Le traduzioni tedesche del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

di Chiara Sandrin

Nel 2019 l’editore Piper di Monaco ha pubblicato la terza traduzione tedesca del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (Lampedusa 2019). Presso lo stesso editore il romanzo era stato pubblicato per la prima volta nel 1959 con il titolo Der Leopard nella traduzione di Charlotte Birnbaum (Lampedusa 1959). Frutto di una feconda collaborazione con la vedova di Tomasi di Lampedusa, Alessandra Wolff-Stomersee, ricordata con gratitudine in ogni successiva edizione tedesca del romanzo, la traduzione di Charlotte Birnbaum ha segnato una prima, fondamentale tappa nella ricezione tedesca del romanzo. Nel 1996, in un intervento presentato al convegno italo-tedesco organizzato in occasione del centenario della nascita di Tomasi di Lampedusa, che, in coincidenza con il ventennale della morte di Visconti, aveva ridestato un interesse generale per il romanzo, Willi Hirdt riconosceva come criterio distintivo della classicità del Gattopardo, la sua “lingua” e individuava lo stesso carattere classico dell’originale anche nella versione di Charlotte Birnbaum, che avrebbe dimostrato, con la sua aderenza allo stile dell’originale, di poter restare la traduzione tedesca definitiva, in grado di resistere «allo sguardo critico e di far morire sul nascere il desiderio di un’altra versione» (Hirdt 2001, 99).

Nell’ultimo ventennio del secolo scorso, tuttavia, l’autorità di Charlotte Birnbaum (1903-1986), traduttrice, oltre che di Lampedusa, tra gli altri, anche di Cesare Pavese, era stata già messa in discussione dalla nuova traduzione, a cura di Maja Pflug, del Mestiere di vivere (Das Handwerk des Lebens, (Pavese 1988)) e della Bella estate (Der schöne Sommer, (Pavese 2000)), tradotti entrambi dalla Birnbaum rispettivamente nel 1956 e nel 1964). È la stessa Maja Pflug a illustrare, in un suo intervento intitolato Pavese neuübersetzen: der richtige Ton(«Ritradurre Pavese: “il tono giusto”»), presentato al convegno di Villa Vigoni dal titolo «Ritradurre i classici: quando e perché?» Sul fenomeno delle ritraduzioni di classici italiani e tedeschi nelle rispettive lingue (3-6 marzo 2010), a illustrare le ragioni che avevano reso opportuna una nuova traduzione di Pavese (Kleiner 2014, 135-141) Maja Pflug, importante traduttrice, fin dagli anni Settanta, di autori come Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Pierpaolo Pasolini, e, vale la pena di ricordare subito, insignita del premio Christoph-Martin-Wieland nel 1999 proprio per la traduzione del Mestiere di vivere, riconosce a Charlotte Birnbaum il merito di aver presentato il diario pavesiano al pubblico tedesco già nel 1956, solo quattro anni dopo la sua pubblicazione, tuttavia le rimprovera il fatto di non aver tenuto nella giusta considerazione le riflessioni poetologiche che vi erano contenute. Il linguaggio e il tono ridondante ed enfatico della traduzione di Charlotte Birnbaum infatti sono secondo Maja Pflug inadatti a rendere lo stile volutamente disincantato e scarno adottato da Pavese, esplicitamente orientato al modello degli scrittori nord americani che in quella fase della sua vita erano al centro del suo interesse, come emerge appunto dalle considerazioni contenute nel diario stesso. L’operazione di Maja Pflug è molto consapevolmente orientata a intervenire sul testo sulla base di una lettura attenta e di uno studio paziente delle intenzioni dell’autore, che avrebbero dovuto consentire di ricostruire nella traduzione «il tono giusto» dello stile di Pavese, in un confronto critico con la traduzione dei medesimi testi pavesiani tradotti da Charlotte Birnbaum che ne ha infine reso evidente l’obsolescenza.

Quando dunque, in seguito alla pubblicazione presso Feltrinelli, nel 2002, di una nuova versione del Gattopardo con l’aggiunta di alcune pagine ancora inedite, si renderà necessaria una traduzione aggiornata del romanzo, il giudizio di Willi Hirdt sull’insostituibilità della versione di Charlotte Birnbaum era stato superato di fatto e nel 2004 uscirà per l’editore Piper, con la postfazione di Gioacchino Lanza Tomasi e con un glossario a cura della traduttrice Giò Waeckerlin-Induni, la seconda traduzione tedesca, radicalmente diversa dalla precedente, con il titolo Der Gattopardo (Lampedusa 2004).

Ticinese di nascita, cresciuta a Zurigo, viaggiatrice appassionata, Giovanna Waeckerlin-Induni, che nel 2012 ha dedicato un libro alle ricette e alla casa della sua infanzia, nella Valle di Blenio, Sonntags rührte Nonno die Polenta. Erinnerungen an die Küche der Villa Rosellina im Bleniotal (La domenica il nonno girava la polenta. Ricordi della cucina di Villa Rosellina nella Valle di Blenio traduzione mia) (Waeckerlin-Induni 2012), dopo molte esperienze e alcuni viaggi esotici, si è dedicata alla traduzione, affrontando molti autori diversi. Il nome di Lampedusa, di cui per l’editore Piper ha tradotto anche Ein Literat auf Reisen. Unterwegs in den Metropolen Europas (Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930) (Lampedusa 2009), compare, nella lunga lista degli autori da lei tradotti, accanto a quello di Blaise Cendrars, di Romain Gary e di molti altri, tra cui anche alcuni scrittori di lingua creola. In particolare proprio le sue traduzioni dal francese creolo presentano interessanti punti in comune con la traduzione del Gattopardo. In queste traduzioni è stata osservata infatti la scelta di insistere sull’effetto di estraneità provocato da termini incomprensibili nella lingua d’arrivo e quasi una volontà da parte del traduttore di sostituirsi all’autore (Dumontet 2000, 171-175) Certo, Waeckerlin-Induni mostra un evidente gusto dell’invenzione anche nella sua traduzione del Gattopardo, caratterizzata dalla decisa messa in discussione proprio di quella “classicità” così apprezzata da Willi Hirdt nella lingua di Charlotte Birnbaum. La sua personalità emerge con decisione, nella pervicacia con cui ribadisce la sua idea del romanzo, fondata su alcuni criteri informatori rapidamente conquistati e fermamente sostenuti e su una lettura che sembra tendere all’essenziale ed eliminare il superfluo, ma rischia infine di essere semplicemente superficiale.

Più che dalla ricerca del “tono giusto”, il suo modo di intendere la traduzione è infatti determinato da un orientamento sostanzialmente bellettristico, che, se le consente una facile lettura dei testi, allo stesso tempo sembra impedirle di comprenderne la serietà.

