Le segnalazioni

di Anna Battaglia

A proposito di: Alberto Bramati, Le trappole del francese. Una grammatica per i traduttori dal francese all’italiano, Milano, Edizioni Libreria Cortina, 2019, pp. 423, € 29,00

Il testo affronta la traduzione (della lettera e non solo del senso) nella convinzione che solo l’analisi sintattica delle lingue coinvolte, possa produrre una traduzione corretta. I dizionari bilingui e le grammatiche contrastive sono in genere insoddisfacenti di fronte ai punti di conflitto che insorgono nella pratica traduttiva: l’opera vuole colmare questo vuoto. Il primo capitolo tratta de I quattro problemi del traduttore della lettera: problemi di tipo lessicale, grammaticale, retorico e melodico ritmico. Il secondo, Elementi di sintassi, illustra la terminologia che sarà usata, talvolta discordante con le abituali designazioni e categorie sintattiche. Gli otto capitoli che seguono esaminano otto tra i punti di conflitto più frequenti, secondo l’autore, nella traduzione dal francese all’italiano: il pronome clitico indefinito on; il pronome clitico en; il pronome relativo dont; il gruppo c’est; il vocabolo bien; il participe présent; la dislocation; la phrase clivée. Un rigoroso apparato terminologico, la dettagliata e minuziosa designazione e descrizione di ogni fenomeno linguistico incontrato fanno da contrappunto alla quantità di esempi di traduzioni tratti da un interessantissimo e aggiornato corpus di testi, non solo letterari, ma anche filosofici, scientifici… Gli esempi, frutto di una scelta particolarmente efficace, si susseguono copiosi nei capitoli, suddivisi per temi, e la loro presentazione grafica, a fronte, che li mette visivamente in evidenza, consente una possibile lettura parallela del volume, di grande utilità per ogni traduttore. La bibliografia ricca e aggiornata suffraga l’impostazione linguistica e stilistica delle teorie che il testo elabora nell’analisi delle pratiche traduttive.

 

di Barbara Ivančić

A proposito di: Stefano Ondelli, L’italiano delle traduzioni, Roma, Carocci, 2020, pp. 144, € 12,00

Inizia con un richiamo al filologo, lessicografo e traduttore di origini italiane John Florio, figura centrale della scena culturale elisabettiana, il recente L’italiano delle traduzioni di Stefano Ondelli (Carocci, 2020). Giustificando la sua traduzione inglese degli Essais di Montaigne (1603), Florio ribadiva, con un esplicito richiamo a Giordano Bruno, la centralità della traduzione nella circolazione delle idee e dunque nella diffusione della conoscenza. A distanza di quattro secoli, questa centralità non solo è o dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, ma sono gli stessi concetti di globalizzazione e di società della comunicazione, da cui Ondelli prende le mosse per descrivere il nostro tempo, a essere indissolubilmente legati alla pratica della traduzione. Pratica che, per quel che riguarda l’italiano, avviene in maniera preponderante dall’inglese, che si tratti di opere letterarie, di testi delle istituzioni europee, di dialoghi cinematografici o di altri prodotti audiovisivi. Vale allora la pena prendere in esame, come fa un attento osservatore delle tendenze dell’italiano contemporaneo quale è Ondelli, l’italiano delle traduzioni, analizzando le sue caratteristiche e ipotizzando, allo stesso tempo, gli effetti che ha o potrebbe avere sulla competenza linguistica dei parlanti e sul futuro sviluppo della lingua italiana. Questo tipo di analisi si intreccia inevitabilmente con la teoria degli universali traduttivi, con cui gli studi traduttologici presumono determinate caratteristiche linguistiche dei testi tradotti che non necessariamente si ritrovano in quelli non tradotti. Seppur controversa, l’ipotesi degli universali traduttivi offre una griglia descrittiva per studi di questo tipo che anche Ondelli adotta, illustrando prima le caratteristiche dell’italiano utilizzato nelle traduzioni di testi letterari e giornalistici, per poi estendere lo sguardo anche sui fumetti, sul doppiaggio e sulle traduzioni di testi prodotti dalle istituzioni dell’Unione Europea. Nel farlo, si richiama a ricerche svolte da vari studiosi, che spesso adottano strumenti forniti dalla linguistica dei corpora. Sono dunque descrizioni che si rivolgono a esperti in materia e che a tratti risultano molto condensate, data l’ampiezza e la varietà del campione preso in esame. Questo comporta anche l’impossibilità di trarre conclusioni generalizzabili, come ribadisce lo stesso Ondelli, il che non toglie però efficacia all’interrogativo di fondo che ci riguarda tutti e che chiama in causa il nostro rapporto con la lingua italiana.

