Le frontiere dell’altro

UN CONVEGNO INTERNAZIONALE SU ETICA E POLITICA DELLA TRADUZIONE

di Saša Hrnjez e Søren Tinning

Le frontiere dell’altroIl convegno internazionale Le frontiere dell’altro. Etica e politica della traduzione, tenutosi a Torino l’11 e il 12 febbraio 2013 presso la Facoltà di Lettere e filosofia, ha mostrato come la tematica della traduzione, spesso lasciata ai margini delle discussioni filosofiche, possa essere considerata a pieno titolo come una questione centrale per il dibattito filosofico contemporaneo.

Prendere sul serio la rilevanza della traduzione, come hanno mostrato gli interventi dei vari relatori, significa intenderla non come una mera tecnica di comunicazione fra un linguaggio e l’altro, ma come un aspetto costitutivo profondo dell’esistenza umana. Un’indagine filosofica sulla traduzione – e sulle sue implicazioni etico-politiche, come pure il convegno si proponeva – appare perciò ineludibile, tanto più in un’epoca come la nostra, in cui la globalizzazione anche linguistica fa emergere in tutta la loro virulenza problemi come quelli dell’identità, della differenza, della relazione con l’altro, del linguaggio. La traduzione porta a interrogarsi su tutte queste questioni, su come tradurre da una lingua a un’altra (nel rapporto con l’altro), ma anche su come “tradurre” noi stessi, cioè l’esistenza dell’uomo e il suo essere situato nel mondo. Il tema della traduzione, in altre parole, solleva delle questioni su come interpretare e comprendere – e in questo senso “tradurre”– la condizione umana in un mondo ricco di differenze e di esperienze comuni.

Per gli ascoltatori questo percorso dalla traduzione al cuore dell’essenza dell’essere umano si è rivelato come una prospettiva sorprendente, perché ha permesso di vedere sotto un’altra luce le confusioni e le insicurezze della globalizzazione: non come fatti insensati e insuperabili, ma come aspetti ineludibili della convivenza umana, che richiedono una capacità di “traduzione” in grado di contemperare le identità e le differenze. Forse la nostra essenza va ridefinita, cosicché l’uomo non è più animal rationale bensì animal traductor?

A introdurre il tema della traduzione e del rapporto tra le lingue è ovviamente uno dei miti più antichi e più influenti della cultura occidentale. il mito della Torre di Babele. Tradizionalmente il mito è stato interpretato come un mito di punizione divina contro la superbia dell’uomo, ma esso può anche essere compreso come una sorta di salvezza dall’identico, da una verità monolitica che non lascia spazio né alla ricchezza e molteplicità del mondo né alla libertà di espressione e conoscenza umana. Silvana Borutti dell’Università di Pavia (Traduzione ed esperienza, traduzione e conoscenza) ha richiamato questo tema con un’interpretazione alternativa del mito di Babele. Una lingua, una verità assoluta, tende a sopprimere questa ricchezza, e il mito di Babele in questa prospettiva rappresenta una salvezza dalla povertà di conoscenza e dall’assenza di libertà umana. Riferendosi a Wittgenstein, che riteneva che «l’identità ha bisogno della differenza per emergere», Borutti intende l’intraducibile, ciò che non è mai riducibile a un’identità unica, come condizione sia per l’apertura alla ricchezza e al pluralismo dei significati del mondo umano sia per la libertà dell’uomo dal totalitarismo. Nonostante la sua irriducibilità all’identico, è però necessaria una riflessione continua sulla pluralità del senso: affinché l’intraducibile possa emergere occorre cioè che, nonostante la sua irriducibilità all’identico, esso sia comunque tradotto.