La prima e più evidente modifica della sua traduzione rispetto a quella precedente è la sostituzione del titolo, intesa come risposta a un’osservazione di Andrea Vitello, il quale, sottolineando la «tendenza alla metafora» della scrittura di Lampedusa (Vitello 1987, 229-230) affermava che

Lampedusa metaforizza così di continuo da assuefare il destinatario ad un gioco quasi convenzionale […]. Occorre ricostruire tutta una rete di figure […] che, rinviando a significati latenti o impliciti, suggeriscono di individuare i sistemi di relazioni tra le parole, per scoprire la chiave del linguaggio poetico. (Ibidem)

Vitello riconosceva proprio nel titolo «la prima, grande metafora»del romanzo, e affermava che

le traduzioni (dall’inglese The Leopard al francese Le Guépard, dal tedesco Der Leopard all’olandese De Tijger Kat allo svedese Leoparden) non hanno reso il senso dell’ironia racchiusa nella metamorfosi araldico-letteraria che trasforma il leopardo dei Tomasi nel gattopardo dei Salina, cioè in un leopardo di formato ridotto, molto più piccolo. (Vitello 1987, 401)

La questione del riferimento zoologico è particolarmente significativa per Giò Waeckerlin-Induni, che ripercorre, con puntiglio filologico, le diverse accezioni e derivazioni del termine, inserendo il risultato di questa comparazione come motto in esergo alla sua traduzione: «lat: Felis pardalis, Felis servalis/ital.: gattopardo, servalo, ozelot/ted.: Serval, Ozelot, Pardelkatze/ stor.: Pardus, Parde, Parder, Pardel» (Lampedusa 2004, 5).

Se lo svizzero Georg Sütterlin, nella sua recensione per la «Neue Zürcher Zeitung» del 7 agosto 2004, esprimeva apprezzamento per la novità della traduzione di Giò Waeckerlin-Induni, a suo parere più concisa e asciutta della precedente, e per questo in grado di esprimere con più efficacia la distanza critica di Lampedusa rispetto al mondo aristocratico che egli, «riconoscendo l’ineluttabilità dei rivolgimenti politico-sociali, descriveva con profonda malinconia ma anche con sarcasmo, gettandolo nella discarica della storia», Lothar Müller, nel suo intervento sulla «Süddeutsche Zeitung» del 29 giugno 2004, intitolato Ein Pardel in Piqué-Hosen (Un Gattopardo in pantaloni di piqué), esprimeva qualche riserva sulla scelta editoriale di trasformare Der Leopard in Der Gattopardo. Voler giustificare questa scelta con la necessità di rispettare un’idea portante del romanzo, vale a dire l’idea di mostrare la decadenza dei Salina attraverso la trasformazione dell’animale araldico in un felino di rango inferiore, significa secondo Lothar Müller non riconoscere già in quel Leopard dalla zampata sempre più debole tutta l’amara ironia della rappresentazione della decadenza sua e del suo mondo.

Un giudizio decisamente più severo sulla traduzione di Giò Waeckerlin-Induni è stato autorevolmente pronunciato da Burkhart Kroeber, Meisterlicher Übersetzer italienischer Literatur («traduttore magistrale della letteratura italiana», traduzione mia), come suona il titolo del comunicato stampa con cui nel luglio del 2020 le due associazioni tedesche dei traduttori e degli scrittori (rispettivamente il Verband der Literaturübersetzer, VdÜ, e lo Schriftstellerverband, VS) hanno voluto festeggiare il suo ottantesimo compleanno. Dopo il dottorato in Egittologia,  dopo una decennale attività redazionale presso l’editore Hanser, accompagnata da traduzioni di opere saggistiche (come Critique de la vie quotidienne di Henri Lefèbvre (Lefebvre 1975 ) e il libro su Kafka di Deleuze e Guattari (Deleuze 1976)), a partire dal 1982, con la traduzione del Nome della rosa (Der Name der Rose) di Umberto Eco (Eco 1982), si dedica esclusivamente alla traduzione. Oltre all’intera opera, saggistica e letteraria, di Umberto Eco, traduce, tra gli altri, Italo Calvino e Fruttero e Lucentini. A partire dagli anni Novanta ha affrontato, anche sul piano teorico, il tema dell’opportunità, o della necessità, di nuove traduzioni dei classici. In occasione del convegno di Villa Vigoni Ritradurre i classici: quando e perché?, già menzionato, Kroeber è intervenuto con un contributo sulla sua ritraduzione dei Promessi sposi (Die Brautleute), compiuta tra il 1995 e il 1999, in cui insiste su alcuni argomenti emersi durante lo studio che ha accompagnato questa attività e che egli ritiene debbano restare i presupposti fondamentali del compito del traduttore, che egli individua soprattutto nel rispetto dell’«architettura linguistica dell’originale», nella «fedeltà alla sintassi dell’originale» (Kleiner 2014, 103-119).

È a partire da questa impostazione dello studio e della pratica della traduzione e dalla prospettiva metodologica all’interno del progetto di un nuovo confronto con i classici che va osservata la sua decisione di intervenire dopo la seconda traduzione tedesca del Gattopardo, in cui egli ha individuato numerose incongruenze, sul piano lessicale, stilistico e addirittura grammaticale, tali da fargli ritenere indispensabile tradurre nuovamente il romanzo. La decisione muove infatti proprio dal disappunto provocato dalla traduzione di Waeckerlin-Induni.

Se si fosse rimasti alla traduzione di Charlotte Birnbaum – scrive infatti Kroeber – mi sarei accontentato di segnalare alcuni punti zoppicanti, come per esempio quello della celebre massima di Tancredi, formulata come uno slogan graffiante, che invece nella sua traduzione suona: Wenn wir wollen, daß alles bleibt wie es ist, dann ist nötig, daß alles sich verändert (Se vogliamo che tutto rimanga come è, allora è necessario che tutto cambi) (invece di Wenn wir wollen, dass alles so bleibt, wie es ist, muss alles sich ändern (Se vogliamo che tutto rimanga come è, tutto deve cambiare). […] Nel complesso la prima traduzione è tuttavia corretta ed evidentemente impegnata a rendere con grande fedeltà, nella scelta lessicale e nella sintassi, le particolarità stilistiche dell’originale (anche se la sottile ironia il più delle volte si perde per strada). (Kroeber 2018, traduzione mia)