 

di Alessio Mattana

A proposito di: Angela Albanese, A modo loro. Riscritture, transcodificazioni, dialoghi con i classici, Palermo, Palermo University Press, 2020, pp. 136, € 15,00

Nella ricca collana «Studi culturali» diretta da Michele Cometa per la Palermo University Press, è uscito sul finire del 2020 A modo loro, l’ultima monografia di Angela Albanese. In questo volume dedicato alla riscrittura dei classici, Albanese esplora i processi attraverso i quali un’opera canonica può venire riadattata, trasformandosi in qualcosa che è simile ma, allo stesso tempo, incommensurabilmente altro. Quattro casi di studio molto recenti (praticamente tutti prodotti negli ultimi trent’anni) vengono discussi da Albanese in altrettanti capitoli: U Tingiutu. Un Aiace di Calabria, trasposizione teatrale dell’Aiace sofocleo scritto dalla compagnia cosentina Scena Verticale; Gatta Cenerentola, film di animazione che riprende il canovaccio della fiaba di Giambattista Basile; l’Hamlet Travestie della compagnia di Scampia Punta Corsara; e i cosiddetti remake fototestuali delle opere di Bertolt Brecht (l’Abicí della guerra e la sua Bibbia personale annotata) dei fotogiornalisti Adam Broomberg e Oliver Chanarin. La scelta di questi case studies, così intriganti per la loro contemporaneità e per il grado di rielaborazione del cosiddetto “modello”, è indizio dell’ambizione dello studio di Albanese. In A modo loro viene certosinamente evitata qualsiasi metafora di filiazione genealogica al fine di esplorare la complessità intertestuale degli adattamenti, in un senso che si può quasi definire post-modernista. Non stupisce in effetti che i numi tutelari del volume di Albanese siano non solo i grandi esponenti francesi della fenomenologia – i Ricoeur, i Merleau-Ponty, i Didi-Huberman – ma anche la Linda Hutcheon di A Theory of Parody (1985) e l’André Lefevere teorico della traduzione come riscrittura. L’impianto metodologico che anima il lavoro di Albanese permette di contestare qualsiasi supposizione di linearità tra ipotesto e ipertesto: una tale astrazione filologica si rivela difatti incapace di descrivere realtà testuali complesse, le quali pullulano sempre di un numero indeterminato di “contaminazioni”. Questa considerazione, dal punto di vista degli studi traduttologici, implica che nelle traduzioni artistiche dei classici i discorsi sulla fedeltà al modello, e i relativi giudizi di valore, vengano necessariamente a cadere. Affermazione ambiziosa, certo, ma resa possibile dalla destrezza critica con cui Albanese affronta la questione dell’intermedialità e identifica i processi di ri-semantizzazione in atto negli adattamenti dei classici. Il risultato è un volume ricco di spunti per i cultural studies, per gli studi traduttologici e per le letterature comparate.

 

di Alessio Mattana

A proposito di: Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 144, € 16,00

Ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn scriveva che le più importanti scoperte, quelle che cambiano il modo in cui concepiamo il mondo, sono quasi sempre opera di persone o molto giovani o solo di recente interessatesi a un ramo della scienza che prima non conoscevano. Il motivo di questo fenomeno, proseguiva Kuhn, è che coloro non ancora adusi alle regole unanimemente accettate dalla comunità scientifica di riferimento sono gli unici in grado di pensare in modo creativo, e così risolvere problemi rimasti fino a quel momento irrisolti. Una delle cifre del lavoro critico prodotto da Franco Nasi negli ultimi anni – specie a partire dalla monografia Traduzioni estreme (Quodlibet, 2015) – consiste proprio nella continua pressione esercitata sul concetto di “regola” in relazione alla lingua, che è invece per Nasi entità viva, cangiante e giocosa (e, per converso, asservita al potere politico ogni qual volta questa viene irregimentata). In Tradurre l’errore, Nasi prosegue questa sua ricerca con un intento che è soprattutto pedagogico, cioè mostrare al lettore, con dovizia di esempi e commenti, che tradurre un testo è (prendendo in prestito la terminologia delle scienze sociali) un wicked problem: non un puzzle da risolvere, ma un gioco a esito indeterminato in virtù della sua mancanza di linearità e del fatto che qualsiasi fattore, compreso il trovare una soluzione, alimenta ulteriormente la complessità del problema stesso. Se qualsiasi fattore influenza un dato problema traduttivo, ne consegue che anche un errore può essere fecondo di senso. Nasi sposa questa tesi e invita i traduttori a prenderla in carico attraverso la propria creatività e il proprio senso critico. I cinque capitoli di Tradurre l’errore si muovono così tra giochi di parole, culturemi, indovinelli, poesie vincolate da contraintes e versi accompagnati da illustrazioni, con lo scopo di mostrare che proprio le traduzioni difficili, quelle che comportano sempre un qualche grado di approssimazione, rivelano la necessità di prendere decisioni, e dunque, ipso facto, commettere errori. L’importante è rifuggire dall’illusione che una traduzione, per quanto ben studiata, offra una soluzione definitiva al problema di come tradurre un dato testo. I traduttori, ci dice insomma Nasi, sono voce creatrice, e in quanto tali devono non solo prendersi la responsabilità delle proprie scelte, ma anche esercitare l’auto-critica socratica del “so di non sapere”, così da guadagnare sufficiente distanza dal proprio lavoro traduttivo e dalle griglie concettuali che inevitabilmente lo accompagnano. Il pregio maggiore del volume di Nasi è che questa imponente rivendicazione della capacità decisionale del traduttore non viene espressa dall’altare dell’oracolo – fare ciò significherebbe contestare un insieme di regole per poi proporne un altro – ma attraverso un approccio “debole” fatto di idee e tentativi. Un elogio della provvisorietà del tradurre, insomma, in cerca di una possibile soluzione di un dato problema traduttivo che mostri in filigrana la mano del soggetto traducente in tutta la sua umana fallibilità, anch’essa portatrice di senso. In questo, come appare chiaramente dal sottotitolo del volume, Tradurre l’errore non è un manuale ma un laboratorio creativo di traduzione: laboratorio evidentemente affine a quelli che Nasi stesso tiene con i suoi studenti dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, e di certo altrettanto prezioso.

 

di Alessio Mattana

A proposito di: Anna Aslanyan, I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia, traduzione dall’inglese di Enrico Griseri, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, pp. 288, € 23,00

La lunga esperienza di Anna Aslanyan come traduttrice editoriale e interprete giudiziaria – nonché come giornalista letteraria di successo: scrive, tra gli altri, per «The Independent», «London Review of Books» e «Times Literary Supplement» – si è riversata in Dancing on Ropes: Translators and the Balance of History, primo suo libro uscito nel 2021 per Profile Books e celermente (e competentemente) tradotto da Enrico Griseri con il titolo I funamboli della parola. Con la metafora circense, il titolo riprende il famoso ritratto di John Dryden del traduttore, figura che cerca non solo di danzare sulla corda, ma di farlo con le gambe legate. Per quanto un po’ privi di senno, i traduttori e gli interpreti, come ci mostra Aslanyan, sono sempre stati al centro della storia, a volte involontariamente, molto più spesso su loro iniziativa. Traduttori e interpreti – figure distinte ma per Aslanyan accomunate dall’attività di mediazione linguistica – calibrano non solo le parole ma anche i propri comportamenti, le proprie amicizie e la propria immagine sociale in base alla situazione specifica in cui si trovano. I funamboli della parola, libro senza alcun intento programmatico e che anzi evita qualsiasi pretesa di teorizzazione, ha lo scopo di tratteggiare una galleria di figure della mediazione linguistica alle prese con alcuni tra i nomi più importanti della storia della civiltà e della cultura, da Viktor Suchodrev, interprete degli allucinati discorsi di Nikita Chruščëv nella sua visita statunitense del 1959, a Norman Thomas di Giovanni, il traduttore pieno di sé che divenne amico di Jorge Luis Borges e lo persuase a pubblicare nuovamente degli inediti dopo un intervallo di otto anni. Il grande merito di questa godibile raccolta divulgativa di storie risiede nella luce che viene diretta sui “funamboli della parola”, luce che illumina non soltanto il loro lato di acrobati pronti a lasciare il pubblico sbalordito, ma anche quello di burattinai che, pur stando dietro le quinte per professione, non mancano di personalità e amor proprio. Nell’ombra, suggerisce Aslanyan tra le righe, sono forse loro a tenere le fila delle conversazioni che contano, decidendo così dei destini del mondo.