Ma di che cosa è segno la Torre di Babele? Essa è il simbolo della traduzione come operazione insieme necessaria e impossibile, è cioè segno dell’impossibilità di una sua compiutezza e della necessità di decostruire ogni constructum. Riferendosi a Derrida e al suo testo Des Tours de Babel e le sue riflessioni sul testo di Benjamin Il compito del traduttore, la relazione di Caterina Resta dell’Università di Messina (Jacques Derrida:
poetica e politica della traduzione) ha messo in rapporto il tema dell’intraducibile con il metodo della decostruzione. La missione del traduttore sta nel consentire la sopravvivenza (übersetzen come überleben) dell’opera. La traduzione è segnata sistematicamente da un “debito”, cioè da una differenza (nel senso del neologismo derridiano, différance) rispetto all’originale. Una differenza che attraversa anche la propria lingua, che perciò è sempre in esilio, in migrazione: Babele accade sempre anche all’interno di una stessa lingua. C’è sempre perciò, come scrive Derrida, più di una lingua in una lingua, e questa molteplicità di lingue è quel che sfida – richiede e rende impossibile – sempre la traduzione. Emerge qui l’aspetto anche politico della traduzione: la pluralità nella lingua e delle lingue richiede una responsabilità nei confronti di questa pluralità. Il mondo non è mai unico e comune, ma composto da isole legate da rapporti di traduzione, il che significa anche sempre di intraducibilità. L’immagine dell’arcipelago diviene così un’espressione della Torre di Babele.

Il tema etico-politico posto dalla traduzione è anche al centro dell’intervento di Donatella Di Cesare dell’Università della Sapienza di Roma (Per una politica del tradurre). Di Cesare ha ricordato che sin da Aristotele la storia della lingua è stata accompagnata dalla storia della politica: la diversità, e non tanto la pluralità delle lingue, è dunque un problema che merita un’attenzione filosofica, come è accaduto del resto in vari autori della tradizione romantica ed ermeneutica. In una storia della traduzione si possono individuare tre momenti: l’estraniazione dell’estraneo, l’appropriazione dell’estraneo, l’estraniazione del proprio. Quest’ultimo momento, l’estraniazione del proprio, è stato ben espresso dal teologo e filosofo ebreo Franz Rosenzweig, per il quale è necessario scuotere la propria lingua e trasformarla con la traduzione per mezzo dell’estraneo. Quest’idea ha come presupposto una visione della lingua materna in cui già il parlare in tale lingua natia è un tradurre. La traduzione non è solo interlinguistica, ma anche intralinguistica. Alla domanda su quale politica possa allora offrire la traduzione, Di Cesare si richiama a Walter Benjamin e alla sua idea di una lingua pura come telos di ogni traduzione. Questo tema benjaminiano viene rielaborato da Di Cesare come modello del dialogo tra le lingue: la politica del dialogo e della diversità, e cioè della traduzione, nel senso soggettivo del genitivo, contrasta l’uniformizzazione planetaria e l’imperialismo monolinguistico, che porta a una marginalizzazione, se non all’estinzione, delle lingue diverse. Il traduttore si rivela così come una nuova figura sovversiva che fa saltare i confini, al punto che – è questa la proposta politica che Di Cesare pone in conclusione del suo intervento – da porre l’esigenza di una nuova “Internazionale dei traduttori”.

Walter Benjamin è uno dei filosofi che è impossibile (e anzi illegittimo) trascurare quando si tratta della traduzione. A lui ha dedicato il suo intervento (I fichi di Ibiza.
Nome, esperienza e traduzione in Walter Benjamin) Chiara Sandrin, dell’Università di Torino. Secondo Sandrin, la figura della traduzione costituisce in Benjamin un tema che consente di superare la scissione moderna fra oggetto e soggetto. La traduzione è intimamente connessa alla facoltà mimetica che permette all’uomo di stabilire e produrre un rapporto col suo mondo che abbia un senso unificante, in contrasto con l’alienazione portata appunto dalla scissione moderna. A ciò mira il concetto di lingua pura, che Benjamin definiva come la lingua unificante di tutte le lingue, di tutte le differenze. Questa lingua non è da considerare come una lingua di significati trasparenti e uniformi, ma come la lingua divina, che comprende tutte le particolarità e perciò è infinitamente ampia e unica allo stesso tempo. Compito del traduttore, e della traduzione, è quello di far emergere dall’esperienza umana le tracce di questa lingua. Possiamo aggiungere che la biografia stessa di Benjamin è una denuncia del pericolo insito nella tendenza alla totalizzazione uniformante, alla ricerca di un unico Volk: Benjamin era un ebreo tedesco nell’epoca del nazismo, costretto alla fuga e poi suicidatosi quando stava per essere catturato dai tedeschi nel 1940.