Determinante per la sua decisione inderogabile di proporre una nuova traduzione del romanzo è stata la necessità,

di individuare debitamente l’alto valore letterario di questo romanzo. […]Già la forma originale della narrazione, che apparentemente si richiama ai modelli tradizionali del romanzo storico del XIX secolo (motivo per cui in Italia è stato inizialmente rifiutato in quanto “retrogrado”) ma che in realtà impiega tutti gli strumenti moderni del discorso indiretto libero, nel suo agile passaggio al monologo interiore, infrangendo ripetutamente la prospettiva della narrazione, lo pone al livello dei classici della modernità […]. A questo si aggiunge la sua scelta lessicale allusiva e la sua sintassi raffinata, intrisa di sottile ironia […]. Tutti questi elementi dovrebbero essere “trasportati” attraverso la traduzione nel modo più fedele possibile, senza che appaia forzato o artificioso. (Kroeber 2018, traduzione mia)

Per questi motivi, Kroeber ha dunque deciso di tradurre comunque il romanzo, anche prima di sapere se l’editore Piper, che detiene i diritti fino al 2028, avrebbe accettato di pubblicarlo prima di quella data.

La sua nuova traduzione si basa sull’«Edizione conforme al manoscritto del 1957» e intende, a partire dal titolo, che riprende quello della prima versione tedesca, sorvolare sulle controverse questioni filologiche, aggiunte e correzioni, che in diverse occasioni non sembrano giustificare una trasformazione del testo.

Esaminando più attentamente la traduzione di Waeckerlin-Induni alla luce delle critiche espresse da Kroeber, per quanto riguarda i difetti minori da lui segnalati, si può condividere per esempio la critica rivolta alla scelta della traduttrice di non tradurre, analogamente alla pratica già adottata nelle traduzioni dal creolo, alcune espressioni probabilmente incomprensibili per il lettore tedesco, come quelle formulate in dialetto napoletano, «E e ’ppeccerelle che fanno?» o «Maccarrune e belle guaglione», o anche l’appellativo «Zione» con cui Tancredi si rivolge al Principe. Spiccano poi alcune scelte lessicali piuttosto ardite, tutte riconducibili, secondo Kroeber, all’intenzione di Waeckerlin-Induni di adottare un linguaggio mordace, in grado di segnare la distanza dal tono classicheggiante della prima traduzione. Per ricordare solo un esempio: dove, nella prima pagina dell’originale si legge: «l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche», che nella versione di Charlotte Birnbaum recita wo ihre Röcke schwingend zurückwichen, wurden nach und nach die nackten mythologischen Gestalten frei, Waeckerlin-Induni traduce Das wippende Zurückweichen ihrer Röcke entblößte die mythologischen Nackedeis, utilizzando un termine del linguaggio colloquiale, Nackedei, appartenente a un registro troppo grossolano per ottenere quell’effetto ironico che il contesto sembrerebbe richiedere e che la traduzione forse intendeva suggerire.

Una critica molto più rilevante che Kroeber rivolge alla traduzione di Giò Waeckerlin-Induni riguarda proprio la scelta del titolo, Der Gattopardo, una scelta che, ricondotta agli interventi necessari all’interno del testo per la resa dello stesso termine e dei suoi derivati può certamente suscitare molte perplessità.

Nel romanzo si trovano ventuno ricorrenze del termine “Gattopardo”

 formalmente e interpretativamente determinabili: in media, meno di una ogni dieci pagine. Delle ventuno, tre si trovano nella Parte prima, cinque nella seconda, quattro nella terza, cinque nella quarta, due nella sesta, una nella settima e una nell’ottava. La Parte quinta, in cui si narra del viaggio e del soggiorno di padre Pirrone nella natia S. Cono, non ne conta nessuna. (La Fauci 2010, 102)

Il Gattopardo, inteso come l’animale raffigurato nello stemma di casa Salina, compare per la prima volta nel terzo capoverso del romanzo, portato in trionfo all’interno del corteo delle divinità mitologiche maggiori raffigurate nell’affresco della sala di Villa Salina in cui si è appena conclusa la recita del rosario:

Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità […]  e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. (Lampedusa 2011, 27-28)

Charlotte Birnbaum, nella traduzione del 1959, sceglie di mantenere la posizione di rilievo, alla fine della proposizione, con cui nel testo originale si presenta la figura dell’animale che compare sullo stemma:

In den Fresken der Decke erwachten die Gottheiten. […]und die höheren Götter, die Fürsten unter den Göttern, der blitzeschleudernde Jupiter, der finster blickende Mars, die schmachtende Venus, die den Scharen der minderen vorangeeilt waren, hielten mit Vergnügen den blauen Wappenschild mit dem Leoparden. (Lampedusa 1959, 8)

Nella sua traduzione del 2004, Waeckerlin-Induni preferisce invece vedere l’animale nella sua stretta connessione con lo stemma e lo riduce così solo a una parte di un termine composto, Pardelwappen, il cui significato viene inoltre ulteriormente ridimensionato dal fatto di non comparire più a conclusione di una frase principale, ma di essere invece inglobato all’interno di un costrutto più complesso:

Auf der Deckenfreske erwachten die Gottheiten. […] während die Hauptgötter, die Fürsten unter den Göttern, der Blitze schleudernde Zeus, der finster blickende Mars, die schmachtende Venus, den Haufen Mindere überflügelt hatten und lautselig das blaue Pardelwappen stützten, wußten sie doch, daß …  (Lampedusa 2004, 12)

Dopo essere ricomparso in diverse occasioni come elemento decorativo o architettonico rispettivamente sul vasellame di famiglia, sui cappelli dei campieri o su frontoni di chiese e vari edifici, il Gattopardo come figura araldica viene nominato per l’ultima volta nel terzultimo capoverso, nell’ottava e ultima parte del romanzo, dove compare come decorazione di un asciugamano nella casa delle sorelle Salina.

 [Don Pacchiotti] Ricomparve dopo cinque minuti e si asciugava le mani con un grande asciugamano sull’orlo del quale un Gattopardo in filo rosso danzava. «Dimenticavo di dire che le cornici sono in ordine sul tavolo della cappella; alcune sono veramente belle». Si congedava. «Signorine, i miei rispetti». Ma Caterina si rifiutò di baciargli la mano. «E di quel che c’è nel cestino cosa dobbiamo fare?» «Assolutamente quel che vogliono, signorine; conservarle, o buttarle nell’immondizia; non hanno valore alcuno». (Lampedusa 2011, 264)

Anche in quest’ultima ricorrenza, in cui è stato individuato un significato altamente simbolico (La Fauci 2010, 107), Charlotte Birnbaum sceglie di far risaltare nella sua autonomia il Gattopardo, sebbene esso sia individuato ormai con l’articolo indeterminativo, diversamente dalla prima ricorrenza, dove compariva accompagnato dall’articolo determinativo: Nach fünf Minuten erschien er wieder mit einem großen Handtuch, auf dessen Rand ein rotgestickter Leopard tanzte (Lampedusa 1959, 333).