 

di Alessio Mattana

A proposito di: Samuel Johnson, Il viandante, tradotto dall’inglese da Daniele Savino, Torino, Nino Aragno Editore, 2019, pp. 1431, € 75,00

Delle opere del grande Samuel Johnson, l’arbiter delle lettere inglesi di metà Settecento, in Italia non è purtroppo giunto granché nel corso dei secoli. Il romanzo The History of Rasselas, Prince of Abissinia del 1759 venne sì tradotto molteplici volte, la prima nella traduzione del prelato Mimiso Ceo appena cinque anni dopo l’uscita dell’originale (e pare che negli stessi anni il più noto Giuseppe Baretti si sia cimentato anch’egli in una versione rimasta poi inedita), poi con periodiche ritraduzioni fino ai giorni nostri. Ma a parte ciò, si diceva, del vate inglese è arrivato poco, e pochissimo, fatta eccezione per una traduzione del «The Idler» (L’ozioso) pubblicata a Milano nel 1831, del Johnson giornalista e saggista. Ed è questo un peccato, perché proprio quel Johnson, considerato l’erede di Joseph Addison e Richard Steele, era notissimo nella Gran Bretagna dell’epoca, e l’influenza della sua scrittura su importanti periodici italiani come «Il Caffè» (1764–1766) sarebbe poi risultata decisiva. Occorre dunque segnalare con enorme riconoscenza e ammirazione l’impresa di Nino Aragno e Daniele Savino – il primo editore torinese di gran gusto, il secondo studioso attento del Settecento europeo e infaticabile traduttore – che hanno pubblicato, peraltro a pochi mesi di distanza dalla traduzione di un altro capolavoro di Johnson, il Viaggio alle Isole Occidentali della Scozia (sempre tradotto da Savino), la versione integrale dei 208 numeri del «The Rambler», la prima delle fatiche giornalistiche di Johnson uscita a Londra dal 1750 al 1752. Il viandante, qui accompagnato da una robusta introduzione e da una bibliografia critica opera di Savino stesso, è forse l’opera in cui più di tutte Johnson distillò la sua visione del mondo post-augustea di metà Settecento, offrendo non solo una serie di precetti morali, ma anche un modello di prosa dal registro elevato e classicheggiante al fine di formare la grande massa degli scrittori in erba a cui lui stesso, certo non nato tra gli agi dell’aristocrazia, era appartenuto. Aveva Johnson intuito, difatti, ciò che tanti scrittori italiani attenti alle cose inglesi dell’epoca avrebbero poi presto realizzato: cioè che il forgiare il carattere nazionale non poteva che passare attraverso la cura certosina della propria lingua.

 

di Roberta Sapino

A proposito di: Roberto Cicala, I meccanismi dell’editoria. Il mondo dei libri dall’autore al lettore, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 272, € 24,00

