stato composto mettendo insieme poco meno di 18000 frasi o segmenti paralleli – un terzo dei quali provenienti dalle memorie traduttive di Translators Without Borders – di argomento sanitario generale oppure relativi a emergenze per catastrofi e malattie. La fase conclusiva è stata valutare la misura in cui volontari locutori di entrambe le lingue senza alcuna esperienza di post-editing riuscissero a rendere efficaci i testi tradotti da MateCat, da inviare tramite telefono alla popolazione. L’esperienza si è dimostrata positiva, evidenziando tuttavia la criticità del fattore tempo e la soggettività del giudizio nella valutazione dell’output del sistema e dei testi editati. Come già detto, il progetto INTERACT si è concluso, ma il sito resta attivo e mette a disposizione i materiali prodotti così da agevolare ricerche e, soprattutto, azioni future.

InZone

Nato come progetto dell’École de Traduction et d’Interprétation dell’Università di Ginevra nel 2005, InZone (Centre for Interpreting in Conflict Zones) ha ben presto attirato l’attenzione di organizzazioni umanitarie quali il Comitato internazionale della Croce Rossa, Medici Senza Frontiere (MSF) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Alla base del progetto c’è sia la necessità di fornire maggiori strumenti professionali e legali agli interpreti nelle zone di conflitto, sia la consapevolezza che le persone nei campi profughi spesso non parlano la lingua della comunità internazionale di soccorso e, nell’impossibilità di comunicare con esattezza i propri bisogni, vengono genericamente definite «beneficiari», il che le pone in una condizione passiva e subordinata. Ecco perché fra gli obiettivi del progetto c’è lo sviluppo di un percorso di partecipazione e responsabilizzazione che coinvolga la popolazione e guidi le attività intraprese a livello locale. Grazie al partenariato con l’UNHCR,  InZone è stato invitato nel campo profughi di Kakuma, nel nord-ovest del Kenya, per formare interpreti fra gli abitanti, azione che negli anni si è trasformata in una serie di programmi di istruzione terziaria online e in loco e che ha permesso di aprire due centri di formazione in Giordania e Kenya. Nel prossimo quinquennio, gli orientamenti strategici del gruppo InZone prevedono azioni in paesi di transito lungo le principali rotte migratorie, in particolare nell’Africa francofona, coniugando obiettivi di ricerca scientifica e attività formativa sul campo.

La prospettiva adottata è di lungo termine, improntata ai principi di analisi contestuale dei bisogni dal punto di vista dei profughi e del loro coinvolgimento a fini di capacity-building, sostenibilità e resilienza. Sebbene le circostanze possano variare, secondo Moser-Mercer (2020) nei campi profughi traduttori e interpreti sono necessari soprattutto per comunicazioni volte a regolare la convivenza della comunità, riunioni, raccolta di richieste e segnalazioni, accoglienza dei nuovi arrivati, sostegno psicologico, crisi famigliari, aiuto nei colloqui per ottenere lo status di rifugiato. Le persone che conoscono due o più lingue e si dichiarano disponibili ricevono dapprima una formazione di base all’interpretariato, poi vengono avviate all’utilizzo di strumenti per la traduzione assistita (CAT) con i quali predisporre, fra l’altro, materiali didattici e informativi da loro concepiti per la comunità locale; dopo una formazione avanzata, alcuni diventano anche tutor, ampliando così la platea dei futuri mediatori.

Oltre ai prevedibili problemi derivanti dalla sofferenza a causa di conflitti e violazioni dei diritti umani, dalle scarse risorse e dalle differenze fra lingue e culture (per esempio amarico, tigrino, dinka, arabo, kiswahili e molte altre), Moser-Mercer – co-fondatrice del progetto, nonché interprete e formatrice in vari campi profughi – ha sottolineato in un intervento alla Nida School of Translation Studies 2019 alcuni aspetti talvolta sottovalutati: la complessità e delicatezza delle interazioni con i vari organismi internazionali che operano nei campi profughi, la mancanza di un quadro giuridico a tutela degli interpreti locali, la scarsa applicabilità del codice etico standard in situazioni in cui l’interprete, oltre alla mancanza di garanzie sull’integrità fisica, è parte della comunità per la quale traduce e quindi più esposto al rischio di infrangere il requisito di parzialità e al trauma vicario, quel residuo emotivo lasciato dall’essere stato testimone e intermediario per persone in condizioni di sofferenza fisica o psicologica.