Nella traduzione di Charlotte Birnman la figura danzante di ein rotgestickter Leopard emerge  ora solo come traccia del tempo in cui, nel «superbo e fittizio cielo del soffitto, […] l’arme dei Salina era sostenuta dallo stuolo degli dei dell’Olimpo» (La Fauci 2010, 107). Adesso un Gattopardo compare sull’«umile oggetto quotidiano con cui Don Pacchiotti, un prete cattolico, si deterge le mani dalla polvere» (Ibidem).

Waeckerlin-Induni, secondo i presupposti su cui si fonda la sua traduzione, ha già trasformato l’identità dell’animale, che nel corso della narrazione è diventato ora un Pardel, ora una Pardelkatze. In quest’ultima ricorrenza l’animale è individuato come eine mit rotem Garn gestickte Pardelkatze»: Er erschien nach fünf Minuten wieder und trocknete sich die Hände mit einem großen Handtuch, auf dessen Saum eine mit rotem Garn gestickte Pardelkatze tanzte (Lampedusa 2004, 316).

Ein rotgestickter Leopard, tuttavia, molto più di eine mit rotem Garn gestickte Pardelkatze, è in grado di restituire in tutto il suo significato la portata della trasformazione simbolica evocata dal Gattopardo nella sua ultima raffigurazione, sperduta nel contesto dell’accumulo delle reliquie senza valore delle vecchie sorelle Salina. La perdita irrecuperabile del legame con l’antico prestigio della figura è visibile nella sua tragicità proprio mantenendo l’immediatezza del confronto, anche grottesco, con il modello originale: ein rotgestickter Leopard permette di riconoscere ancora il Gattopardo portato in trionfo, anche se è ormai precipitato dal soffitto affrescato, mentre eine mit rotem Garn gestickte Pardelkatze porta sulla scena una controfigura che ha già vissuto tutte le sue umiliazioni e ora si propone come maschera, inverosimile, dell’originale.

Il simbolo del Gattopardo, nelle sue varianti e nelle sue allusioni, può essere seguito nel corso del romanzo proprio grazie alla ricorrenza del termine, sempre lo stesso, e dei suoi derivati, in luoghi e situazioni diverse.

Forse non è corretto identificare semplicisticamente il Gattopardo con Don Fabrizio. Il simbolo è certamente più complesso. Tuttavia, in varie ricorrenze del termine, Don Fabrizio è visto come il Gattopardo. Nella seconda parte, per esempio, la folla dei contadini, muta, associa con naturalezza il Gattopardo araldico all’«autentico Gattopardo»:

La folla dei contadini era muta ma dagli occhi immobili traspariva una curiosità non ostile, perché i villici di Donnafugata non avevano nulla contro il loro tollerante signore che così spesso dimenticava di esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, avvezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima alle fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano curiosi di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire a tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese.«Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima, anzi». (Lampedusa 2011, 73)

Anche in questo caso, Waeckerlin-Induni si preoccupa di insistere su una questione che evidentemente ritiene fondamentale e, diversamente dall’originale, usa due parole diverse per distinguere il baffuto Gattopardo architettonico (die schnurrhaarige Pardelkatze) dall’«autentico Gattopardo in pantaloni di piqué» (den echten Pardel in Piqué-Hosen):

 und schließlich, gewohnt, die schnurrhaarige Pardelkatze an der Fassade des Palastes, am Frontispiz der Kirche, auf den Brunnen, auf den Majolikafliesen der Häuser tanzen zu sehen, waren sie gespannt, jetzt den echten Pardel in Piqué-Hosen und freundlich lächelnd herzliche Prankenhiebe austeilen zu sehen. Tatsächlich, alles ist wie früher, besser als früher sogar. (Lampedusa 2004, 67)

Nella traduzione di questo passo, inoltre, Waeckerlin-Induni omette il «volto di felino cortese» in cui si allarga il sorriso di Don Fabrizio, quel sorriso che introduce e accompagna, come gesto significativo, la sua soddisfazione riguardo all’immutabilità delle cose: «Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima, anzi». La traduzione di Charlotte Birnbaum metteva invece in evidenza l’insistenza dell’originale sul motivo felino. Lo stesso passo, nella sua traduzione recita:

 und dann gewohnt, den schnurrbärtigen Leoparden aufgereckt über der Palastfassade zu sehen, über der Kirchenfront, oben auf den barocken Brunnen, auf den Majolika-Kacheln der Häuser, waren sie vergnügt darüber, daß sie jetzt den authentischen Leoparden sahen, wie er in Hosen aus piqué freundschaftliche Tatzenhiebe an alle austeilte, als höfliches Katzentier ein Lächeln im gutmütigen Gesicht.  Nichts zu sagen – alles ist geblieben wie es war, ja besser als es war. (Lampedusa 1959, 70)

Anche per Burkhart Kröber è importante insistere sulla fisiognomica felina, ed egli anzi interviene sull’originale, aggiungendo nel contesto un verbo (verziehen: “atteggiare”, “storcere”, “contrarre”) che mostra la trasformazione del volto nel sorriso. L’allusione ai tratti felini del volto “atteggiati” al sorriso, o forse “distorti” dal sorriso, accompagna il pensiero di Don Fabrizio sullo stato delle cose conferendogli una particolare enfasi:

 und da sie schließlich gewohnt waren, den Leoparden hochgereckt mit gespreizten Schnurrhaaren an der Fassade des Palastes zu sehen, am Giebel der Kirchen, auf dem barocken Brunnen und als Wappentier auf den Majolikafliesen der Häuser, waren sie froh, jetzt den echten Leoparden in Piqué-Hose vor sich zu sehen, wie er freundschaftliche Tatzenhiebe nach allen Seiten austeilte und sein gutmütiges Katergesicht zu einem huldvollen Lächeln verzog. »Da kann man wirklich nichts sagen. Alles ist so geblieben, wie es vorher war, ja besser als vorher. (Lampedusa 2019, 75)

Il sorriso di Don Fabrizio è del resto un motivo ricorrente nel romanzo. È il tratto attraverso il quale egli viene spesso accostato alla fiera leggerezza del Gattopardo danzante effigiato sull’emblema. Il suo sorriso è infatti definito “Gattopardesco” nel passo in cui, offeso dall’ardire di Ciccio Tumeo nei riguardi di Angelica, la futura Principessa Falconeri, raccoglie e placa la propria ira in un’espressione di amicizia: «Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: “Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi”» (Lampedusa 2011, 128; la maiuscola di «Gattopardesco» è nel testo).