Docente di editoria libraria e multimediale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano oltre che direttore editoriale di Interlinea Edizioni, Roberto Cicala sembra pensare soprattutto ai suoi studenti – e in generale agli studenti universitari o post-universitari – nel redigere questo denso compendio delle conoscenze che chiunque si avvicini al mondo dell’editoria dovrebbe possedere, arricchito da un’estensione digitale sulla piattaforma Pandoracampus. In dodici brevi capitoli, nei quali l’autore rende conto anche, per quanto possibile, dell’impatto della pandemia da Covid-19 sulla filiera editoriale, il volume delinea i confini delle varie figure professionali che contribuiscono alla creazione di un libro, traccia a grandi linee i flussi di lavoro all’interno di una casa editrice, riflette sulle modalità di distribuzione e promozione – anche digitali, audiolibri e podcast compresi – che permettono al testo di raggiungere il lettore, ricostruisce brevemente le traiettorie di attori e progetti di rilievo nell’editoria italiana e, in alcuni casi, straniera. Nel dipinto che Cicala realizza della «cucina editoriale», per riprendere parole di Calvino che l’autore stesso cita (p. 105), il traduttore risulta un ingrediente un po’ marginale: a lui sono dedicate quattro pagine in cui del mestiere viene detto poco (mentre si discute rapidamente la nozione di “fedeltà” e molto si dice di ciò che nella traduzione può andare perso), a fronte del fatto che, constata l’autore, un quarto dei libri pubblicati in Italia è tradotto da lingue straniere. Ma nell’insieme il testo ha il merito di illustrare – e con molta chiarezza: è senz’altro utile, considerato il pubblico ideale del volume, la scelta di spiegare brevemente tutti i termini propri all’ambiente editoriale man mano che vengono utilizzati – l’operato della vasta gamma dei professionisti che contribuiscono alla fabbricazione del libro inteso come oggetto, e di invitare a pensare la filiera editoriale come un complesso reticolo di iniziative in cui gli interessi culturali e commerciali appaiono inscindibili.

 

di Chiara D’Ippolito

A proposito di: Gian Carlo Ferretti, Il marchio dell’editore. Libri e carte, incontri e casi letterari, Novara, Interlinea, 2019, pp. 384, € 20,00

Non una semplice raccolta di saggi e articoli, ma un percorso ragionato nella carriera, e nella vita, di uno dei più grandi storici dell’editoria italiana e decano della nostra critica letteraria, Gian Carlo Ferretti. Un’autobiografia intellettuale, potremmo quasi dire: non a caso, Racconto di una vocazione è il titolo che Ferretti ha voluto dare all’introduzione di questo volume che mette insieme – in «un muro solido e nuovo» fatto di «mattoni vecchi mai usati prima», «mattoni nuovi» e «mattoni appositamente impastati» – gli scritti, spesso riveduti, che provengono da più di cinquant’anni di studio del nostro “mercato delle lettere” e alcuni saggi inediti. E che si apre, appunto, con un’ampia ricostruzione, dal tono quasi intimo e lucidamente nostalgico, della nascita e dell’evoluzione di una «vocazione, passata dal giornalismo alla critica letteraria alla storia dell’editoria con le stesse motivazioni di fondo». Il filo che lega il libro è lo stesso a cui Ferretti è rimasto fedele lungo tutta la sua vicenda professionale – colmare i vuoti, cercare le storie che mancavano, trattari temi e autori non studiati o trattati frammentariamente – e i saggi sono dunque organizzati seguendo lo spirito – quello del cronista – e il principio – la ricerca del nuovo – che l’hanno guidato fin dal primo articolo di argomento editoriale, scritto a ventun anni per «Il Tirreno» e messo in apertura della raccolta. A uno studio su Gramsci – che, scrive Ferretti, «mi ha dato per primo una sensibilità, un’attenzione, un interesse per la produzione e il mercato delle lettere, per i rapporti tra autore, editore, critico e lettore» – seguono le due corpose parti di cui è composto il volume e che sono a loro volta suddivise in diverse sezioni: gli editori, i letterati editori, gli scrittori, i casi, il prodotto, il contesto, le esperienze personali. Così organizzati, i 48 scritti – che immancabilmente mettono insieme la necessità della ricerca d’archivio e il gusto per l’aneddoto, il racconto dei fatti umani e lo studio dei processi e del prodotto – diventano per il lettore un percorso nella produzione e nel mercato editoriale italiano. Ma anche la dimostrazione di quanto in profondità Ferretti abbia saputo interpretare la storia dell’editoria italiana, non distogliendo mai lo sguardo dalle sue contraddizioni e nemmeno dall’analisi del contesto culturale del nostro paese e del difficile rapporto tra cultura e lettura.