La recensione / 1 – Teatro di parole

MA QUALI?

di Gianfranco Petrillo

pasolini+lingua_e_lingueLingua e lingue nel teatro italiano, a cura di Paolo Puppa, Bulzoni, Roma 2007, 354 pp., € 22
Pasolini e il teatro, a cura di Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini, Marsilio, Venezia 2012, 405 pp., € 37

Pochi sanno che uno dei primissimi cimenti di Pasolini, ancora liceale, fu un dramma. Ed era ancora all’università quando, contemporaneamente alle prime prove liriche, nel 1944 – durante l’occupazione tedesca – scrisse, per una rappresentazione locale, I Turcs in Friuli, completamente in dialetto friulano, la lingua delle vacanze estive trascorse nella Casarsa materna e poi dello sfollamento. Cominciava presto, quindi, la dura lotta personale del futuro poeta/narratore/regista/drammaturgo/saggista/polemista per chiudere l’abisso tra lingua parlata e lingua scritta, tra lingua “colta” e lingua “popolare”, che ha afflitto per secoli la letteratura e il teatro italiani. E che si presenta oggi in termini pressoché rovesciati, come invadenza di un “parlato” omogeneizzato e insapore – apparentemente abbattuti i dialetti – all’interno degli scritti.

Non c’è terreno entro il quale più ampio si spalanchi quell’abisso che il teatro. In quell’abisso – nello scarto tra «lingua del torchio e lingua del corpo» – «risiede di fatto l’anomalia del teatro italiano», scrive Paolo Puppa nel suo ampio contributo al volume da lui stesso curato (pp. 11-34). Ed è questo uno dei motivi per cui, se si eccettua il melodramma, è così povera la tradizione teatrale italiana rispetto a quella delle altre grandi potenze letterarie europee. Sarà un caso se il suo massimo rappresentante, Carlo Goldoni, stava con un piede di qua, nell’italiano, e l’altro di là, nel veneziano? O si dovrebbero piuttosto invertire i termini: di qua, nella realtà popolare, il dialetto, di là, nell’empireo letterario, la lingua da nessuno parlata?

Di questo si occupa il volume, «nato ai bordi di un Convegno internazionale tra amici», come scrive Puppa nella sua simpatica Piccola introduzione. Si tratta di una serie di saggi che, benché la cosa risulti solo saltuariamente esplicita, si occupano pressoché tutti di traduzione. Perché è questo che se ne ricava: creare azione scenica in Italia ha significato costantemente conquistare faticosamente una lingua che rispecchiasse la vita ma avesse dignità letteraria, ossia traducesse: traducesse non solo il parlato – sempre (almeno fino agli anni sessanta del Novecento) locale, ossia “dialettale”, anche ai piani alti della società – in lingua colta ma anche, nella folla di produzione dialettale che costituì almeno fino a Goldoni la vera tradizione teatrale italiana, il dialetto in dialetto letterario; creando di fatto un dialetto inesistente, insomma. Di questo bilinguismo si rese appunto conto Goldoni ed è su questa consapevolezza che fondò la sua riforma, che puntava a dare dignità letteraria a quella tradizione. Di ciò si occupa a fondo Piermario Vescovo (pp. 35-64), che rileva la varietà di registri linguistici e stilistici adoperati dagli autori (gli esempi più efficaci, dopo l’Unità per ambire a creare una lingua unica nazionale, sono il veneziano Giacinto Gallina e il milanese Carlo Bertolazzi) a seconda degli strati sociali che vogliono rappresentare sulla scena. Nella seconda metà del Novecento, con la progressiva “unificazione” cinematografico-televisiva della lingua (a cui la scuola si è arresa senza combattere: ma questa osservazione è mia), si è quindi assistito a una nuova divaricazione: da un lato la “sperimentazione” d’avanguardia e dall’altro un’ulteriore proliferazione di copioni dialettali, al limite della improvvisazione, a livello locale. Con la rinuncia, desumiamo, “a tradurre”.

Che la lingua teatrale fosse estremamente mobile e pronta a plasmarsi senza fissità né di registro né “nazionali” è dimostrato dalla raccolta di cinquantacinque copioni messa insieme, «a partire dalla rappresentazione», nel 1700 da Evaristo Gherardi, su cui si sofferma Paolo Martinuzzi (pp. 65-82); in quei testi «irrompono» sia termini dialettali in «“stile alto”», sia imprestiti dallo spagnolo e dai dialetti francesi. Il teatro italiano del Sei-Settecento – rileva Carmelo Alberti (pp. 83-104) – era un miscuglio di generi e di lingue teatrali; è lì che entra in scena – è il caso di dirlo – Goldoni, il quale affermava: «non sono accademico della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Veneto principalmente», con una – scrive Alberti – «combinazione di scritto e parlato» (p. 87): se non è traduzione, questa! Che è anche, come ogni traduzione veramente grande, creazione di lingua, una lingua che oggi ci appare, come era, artificiosa, perché in realtà non era parlata da nessuno ma nello stesso tempo non era più la lingua scritta della pedantesca tradizione bembiana.