Un intreccio simile tra problema della traduzione e politica si ritrova anche in José Ortega y Gasset, che  nel 1937 scrive Miseria e splendore della traduzione, testo che esplicitamente parla del tema della traduzione, ma che implicitamente presenta più di un riferimento al contesto politico della Spagna durante la guerra civile. Nel suo intervento (Esilio e traduzione: una lettura politica di Miseria e splendore della traduzione di José Ortega y Gasset) Francisco Martín, dell’Università di Torino, ha mostrato come la miseria della traduzione, legata all’esperienza dell’intraducibile, allo stesso tempo sia connessa allo splendore, come apertura ed esperienza dell’alterità. La traduzione riuscita non è quella che si richiude sulla propria lingua, ma quella che riesce in maniera più compiuta a fare da ponte fra l’originale e il lettore straniero, senza chiudere la porta alla possibilità di sfruttare in una maniera creativa le differenze da ambo i lati.  La funzione politica della traduzione per Ortega y Gasset sta nel tentativo che essa consente di gettare un ponte fra due posizioni opposte, rendendo possibile il processo, il dialogo, in breve la convivenza.

Quindi, la traduzione come costruzione di una relazione: per Adriano Fabris (Possibilità e limiti dell’incontro con l’altro nella relazione traduttiva) dell’Università di Pisa, il punto di partenza da cui dobbiamo partire è il fatto che non comprendiamo adeguatamente tutto della nostra esperienza del mondo. Se ci fosse solo familiarità, non ci sarebbe bisogno di tradurre. La traduzione è il modo in cui noi gestiamo il rapporto con l’alterità. Richiamandosi a Schleiermacher, che parlava della traduzione come mediazione tra due alterità (alterità del lettore e alterità dell’autore), Fabris ha posto la questione dell’equilibrio nella traduzione, come equilibrio tra il rispetto dell’alterità e il privilegio del rapporto. Riferendosi alla questione della traduzione letterale, per Fabris essa ha senso soltanto nel caso del testo sacro. Invece una traduzione è riuscita se attua un riferimento comune alla medesima cosa che il traduttore coglie e ritraduce nell’altra lingua, anche a prescindere da ciò che l’autore ha veramente detto. La dimensione etica e politica della traduzione fa parte di noi in quanto esseri relazionali: la traduzione produce infatti delle nuove relazioni. Compito del tradurre non è creare un nuovo senso, ma di ri-dire il senso che viene detto in un’altra lingua. Un’altra questione interessante che è stata posta è quella del rapporto tra filosofia e traduzione all’interno stesso del “fare filosofia”: si può parlare della traduzione tra diversi stili filosofici e diversi modi di filosofare?