Il sorriso “gattopardesco”, anzi «il più gattopardesco sorriso» tornerà ad affiorare, autoritario e rassicurante, sul volto di Don Fabrizio anche alla fine del pranzo con Chevalley:

Alla fine del pranzo si avvicinò a Don Fabrizio e lo pregò di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l’indomani mattina; ma il Principe gli spiaccicò una spalla con una manata e col più gattopardesco sorriso: «Niente affatto, caro cavaliere» gli disse «adesso Lei è a casa mia e la terrò in ostaggio sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr’occhi sino al pomeriggio». Questa frase che avrebbe terrorizzato l’ottimo cavaliere tre ore prima lo rallegrò invece adesso. (Lampedusa 2011, 172)

In queste due ricorrenze dell’aggettivo “gattopardesco” la traduzione di Waeckerlin-Induni sfiora lo straniamento, se non addirittura il ridicolo:

Nella prima ricorrenza, «un sorriso gattopardesco» diventa ein(em) pardelkaterschen Lächeln (Lampedusa 2004, 130); nella seconda ricorrenza «col più gattopardesco sorriso» diventa mit dem pardelkaterschsten Lächeln (Lampedusa 2004, 184).

Il sorriso è un tratto riconducibile al Gattopardo araldico, al quale viene attribuito come segno caratteristico quando compare come genio tutelare nell’enumerazione dei feudi di casa Salina:

Salina, l’isola dalle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma…; Querceta …; Ragattisi …; Argivocale…; Donnafugata…; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. (Lampedusa 2011, 49)

In questo passo il sorriso del Gattopardo è immediatamente collegato ai suoi lunghi baffi, un particolare ricorrente della sua raffigurazione e che nella versione originale, significativamente, conclude la frase. Delle tre traduzioni tedesche, solo quella di Kroeber sceglie di conservare questa disposizione del testo. Birnbaum, pur enfatizzando il particolare dei baffi con l’aggiunta dell’aggettivo “dicht” (folti) all’aggettivo “lang”, chiude la frase con la figura del Gattopardo: und noch viele andere Güter, alle beschirmt von dem sauberen, beruhigenden Himmel, von dem zwischen seinem langen, dichten Schnurrbart lächelnden Leoparden (Lampedusa 1959, 36).

Waeckerlin-Induni sceglie anche in questo caso di trascurare particolari giudicati forse poco interessanti e conclude la frase con l’azione protettiva, espressa dal verbo beschützten, di una Pardelkatze baffuta e sorridente: und viele andere mehr, alle unter dem klaren, tröstenden Himmel von der unter ihren langen Schnurrhaaren lächelnden Pardelkatze beschützt (Lampedusa 2004, 37).

Kroeber decide di seguire con molta fedeltà il tratto descrittivo, quasi stenografico, dell’originale: rispetta l’assenza dell’articolo determinativo prima di «cielo terso e rassicurante» e conserva il particolare dei «lunghi mustacchi» a conclusione della descrizione: noch viele andere Güter, alle beschützt, unter ruhigem klaren Himmel, von einem lächelnden Leoparden mit langen Schnurrhaaren. (Lampedusa 2019, 39)

I baffi sono un tratto distintivo del Gattopardo araldico, insistentemente ricordato insieme al gesto della zampa anteriore atteggiata quasi a un passo di danza, ed è proprio grazie all’attenzione, abilmente suscitata nel lettore, per questi particolari che la traccia di questo emblema riemerge nell’immagine conclusiva del romanzo, in quel mucchietto di pelliccia tarlata di Bendicò, che, gettata dalla finestra perché sia portata via con le altre immondizie, nel volo sembra prendere la forma di un «quadrupede dai lunghi baffi», con l’anteriore destro alzato, che adesso sembra imprecare (Lampedusa 2011, 265).

Peraltro questa immagine, così importante sul piano simbolico, e tutta la straordinaria densità della pagina conclusiva, con le sue ultime parole: «Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida», nella traduzione di Waeckerlin-Induni si condensano nel registro, diciamo, disinvolto che la contraddistingue. Charlotte Birnbaum traduceva questo laconico sigillo conclusivo seguendo le regole ortodosse della grammatica tedesca: Dann fand alles Frieden in einem Häufchen bleichen Staubes (Lampedusa 1959, 334). Waeckerlin-Induni, che adotta invece volutamente per tutta la sua traduzione il modo spavaldo, trasgressivo, grezzo con cui intende correggere la classicità della traduzione precedente, “modernizza” le ultime parole del romanzo sostituendo il genitivo (ufchen bleichen Stauben) con il dativo (ufchen fahlem Staub) e nella sua versione le ultime parole del romanzo suonano: Dann fand alles Frieden in einem Häufchen fahlem Staub (Lampedusa 2004, 317). Ed è a questo punto che Kroeber interviene indignato, ricorrendo al titolo (Der Dativ ist dem Genitiv sein Tod: Il dativo è per il genitivo la morte) di una recente, fortunata serie di libri di Bastian Sick, pieni di arguzie sull’uso della grammatica tedesca : Jawohl, fahlem, der Dativ ist dem Genitiv sein Tod… und das am Ende eines derart subtil formulierten Romans! (Sissignore, fahlem: il dativo è per il genitivo la morte […]E questo alla fine di un romanzo dalla composizione così raffinata!) (Kroeber 2018). Come dargli torto?

Il tono sbrigativo adottato in generale da Waeckerlin-Induni si conferma anche nel suo modo di riportare la famosa sentenza di Tancredi, su cui anche Kroeber aveva riflettuto a proposito della traduzione forse un po’ ridondante di Charlotte Birnbaum. Nella versione di Waeckerlin-Induni il celeberrimo «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» viene reso in una formulazione che sembra trascurare alcuni importanti passaggi riguardanti la sottilissima elaborazione all’interno del romanzo della visione del mondo e della storia di cui questa frase e le sue variazioni si fanno interpreti. La sua traduzione suona infatti: Wenn alles bleiben soll, wie es ist, muß sich alles ändern («Se tutto deve restare come è, tutto deve cambiare»), dove si elimina il soggetto ‘noi’, sostituendolo con un neutro alles («tutto»). L’eliminazione del soggetto «noi» implica però l’eliminazione del coinvolgimento attivo di questo stesso soggetto nella formulazione della sentenza, un coinvolgimento che riguarda anche l’altro, l’interlocutore, cui Tancredi si rivolge infatti con un significativo cenno d’intesa: «Mi sono spiegato?». Si tratta dunque di un intervento impegnativo, che sembra ignorare gran parte della discussione teorica sul significato «politico» del romanzo, soprattutto per quanto riguarda il pensiero politico che i dizionari della lingua italiana, proprio in relazione a questa frase, segnalano sotto la voce «gattopardismo» o «gattopardesco». La frase di Tancredi, rimasta in sospeso con la sua domanda: «Mi sono spiegato?», accompagnerà la riflessione successiva di don Fabrizio, che infine, dopo alcuni importanti passaggi, la comprenderà «a fondo». Dopo l’incontro con Ciccio Ferrara:

Rimasto solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle classi che sarebbero divenute dirigenti. «Quel che dice il buon uomo è proprio l’opposto della verità. Compiange i molti figli di mamma che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che è poi la stessa cosa. Crede invece ai “tempi gloriosi per la nostra Sicilia” come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E, del resto, perché avrebbe dovuto succedere? E allora che cosa avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato». Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la rivista. Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria. (Lampedusa 2011, 51)

Come ha osservato Edward Reichel, nonostante non vi siano documenti che attestino inconfutabilmente la conoscenza diretta da parte di Lampedusa degli storici delle «Annales», nel Gattopardo si può individuare una raffigurazione della storia molto simile a quella esposta da Fernand Braudel nel suo celebre libro Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (Reichel 1981, 45), una copia del quale era comunque presente nella biblioteca dello scrittore (Ginzburg 2015). Il passo appena citato, come molti altri, offre comunque una rappresentazione esemplare della complessità della concezione della storia all’interno del romanzo e delle sorprendenti analogie tra questa concezione e quella di Braudel, tanto che, secondo Reichel,  si potrebbe pensare che Lampedusa abbia fondato la poetica del suo romanzo sulla storiografia di Braudel (Reichel 1981, 45). Il libro di Braudel osserva la storia da tre prospettive diverse: une histoire quasi immobile (Braudel 1982, 13), [«una storia quasi immobile»] (Braudel 2002, XXVII),  une histoire lentement rythmée (Braudel 1982, 13) «una storia lentamente ritmata»( Braudel 2002, XXVII) e infine l’histoire événementielle(Braudel 1982, 13),  «la storia ¢événementielle’» (Braudel 2002, XXVII) ossia la storia secondo la dimensione non dell’uomo, ma dell’individuo. Queste tre prospettive corrisponderebbero secondo Reichel alla raffigurazione del corso della storia, che, all’interno del Gattopardo è osservato, esattamente come in Braudel, nella sua immobilità, condizionata dalla geografia e dal clima, nella lenta costituzione della storia sociale, e infine nella dimensione rapida, breve, nervosa, effimera, della storia individuale.

La riflessione del Principe appena citata, che ha preso avvio allontanandosi dalle nebulose, attraversando il corso della storia, osservando il carattere di un popolo, il qui ed ora degli eventi, rielabora dunque la sentenza di Tancredi eliminando il tratto volitivo, sostenuto dal soggetto «noi», che la caratterizza: il soggetto «noi»,

 un pronome di prima persona, nella scala dei pronomi personali, la punta massima di marcatezza e l’indice più chiaro che l’orizzonte di riferimento del discorso è contingentemente un hic et nunc.  (La Fauci 1193, 1181)

Diversamente da Tancredi, Don Fabrizio, «nell’estrema riduzione del percorso conoscitivo […], premessa indispensabile del rasserenamento, suggella invece le proprie riflessioni in una frase dominata da una terza persona, la «non persona» (Ibidem): «e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato». A questa spersonalizzazione del discorso corrisponde un mutamento di prospettiva nei pensieri del Principe, che, dall’attenzione rivolta agli argomenti scientifici contenuti nella rivista che stava sfogliando e dalla riflessione su quella che Braudel definirebbe la «storia sociale» si concentra adesso sul profilo del paesaggio circostante, con uno sguardo sullo spazio, immobile ed eterno, in cui quella storia, il suo popolo e gli eventi si raccolgono: «i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria». Le parole con cui questo passaggio si chiude conducono nella dimensione della «storia quasi immobile» (Braudel 2002, XXVII)  di Braudel, «quella dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente che lo circonda: una storia che scorre e si trasforma lentamente, fatta molto spesso di ritorni ricorrenti, di cicli sempre ricominciati» (Ibidem). La successione degli aggettivi, «arsicci, scavati ed eterni», sottolinea il carattere primigenio, scabro, immutabile degli elementi costitutivi di quel paesaggio. Charlotte Birnbaum coglie l’importanza di questa successione e ne rispetta la gerarchia interna, decidendo di mantenerla immutata, con la preminenza attribuibile all’aggettivo ewig (eterni), che chiude significativamente la sequenza. La sua traduzione, impeccabile, della frase in questione («Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria») recita: Er betrachtete die Abhänge des Monte Pellegrino; sie waren ausgedörrt, zerklüftet, ewig wie das Elend. (Lampedusa 1959, 39)

Kroeber propone invece una lettura in cui si accentua l’intervento attivo del Principe nel mutamento di prospettiva del suo rapporto con il mondo circostante in seguito alla comprensione “profonda” della sentenza di Tancredi:

Er beruhigte sich und hörte auf, in der französischen Wissenschaftszeitschrift zu blättern. Stattdessen betrachtete er die zerklüfteten Hänge des Monte Pellegrino, die ihm ausgedörrt und immergleich wie das Elend vorkamen.  (Lampedusa 2019, 42).

Nella sua traduzione si ricorda che la rivista che il Principe decide di lasciare da parte è una rivista scientifica francese (un particolare che nell’originale non compare) e si accentua il carattere personale della scelta di osservare stattdessen/«invece» i fianchi del monte, che sono zerklüftet [pieni di crepacci], e che ihm [a lui] appaiono ausgedörrt und immergleich wie das Elend [riarsi e sempre uguali come la miseria]. Nella traduzione di «eterni» con immergleich si accentua il carattere costante, ripetitivo, immutabile della condizione della miseria, ma si perde purtroppo proprio l’allusione a quella dimensione  storica presque hors du temps, au contact des choses inanimées, (Braudel 1982, 13) «quasi fuori del tempo, a contatto delle cose inanimate» di cui parla Braudel in apertura del suo saggio (Braudel 2002, XXVII) e che sembra così significativa in questa e in tante altre pagine del testo originale.