Che all’indomani dell’unificazione nazionale sia sorto un vero e proprio problema di traduzione emerge esplicitamente nell’ampio saggio di Roberto Cuppone (pp. 119-166). Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento vi furono

numerosi e finora misconosciuti scambi di “traduzioni” interdialettali – ove si intenda il termine “traduzione” nella sua accezione più lata e funzionale, comprensiva del significato di “adattamento” e finanche di “riscrittura”: per esempio dal torinese, fiorentino, bolognese al veneto; e viceversa dal veneto al milanese, al genovese, al napoletano (p. 119).

Da questo dato, del quale porta numerosi e gustosi esempi, Cuppone trae una lezione che è analoga a quella che serpeggia in gran parte degli studi contemporanei sulla traduzione: è la lezione comparatistica, l’invito allo studio delle produzioni teatrali locali in modo sincronico piuttosto che diacronico, evitando la coltivazione di “storie” di ciascuna tradizione dialettale e quindi anche di «inquinare così di problemi identitari un fenomeno non ancora abbastanza conosciuto nella sua oggettività storica» (ibidem). Ne deriva anche la ripulsa per gli atteggiamenti accigliati verso le traduzioni dalla “lingua” al dialetto viste come un “abbassamento” di livello.

Le aree storicamente più vive di produzione teatrale in Italia sono quella veneziana e quella napoletana: non a caso di là è emerso Goldoni e qui è nato il melodramma come spettacolo popolare, l’opera buffa. Non ci stupiremo quindi se a queste due aree sono dedicati nel volume gli interventi più numerosi, su cui ci è impossibile dilungarci esaurientemente. Di ambito veneto, oltre agli interventi già citati, si occupa Gilberto Pizzamiglio, con attenzione specifica alla produzione neoclassica (pp. 105-118). Contributi particolari sono anche quelli di Alberto Bentivoglio, sul Meneghino di Giuseppe Moncalvo (pp. 167-190), di Pietro Gibellini sul teatro romanesco (pp. 191-212) e, per l’area napoletana, di Gaetana Marrone su una regia di Francesco Rosi di Napoli milionaria (pp. 243-254) e di Mariano D’Amora sul teatro di Giuseppe Patroni Griffi (pp. 255-280). Del teatro siciliano si occupano, con interventi che non riguardano i nostri interessi qui, Joseph Farrell (Il Vecchio e il Giovane: incontri e scontri nel teatro siciliano, pp. 281-302) e Anna Sica (La drammaturgia degli emarginati nella recente scena siciliana, pp. 303-330).

È dall’area napoletana che, con l’intervento di Antonia Lezza (pp. 213-242), emerge che, quando si voglia confrontarsi col rapporto tra “lingua” e “dialetto” sulla scena, non ci si può ridurre a un semplice «modello dualistico», ma occorre ricorrere a «un modello espressivo che potremmo definire plurilinguismo e pluristilismo», trattandosi di un rapporto «articolato e variegato, a seconda della formazione degli autori e dei generi teatrali utilizzati» (p. 213). Due esempi: Raffaele Viviani, che viene accolto con difficoltà sulle altre “piazze” per la sua aderenza al dialetto; e Eduardo Scarpetta che trova una sua medietà, un «linguaggio borghese […] uno strano miscuglio di dialetto e di italiano, «chiara testimonianza del parlato», che troverà poi l’espressione più felice in Eduardo De Filippo.

Più ambizioso, in un certo senso, è l’approccio di Stefania Stefanelli (autrice, d’altronde, di un volume intitolato Va in scena l’italiano. La lingua del teatro tra Ottocento e Novecento, pubblicato dall’editore fiorentino Cesati nel 2006), la quale, per esaminare I linguaggi del teatro di narrazione, dichiara programmaticamente di essersi giovata degli odierni mezzi tecnici di riproduzione per esaminare non – come è stato fatto in passato da insigni storici della lingua, segnatamente Giovanni Nencioni – i testi teatrali scritti, inevitabilmente non corrispondenti mai a ciò che va realmente in scena, ma le rappresentazioni riprodotte mediante registrazione audiovisiva. Stefanelli sottopone ad analisi comparata testo scritto e testo recitato di due opere, Radio clandestina di Ascanio Celestini e Maggio ’43 di Davide Enia (rievocazioni il primo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma nel marzo 1944 e del bombardamento di Palermo il secondo). In entrambi i casi – il romanesco di Celestini, il palermitano di Enia – il “recitato” risulta ovviamente più aderente del testo stampato alla lingua realmente parlata a Roma e a Palermo, ma in ogni cosa attraverso una mediazione che ne salva la comprensibilità da parte di fruitori/spettatori non appartenenti a quell’area regionale (operazione ovviamente più semplice per Celestini che per Enia, data l’imposizione del romanesco a tutta l’Italia da parte di cinema e televisione). Insomma, una traduzione.

Ricapitolando: quando abbiamo a che fare col teatro dialettale, avviene questo processo: c’è una storia/testo pensata, che viene tradotta in un testo scritto che si basa su una lingua parlata, il quale viene tradotto in una recitazione, a sua volta mentalmente tradotta in simultanea dallo spettatore nella propria lingua parlata.