Una riflessione sulla relazionalità resa possibile dalla traduzione viene proposta anche da Nikolaj Ivanov, dell’Università di San Pietroburgo (Principle of Versification:
Poesis and Noesis in the Structure of Hermeneutics). Per Ivanov, il concetto di traduzione deve essere riportato al cuore dell’essere umano, come un agire che costituisce la relazione dell’uomo con la sua verità esistenziale. L’azione del tradurre è fondamentalmente ermeneutica: come la pratica ermeneutica, essa rispecchia la risposta essenziale dell´essere umano nei confronti di se stesso e delle tante lingue che costituiscono la sua esistenza. In questa prospettiva, noi esseri umani troviamo il nostro fondamento, la nostra verità, nella pratica della traduzione. La verità del pensiero, in altre parole, si manifesta traducendo sia le esperienze e le relazioni quotidiane, sia – e questo più di tutto – la relazione col divino, col daimon, e la profondità di senso che essa ci offre. E così nella figura del divino Ivanov accoglie un altro tema importantissimo del convegno: la lotta per un senso profondo che si contrappone alla tendenza verso il superficiale, insita nell´ideale dell’identico. Per respingere l’ideale dell’identico e il desiderio di univocità bisogna gettare uno sguardo tanto nello spazio eterogeneo e multistratificato del senso quanto nella sua drammatica dinamica di tradursi sempre in nuovi e inattesi significati.

L’organizzatore della conferenza, Gaetano Chiurazzi, dell’Università di Torino, ha proposto nella sua relazione (Incommensurabilità ed esperienza dell’alterità: la traduzione tra ontologia ed etica) una teoria della traduzione che risponda al riconoscimento dell’irriducibilità del senso all’identico. Per illustrare questo punto, Chiurazzi si è riferito alla scoperta delle grandezze incommensurabili che ha sconvolto la matematica greca. La scoperta dei numeri incommensurabili ha infatti messo in forte crisi le ontologie basate sull’identico, come quelle dei pitagorici e di Parmenide. Queste ontologie consideravano l’essere come misurabile, e perciò riducibile e comprensibile tramite l’aritmetica, essendo la commensurabilità una condizione indispensabile per la riducibilità all’identità. I numeri incommensurabili, al contrario, hanno richiesto una rivoluzione ontologica, perché comportavano la necessità di comprendere l’essere nella sua differenza e come irriducibile all’identico, cioè alla misurazione. La risposta a questa esigenza ha comportato una rivoluzione ontologica dovuta all’introduzione del concetto di dynamis, e conseguentemente sulle nozioni geometriche di proporzione e analogia – tutte figure che consentono la possibilità del cambiamento e della molteplicità di senso. Partendo dall’ontologia dell’incommensurabile, Chiurazzi ha allora indicato come la filosofia di oggi debba considerarsene un erede. Proprio in un mondo dove la figura dell’identico si è rivelata problematica, non solo dal punto di vista teorico-ontologico, ma anche etico, come una figura del totalitarismo, la filosofia è chiamata a rifiutare il riduzionismo e rivendicare la possibilità di un senso aperto, dinamico, come proporzione e analogia: la traduzione, con la sua esperienza dell’incommensurabilità, e cioè, della differenza irriducibile, è il migliore baluardo contro il trionfo della misurazione, che oggi tende a realizzarsi sempre più in particolare nel mondo economico.

Nel convegno non poteva mancare la prospettiva di chi è più direttamente implicato nella pratica traduttiva, quella dei traduttori. Molto interessante è stata quindi la testimonianza su Esperienza del tradurre poesia: tra possibile e impossibile, di Evgenij Solonovich, dell’Istituto di letteratura Maksim Gorkij di Mosca, uno dei più importanti traduttori della poesia italiana in russo, traduttore di poeti come Montale, Zanzotto, Ungaretti, ma anche Dante e Petrarca. Citando Andrea Zanzotto e la sua affermazione che la poesia nasce e muore dentro una stessa lingua, Solonovich ha messo in questione la “naturalezza” del trascendere i confini di una lingua. Portando degli esempi tratti dalle sue traduzioni di Giuseppe Gioachino Belli, Solonovich ha mostrato quale potrebbe essere l’idea-guida nel metodo della traduzione: tradurre Belli come se avesse scritto in russo. Si opera così una sorta di ri-produzione dell’originale, di ri-poetizzazione di un autore dentro un’altra lingua. Inoltre, Solonovich ha ricordato il ruolo politico del traduttore nell’epoca sovietica. Qualche volta, nella situazione di censura, il traduttore poteva dire cose che come autore non avrebbe potuto dire, nascondendosi così dietro le spalle dell’autore straniero.  Sviluppando l’aspetto etico-politico della traduzione, Solonovich ha avvertito che la rigida censura politica di una volta viene ora in Russia sostituita dalla censura del costume.

