di Maria Luisa Lombardo
autrice di Mihail Sebastian, Da duemila anni, Roma, Fazi, 2018 (da De două mii de ani…, București, Editura Cartex, 2016)
Capita, talvolta, di avere l’onore e la fortuna di tradurre uno dei propri scrittori preferiti, com’è capitato a me con il romanzo-diario di Mihail Sebastian De două mii de ani…. Perché un traduttore, non dimentichiamocelo, è in primo luogo un lettore, con i suoi gusti e le sue passioni. E capita anche ai traduttori, quantomeno così è nel mio caso, di sprofondare nell’atmosfera del romanzo, di mettersi nella pelle dello scrittore, con la speranza di poter trasmettere quanto più fedelmente il suo messaggio, o anche solo perché si viene travolti dal vortice della scrittura.
Quando si traduce un libro “difficile” come quello di Sebastian, la traduzione richiede uno sforzo extra. Non dovuto a difficoltà lessicali, sintattiche o stilistiche tuttavia, giacché in questo senso la prosa di Sebastian è in generale fluida, cristallina, con pochi intoppi. Si tratta piuttosto di una difficoltà emotiva, di quel nodo allo stomaco che si materializza quando bisogna ricreare con la stessa tragicità e lucidità quel terribile e al contempo consolatore sentimento della solitudine ebraica. È stato lo stesso autore a indicarmi la maniera di superare i peggiori momenti d’impasse, spingendomi a adottare una prospettiva straniante, da semplice osservatore (un po’ come fa Maurice Buret seduto al tavolo del caffè Coupole di Parigi, o come tenta di fare, con o senza esito, anche il protagonista), e ripetendomi tutto il tempo che, in fin dei conti, «la vita è semplice».
In Da duemila anni, Mihail Sebastian dipinge, con una forza intrisa di eleganza e poesia, un vivido quadro della società romena (ma anche europea, e in particolare francese) dagli anni venti fino all’inizio degli anni trenta, sullo sfondo di un clima profondamente antisemita. È un turbinio di idee che si accavallano, si scontrano e a volte si disperdono nel panorama europeo di quel decennio, dove nazismo, antisemitismo, nazionalsocialismo, sionismo ecc. scatenano un clima di fermento e il desiderio di violenti stravolgimenti.
Mirabili sono, a mio parere, i riferimenti alla cultura, alla storia e alla letteratura ebraica e yiddish (quella del ghetto declamata dal venditore ambulante Abraham Sulitzer, «viva, con nervi, sangue, con le sue disgrazie, con le sue bellezze», contrapposta all’ebraico ridicolo dei dizionari o in bocca agli ebrei ricchi), elegantemente veicolati nel testo con immagini e descrizioni piene di pathos, come la malinconica canzone di Ianchelevici Șapsă che l’autore riporta in romeno, per poi citare il verso principale in yiddish a ieider i-id a melăh…Oppure il grido oi vei e achichi azoi lanciato da alcuni ragazzini a un ebreo in caffettano, che ho preferito non tradurre, in parte per rispettare il testo originale, ma sopratutto per infondere maggiore carisma al discorso di Abraham Sulitzer sulla forza vitale dello yiddish, per molti considerato un gergo, una lingua di periferia.
Al di là di questo, il testo è un continuo altalenarsi di «momenti di spasmo», acceso lirismo e profonda introspezione, con frequenti flashback e cambi di scenario, che mi hanno spinto a optare per soluzioni stilistiche e lessicali volte a ricreare e rispettare la tormentata musicalità di questo romanzo-diario. Per riprodurre, ad esempio, la stessa drammaticità della scena in cui il protagonista si reca in visita all’amico S.T. Haim nella prigione sotterranea di Jilava, ho preferito spezzare in due il lungo periodo che, nell’originale, si chiude con la terrifica immagine della porta in fondo al corridoio, immagine che ho spostato in apertura del secondo periodo: «[…] tutto è tollerabile. A essere oscura e opprimente è solamente questa piccola porta di legno e ferro…».
Da lettrice, infine, mi rimane il sapore amarognolo di quell’estenuante ricerca della propria identità che sembra sfociare in uno stato di necessaria e dignitosa solitudine e in un’infinità di perché che si sfumano nella bianca luce del sole in un mattino di settembre.