Ma ciò avviene solo per il teatro dialettale? Non è ogni testo teatrale pensato, scritto, recitato, recepito in quattro lingue tra loro somiglianti ma in realtà diverse? Che vengono man mano tradotte?

Ed è a questo punto che può essere utile confrontarsi con l’esperienza di Pasolini, che è forse il letterato (ma non solo letterato) italiano del Novecento che più ha riflettuto sul problema della lingua e che si è misurato sia con la lingua “letteraria” che con più di un dialetto, sia in versi che in prosa, sia per la pagina scritta che per quella agita (sul palcoscenico e sullo schermo). Il volume edito da Marsilio è il frutto di due convegni organizzati rispettivamente dal Centro Studi pasoliniani di Casarsa e di Bologna e svoltisi autonomamente l’uno dall’altro, ma contigui nel tempo, nel novembre del 2010, e qui ci interessa solo per quanto attiene specificamente ai registri linguistici.

La consapevolezza linguistica di Pasolini si rivela – avverte Daniele Micheluz (pp. 11-18) fin dal dramma giovanile La sua gloria (1938), nel quale ogni personaggio si esprime a seconda della sua appartenenza sociale: il borghese in “italiano”, il popolino in dialetto (veneziano), i soldati occupanti (austroungarici) con un forte accento tedesco. C’è già in nuce, nel Pasolini giovane, una volontà di salvaguardia di una genuinità linguistica originaria – tutta immaginata e immaginaria, in realtà – che si coniuga e confligge col desiderio di rappresentare il reale presente e, insieme, una volontà pedagogica, da intellettuale illuminato che educa il popolo. Al pubblico friulano dei drammi dialettali del periodo di guerra si rivolge con l’intenzione di formare «una consapevolezza culturale»: il friulano, che «serba quella salute di volgare appena venuto alla luce» (sono parole della stesso Pasolini, citate da Maura Locantore, pp. 29-36), soddisfa il giovane poeta con la sua pretesa di verginità, la sua aderenza a una “piccola patria”, la potenzialità affettiva del linguaggio materno e, infine e soprattutto, il suo emergere da un mondo arcaico e contadino. Ma la preminenza di questa lingua “parlata”, di cui discorre Paolo Puppa (pp. 71-82), è «costruita su una griglia di rinvii continui e potenzialmente senza fine, di continui spostamenti e traduzioni da un linguaggio non sempre già posseduto» (Locantore, 30: il corsivo è mio). Le caratteristiche di questa lingua-impasto-traduzione come fattore costitutivo della personalità drammat- ica e –urgica riemergono nel Pasolini ultramaturo di Bestia da stile, non a caso detta e agita dal personaggio dello Spirito della madre. Scrive Laura Nascimben (p. 83): «un dialetto inventato che ha il sapore di un italiano regionale settentrionale deformato, denso di tratti semicolti e di sonorità “popolari”, […] non idioma reale, ma lingua inventata», «opzione manieristica» contro quel «linguaggio artificiale» che è l’italiano “scritto” (e allora, vien da dire, perché Pasolini ce l’aveva tanto con Dario Fo?).

È lo stesso sforzo che, nello stesso torno di tempo, contraddistingue l’opera drammaturgica di Giovanni Testori, anche lui convinto che la crisi del teatro in Italia fosse dovuta – ci informa Stefania Rimini (p. 101) – «alla sproporzione di una lingua incapace di aderire alle cose», quella che Testori stesso definiva una «mostruosa lingua media parlata», dalla quale ci si poteva salvare solo con una «recitazione espressionistica […] sopra la lingua [poeticizzazione] o sotto la lingua (secondo vere e proprie dissacrazioni sublinguistiche)». Ma rivelatrice in proposito è l’osservazione di Rimini, secondo la quale Testori poté grandemente avvantaggiarsi della collaborazione con un attore del calibro di Franco Parenti. Forse è a questa collaborazione che Testori doveva la fiducia che il teatro non fosse «scenico ma verbale. E risiede in una specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola».

Teatro di Parola, invocava infatti – lo sappiamo – Pasolini, contro quello della Chiacchiera (cioè quello convenzionale otto-novecentesco) e quello dell’Urlo (le avanguardie). Teatro di parola per recuperare il tragico, ucciso dalla modernità. E quale migliore occasione della traduzione di una tragedia greca per misurare la possibilità di realizzare questo assunto pasoliniano? Purtroppo il contributo di Gian Luca Picconi (pp. 129-139) sull’Orestiade tradotta per Vittorio Gassman non affronta affatto il tema linguistico, preferendo soffermarsi sui problemi interpretativi di regia affrontati in collaborazione con Franco Lucignani e facendoci così mancare un confronto decisivo. Resta il fatto – afferma Anne Julia Fett (pp. 140-149) – che i personaggi teatrali di Pasolini, come quelli coevi di Rainer Maria Fassbinder, parlano un linguaggio che è una lingua “straniera” o “estranea”, «che non possiedono, che non è la loro», ma che proprio per questo fa del teatro un «anti-medium di massa»; e in ciò risiede la sua «politicità».

Una lingua straniera? Qualcuno dovrà tradurla.