Da anni la rappresentazione degli eventi tramite servizi di informazione attivi 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana genera un perenne senso di emergenza (Federici 2016), che tuttavia è comprensibile se si considera che nel nostro mondo globalizzato è inevitabile che le conseguenze economiche, politiche o sanitarie di un evento catastrofico spesso si propaghino ben oltre l’area colpita. La ricorrenza di situazioni di crisi di vario genere – naturali o indotte dall’attività umana – e la portata degli effetti hanno indubbiamente acuito la percezione del rischio e aumentato gli sforzi organizzativi per ridurre il numero di vittime e i danni, ma il fattore comunicazione, e in particolare la disponibilità delle informazioni in tutte le lingue parlate nell’area colpita, non è ancora sufficientemente integrato nel ciclo di gestione delle catastrofi. È ormai evidente la necessità di sistematizzare un certo numero di azioni: ricognizione delle lingue parlate sul territorio; reperimento di materiali sui quali addestrare sistemi di traduzione automatica; iniziative volte alla formazione di traduttori e interpreti non professionisti in grado di operare in situazioni di emergenza con efficacia linguistica adeguata e capacità di gestire il carico emotivo; predisposizione di servizi di assistenza telefonica multilingue; previsione di un quadro giuridico che tuteli i membri della società civile impegnati in servizi di traduzione e interpretazione. Il lavoro da fare è molto, richiede una lungimirante organizzazione centrale e una rete di iniziative locali, e non è direttamente remunerativo; è tuttavia una strada percorribile senza investimenti ingenti che potrebbe alimentare il senso di comunità e contenere l’impatto delle situazioni di crisi su esseri viventi e cose.

Riferimenti bibliografici

Baker 2010: Mona Baker, Interpreters and Translators in the War Zone: Narrated and Narrators, in «The Translator», vol. 16, 2, pp. 197–222

Cadwell, O’Brien 2016: Patrick Cadwell, Sharon O’Brien, Language, culture, and translation in disaster ICT: an ecosystemic model of understanding, in «Perspectives. Studies in Translatology», vol. 24, 4, pp. 1-19

Cadwell, O’Brien, De Luca 2019: Patrick Cadwell, Sharon O’Brien, Eric De Luca, More than tweets: a critical reflection on developing and testing crisis machine translation technology, in «Translation Spaces», vol. 8 (2), pp. 300-333

Federici 2016: Mediating Emergencies and Conflicts. Frontline Translating and Interpreting, ed. by Federico M. Federici, London, Palgrave Macmillan

Moser-Mercer 2020: Higher Education in Emergencies. Geneva Summer School 2018-19 Student Capstone Projects – Turkana West Campus, ed. by Barbara Moser-Mercer, Geneva, University of Geneva

– 2015: Barbara Moser-Mercer, Interpreting in conflict zones, in The Routledge Handbook of Interpreting ed. by H. Mikkelson, R. Jourdenais, Oxfrod-New York, Routledge, pp. 302-316

O’Brian et al. 2018: Sharon O’Brien et al., Language translation during disaster: A comparative analysis of five national approaches, in «International Journal of Disaster Risk Reduction», 31, pp. 627-636

Piller, Zhang, Li 2020: Ingrid Piller, Jie Zhang, Jia Li, Linguistic diversity in a time of crisis: Language challenges of the COVID-19 pandemic, in «Multilingua», vol. 39, 5, pp. 503-515

Sellnow, Seeger 2013: Timothy L. Sellnow, Matthew W. Seeger, Theorizing Crisis Communication, Malden/Oxford, Wiley-Blackwell

Ziemski et al. 2016: Michael Ziemski, Marcin Junczys-Dowmunt, Bruno Pouliquen, The United Nations Parallel Corpus, Language Resources and Evaluation (LREC’16), Portorož, Slovenia

Sitografia

https://sites.google.com/view/crisistranslation/home

https://hhi.harvard.edu

https://www.ready.gov

https://translatorswithoutborders.org

https://www.unige.ch/inzone/