Per quanto riguarda di Waeckerlin-Induni, si deve ancora una volta notare l’approssimazione con cui è trattato anche questo passo, che nella sua traduzione recita: Er beruhigte sich und vergaß, in der Zeitschrift zu blättern. Er betrachtete die versengten, ausgehöhlten und wie das Elend ewigen Abhänge des Monte Pellegrino (Lampedusa 2004, 40). Il don Fabrizio che qui vergaß («si scordò») di sfogliare la rivista appare come un personaggio indolente e svogliato che nello spazio di fronte a sé vede stagliarsi soprattutto la mole del monte Pellegrino, collocato a conclusione del periodo, come dominatore imponente dell’intera immagine. Il significato dei singoli aggettivi che descrivono i suoi versanti, die versengten, ausgehöhlten und wie das Elend ewigen Abhänge, quasi scompare, assorbito nella loro stessa declinazione, in cui vengono uniformemente amalgamati, tutti insieme, ognuno al servizio dell’altro, senza peso autonomo, senza delimitazione, senza che a separarli ci sia quello spazio vuoto necessario alla loro specifica, singola comprensione. Manca cioè quella ricerca di “significato” della parola singola che nel testo originale è invece molto evidente, nella scansione quasi scolpita nella pietra dei tre aggettivi, secondo quell’arte della disposizione delle parole che gli antichi chiamavano harmonia austèrá, «armonia aspra».

La questione dello stile è del resto davvero molto impegnativa per il traduttore del Gattopardo e basterebbe tenere presenti le pagine che Lampedusa dedica agli autori da lui prediletti, come per esempio quelle della lezione su Stendhal (Lampedusa 2011, 1858-1916), per desumere che per il suo romanzo egli abbia inteso orientarsi su quei modelli, fondati su un rigore compositivo di somma raffinatezza.

Che questo fosse il registro stilistico da rispettare era ben chiaro a Charlotte Birnbaum, che nella sua traduzione ha cercato di seguire rigorosamente la ricchezza lessicale, i rimandi metaforici, i dettagli, sia pur minimi, di una scrittura fondata su argomenti taciuti, su tracce invisibili, perché, come sottolineava lo stesso Lampedusa, nel suo romanzo non vi è nulla di esplicito.

Giò Waeckerlin-Induni sembra invece (volutamente o ingenuamente) ignorare la solidissima formazione culturale di Lampedusa, trascurare i suoi riferimenti – ironici certo – al patrimonio della cultura classica, e soprattutto confondere la sua nota ammirazione per lo stile disadorno «spoglio di qualsiasi belletto, alieno da ogni parola ricercata, nemico del ritmo intenzionale, avaro di aggettivi» (Lampedusa 2011, 1874) con una malintesa disinvoltura o incuria.

Per esempio, il dotto, tacito riferimento di don Fabrizio al proverbiale pecunia non olet («il denaro non puzza») all’interno della sua riflessione durante il colloquio con Ciccio Tumeo, alla rivelazione da parte di quest’ultimo sul nonno di Angelica, detto Peppe Mmerda, nella traduzione di Waekerlin Induni diventa incomprensibile, come è stato già segnalato da alcuni lettori rappresentativi (Literaturklub 2017).

L’originale recita: «Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. “Non olet” ripeteva “non olet” anzi “optime foeminam ac contubernium olet“» («non puzza, non puzza, anzi, ha un meraviglioso profumo di donna e di connubio» traduzione mia (Lampedusa 2011, 127)

Waeckerlin-Induni traduce: Angelica war Angelica, ein blühendes junges Mädchen, eine Rose; der Spitzname des Großvaters hatte ihr bloß als Dünger gedient. Non olet, wiederholte er, ja „non olet optime foeminam ac contubernium olet”  (Lampedusa 2004, 128), dove l’espressione in latino, oltretutto nel latino particolarmente elitario della tradizione medievale-barocca con cui si esprime Don Fabrizio, ha perduto ogni senso.

Per quanto riguarda l’ammirazione di Lampedusa per lo stile “magro” stendhaliano, va sottolineato che nella sua scrittura l’adozione di questo carattere risalta particolarmente quando si presenta in contrapposizione, o forse in un ben calcolato equilibrio con lo stile “grasso”, per certi versi, almeno apparentemente, a lui più congeniale (Barenghi 2017, 230). La traduzione deve mettere in luce la sapiente contrapposizione e la ricerca di equilibrio dello stile “grasso” e dello stile “magro” nel Gattopardo. In uno dei passi in cui questa ricerca è evidente viene descritto il giardino di Donnafugata nell’ora del tramonto, osservato da Don Fabrizio:

Dopo un’ora si svegliò rinfrancato e discese in giardino. Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto. Il viale principale scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso; e da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite. Vi si diresse, svelto, avido di rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi, dalle narici dei mostri marini, le acque erompevano in filamenti sottili, picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino, suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti; dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore. Su d’un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno scalpello inesperto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava un’Anfitrite vogliosa: l’ombelico di lei inumidito dagli spruzzi brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombra subacquea. Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo. (Lampedusa 2011, 85)

Lo sguardo di Don Fabrizio coglie l’immagine preziosa nell’attimo del suo rovesciamento, nella pausa in cui il desiderio si confonde con la memoria e il rimpianto: «Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo». La ricchezza lessicale con cui il giardino è stato disegnato si condensa nella comunicazione sincopata, paratattica di uno stato d’animo, con un cambiamento stilistico così repentino, da far apparire come un’invenzione immaginifica, come preziosa retorica, la descrizione che lo precede. Affinché lo stile secco, allusivo, della conclusione risalti in tutta la sua forza evocativa, è fondamentale che la traduzione mantenga il doppio registro e conservi intatta la ricercatezza del linguaggio descrittivo precedente.

Riportiamo qui di seguito il passaggio finale di questo brano nella traduzione di Charlotte Birnbaum:

Aus den großen Muscheln der Tritonen, aus den kleineren der Najaden, aus den Nasenlöchern der Meerungeheuer kamen die Wasser in feinen Fäden hervor, schlugen mit scharfem, weithin vernehmbarem Ton auf die grünliche Oberfläche des Beckens, prallten zurück, erregten Blasen, Schaum, Wellenlinien, leichte Schauer, lachende Strudel; dem ganzen Brunnen, den lauen Wassern, den mit samtigen Moosen umkleideten Steinen entströmte das Versprechen einer Lust, die sich nie in Schmerz würde wenden können. Auf einem Inselchen in der Mitte des runden Beckens packte ein von einem unerfahrenen, aber sinnlichen Meißel geformter Neptun eifrig und lächelnd eine willige Amphitrite; ihr von den Spritzern befeuchteter Nabel blinkte in der Sonne – binnen kurzem im Schatten unter Wasser eine Stätte heimlicher Küsse. Don Fabrizio hielt an, schaute, dachte zurück, beklagte Verlorenes. So blieb er lange. (Lampedusa 1959, 85)