Le riflessioni di Adalberto Mainardi, della Comunità di Bose, (“La lingua materna del poeta”. Traduzione come etica del pensiero) si sono concentrate invece sulla figura dello straniero e sulla lingua materna del poeta. Sono le questioni che emergono nella corrispondenza tra Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke: in una lettera a Rilke, Cvetaeva dice di non ritenersi una poetessa russa, perché per il poeta non esiste la lingua materna. Scrivere versi significa tradurre. Questi spunti di Cvetaeva vengono interpretati da Mainardi come un esercizio etico di ricerca della lingua madre. La concezione secondo cui non esiste la lingua materna si può leggere anche come il fatto che ogni lingua è lingua straniera. A partire dall’opera di Meschonnic e dei suoi lavori sul tema del ritmo, Mainardi ha fatto anche vedere, coll’esempio della traduzione del Salmo 1 in russo, in francese e in italiano, come una corretta traduzione debba anche preservare il ritmo dei versi.

Alberto Martinengo, giovane e promettente filosofo dell’Università di Torino, ha parlato del ruolo centrale della traduzione nella filosofia di Paul Ricoeur (L’interpretazione: dal conflitto alla traduzione. Il caso di Paul Ricoeur). In Ricoeur il legame fra traduzione, filosofia e politica assume un significato di primaria importanza. La filosofia di Ricoeur muove da un’ermeneutica del conflitto verso un’ermeneutica della traduzione, lungo un percorso di cui Martinengo lascia convincentemente intravedere il filo conduttore teorico e politico. L’ermeneutica del conflitto costituisce infatti ancora il fondamento teorico delle riflessioni ricoeuriane sulla traduzione, tanto da divenire esplicitamente il campo paradigmatico di una riflessione politica volta all’emancipazione dal dogmatismo e dal riduzionismo del pensiero identitario. La traduzione si presenta infatti come una possibilità di accogliere l’altro e di prospettare un nesso tra teoria e prassi, tra difficoltà teorica della perfetta traduzione e necessità pratica di tradurre, che supera il modello dell’ermeneutica del conflitto.

Un argomento che ha permeato quasi tutti gli interventi delle due giornate del convegno, in cui il confronto si è arricchito di diverse prospettive filosofiche e traduttologiche, e che è stato poi ulteriormente articolato nelle discussioni, è il tema dell’intraducibile.  Affrontando il limite e le limitazioni del processo traduttivo si è, infatti, portati a riflettere su che cosa esso propriamente sia. Ovvero: la traduzione, scontrandosi con i limiti della propria possibilità, riconosce la propria natura – ermeneutica, decostruzionista o dialettica, etica e politica. Perciò, il caso della traduzione della poesia o dei testi sacri non è una “questione di nicchia”, né dal punto di vista metodologico né dal punto di vista puramente traduttologico. È lì, infatti, che emerge nella sua pienezza la questione dell’alterità e dell’esperienza linguistica del mondo (o dei mondi). L’impossibilità di tradurre qualcosa è coessenziale a ogni esperienza di traduzione. Cosicché è proprio il tentativo di tradurre l’intraducibile, l’esperienza della traduzione impossibile, lo stare sulla frontiera dell’Altro, nel tentativo di ospitarlo a rischio di “alterare” la propria lingua e le proprie possibilità, che mette in movimento la ricerca del senso, che produce nuove modalità di vivere e di convivere; il che chiama in causa anche un ripensamento politico ed etico. Apertura all’articolazione dell’impossibile nella scoperta di un nuovo mondo sociale da tradurre: non è proprio questa la domanda politica più urgente, oggi, quando tutte le possibilità sembrano esaurite?