Lo stesso passaggio nella traduzione di Giò Waeckerlin-Induni recita:

Aus den Konchen der Tritonen, aus den Muscheln der Nereiden, aus den Nüstern der Meeresungeheuer ausgespien, schossen die Wasser in dünnen Fäden hervor, tüpfelten mit stechendem Plätschern die grünliche Oberfläche des Beckens, verursachten Aufspritzen, Blasen, Wellen, Erschauern, anmutige Wirbel; den lauen Wasser, den mit samtenen Moos überzogenen Steinen, dem ganzen Brunnen entströmte die Verheißung einer Lust, die sich nie in Schmerz wandeln würde. Auf einem Inselchen in der Mitte des runden Beckens klammerte sich, von einem unbeholfenen, aber sinnlichen Meißel geformt, ein munterer Neptun lächelnd an eine lüsterne Amphitrite; ihr von den Spritzern befeuchteter Nabel glänzte in der Sonne, binnen kurzem im grünblauen Wasserschatten Nest verborgener Küsse. Don Fabrizio blieb stehen, schaute, erinnerte sich, betrauerte. Verharrte lange. (Lampedusa 2004, pp. 79-80)

E questa è infine la versione di Burkhart Kroeber:

Aus den großen Muscheln der Tritonen, den kleineren der Najaden und den Nüstern der Seeungeheuer schossen die Strahlen in dünnen Fäden hervor, trafen scharf zischend auf die grünliche Oberfläche des Beckens und lösten dort Spritzer, Schaumblasen, Wellen, Wirbel und lachende Strudel aus; dem ganzen Brunnen mit seinem lauen Wasser und seinen mit samtenem Moos überzogenen Steinen entströmte die Verheißung einer Lust, die sich niemals in Schmerz verkehren würde. Auf einem Inselchen in der Mitte des runden Beckens stand ein von ungeübter, aber sinnlicher Hand gemeißelter Neptun, der lächelnd mit festem Griff eine willige Amphitrite umarmte; ihr von Spritzern benetzter Nabel glitzerte in der Sonne, bald schon ein Nest für heimliche Küsse im Schattenreich unter Wasser. Don Fabrizio blieb stehen, schaute, erinnerte sich, bedauerte. Und verharrte so eine Weile. (Lampedusa 2019, 90)

Le differenze nelle tre traduzioni sono minime ma significative, e si riferiscono a scelte lessicali che, pur nella fedeltà all’originale, interpretano diversamente il «modo di evocare l’ambiente», un argomento che secondo Lampedusa va considerato tra quelli che «in un romanzo ci dovranno particolarmente interessare» (Lampedusa 2011, 1888). L’ambiente qui evocato, nello spazio circoscritto e altamente simbolico del giardino, è un luogo di desiderio e di attesa, nel segno dell’eterna promessa di una riconquista della felicità edenica. Questo desiderio si manifesta qui nel fluire delle acque in cui tutti gli elementi dell’immagine si uniscono, in un legame che li trasporta fino all’abbraccio di Nettuno e Anfitrite, visibile in superficie, e, con l’allusione a un desiderio di morte latente nell’intero romanzo, li accoglie infine nell’ombra sommersa. Rispetto a una prima rappresentazione tutta visiva del giardino, la zona verso cui don Fabrizio si dirige «svelto, avido di rivedere», ha un suo richiamo sonoro («da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite»). Tutta la descrizione è trasportata ora in questa dimensione uditiva: «soffiate via», «le acque erompevano», «picchiettavano con pungente brusio», «suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti».

Charlotte Birnbaum sottolinea questa sonorità (schlugen mit scharfem, weithin vernehmbarem Ton), e delinea con cura il susseguirsi delle immagini in cui il suono prende forma: Blasen, Schaum, Wellenlinien, leichte Schauer, lachende Strudel. La sua traduzione, pur diligente, non sembra cogliere tuttavia nell’immagine descritta nulla più di una citazione manieristica.

Giò Waeckerlin-Induni, che, in una delle sue tante distrazioni, confonde qui le Nereidi con le Naiadi, rende con una certa efficacia onomatopeica l’espressione «picchiettavano con pungente brusio» con pfelten mit stechendem Plätschern, ma poi appiattisce le immagini seguenti elencandole in una successione rigida e indifferente: verursachten Aufspritzen, Blasen, Wellen, Erschauern, anmutige Wirbel.

Kroeber opta, come Waeckerlin-Induni, per l’onomatopea, ma sceglie una sonorità fondata sulle sibilanti e la stessa espressione, «picchiettavano con pungente brusio», suona nella sua traduzione: trafen scharf zischend. Il susseguirsi delle forme suscitate da questa sonorità ne sottolinea il carattere sfuggente ricorrendo anche a un’insistente allitterazione: lösten dort Spritzer, Schaumblasen, Wellen, Wirbel und lachende Strudel aus. Kroeber inoltre coglie l’importanza di concludere il processo evocativo, tutto imperniato sulla relazione tra Eros e Thanatos, con le parole «nell’ombra subacquea». Proprio la penetrazione dello sguardo nella dimensione profonda della fonte sembra infatti scuotere Don Fabrizio e provocare il repentino cambiamento di stile con cui si conclude questa pagina. Molto opportunamente dunque, Kroeber rispetta la posizione che nell’originale è riservata alla sfera profonda: «l’ombelico di lei inumidito dagli spruzzi brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombra subacquea»,  ihr von Spritzern benetzter Nabel glitzerte in der Sonne, bald schon ein Nest für heimliche Küsse im Schattenreich unter Wasser. Nella sua traduzione l’importanza della dimensione dell’ombra è anzi accentuata e diventa uno Schattenreich, un regno d’ombra, o anche un regno di ombre.

Sembra dunque che Il Gattopardo, Der Leopard, nella sua nuova versione abbia infine ottenuto il riconoscimento dovuto alla sua importanza nella storia letteraria europea, e al suo ultimo traduttore va rivolta per questo la massima gratitudine.

 

Riferimenti bibliografici 

 

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Sitografia

 Kroeber 2018: Burkhart Kroeber, Ein neuer Klassiker, «Tralalit» Magazin für Übersetzte Literatur, 19 settembre 2018 www.tralalit.de/2018/09/19/ein-neuer-klassiker

Literaturklub 2017: https://literaturklub-sindelfingen.de/ 2017/05/15/giuseppe-tomasi-di-lampedusa-der-gattopardo-roman-1954/

Uepo 2020: Uepo.de. Das Übersetzerportal (ultimo accesso: 1/11/2020)