Lettere ai miei traduttori

di Claudio Magris

Lettera ai traduttori di Alla cieca

Cari amici,

come molti di voi sanno, io mi sono sempre preoccupato di fornire, a chi si accinge a tradurre ogni mio libro, tutte le informazioni, spiegazioni e riferimenti possibili, per alleviare almeno la fatica materiale del lavoro, la ricerca di frasi o titoli nell’espressione originale, o di fonti e citazioni e così via. Mi sembra il minimo che io possa fare per aiutare, nei limiti delle mie possibilità, chi dà vita al mio testo in un’altra lingua, facendolo vivere ulteriormente in misura essenziale e divenendone in qualche modo un co-autore. Sapete benissimo l’enorme importanza che, a mio avviso, investe una traduzione; non solo come mezzo di diffusione di un testo nel mondo, cosa che non può che interessare moltissimo l’autore di un libro, ma anche e soprattutto come interpretazione del testo, come un suo esame o una sua messa alla prova, giacché, come diceva Schlegel, la traduzione è la prima forma di critica letteraria, che scopre subito dove un testo tiene e dove invece è debole. È difficile, pressoché impossibile, ingannare un traduttore. E il traduttore non è certo passivo rispetto al testo originale, ma, traducendolo, ricrea un altro testo, che è, a tutti gli effetti, in parte anche una sua creazione letteraria. Questa funzione della traduzione è oggi spesso sottovalutata e misconosciuta, specie in Italia, ma in altre epoche ha avuto la dignità che le compete, la dignità di creazione letteraria. Per fare grandi esempi, Vincenzo Monti appartiene alla storia della letteratura italiana ed esercita un ruolo in essa molto più per la sua traduzione dell’Iliade che non per le sue opere scritte, diciamo così, in proprio.

Prima di indicare citazioni originali, ad esempio le frasi originali scritte in inglese da Jorgensen (perché sarebbe insensato che il traduttore inglese le ritraducesse dalla mia versione italiana oppure che dovesse andarsele a cercare fra le centinaia e centinaia di pagine, oltretutto manoscritte a matita, di Jorgensen) o titoli originali di opere citate in italiano, insomma, prima di fornire tutte quelle spiegazioni materiali, per risparmiare così molto tempo al traduttore, vorrei un momento raccontare come il libro è nato, per far capire forse meglio la sua intonazione. La prima idea di questo libro l’ho avuta nel 1988, ad Anversa, più esattamente nella piazza del Groote Markt. Ero in Olanda, insieme a Marisa, per la presentazione della versione neerlandese di Danubio. E in quella piazza, guardando quelle acque rugginose della Schelda, probabilmente (non ricordo esattamente) dopo una visita a un Museo Marittimo, mi è venuta l’idea (ancora molto confusa, come sempre all’origine dei miei libri) di scrivere un libro sulle polene. Non sapevo naturalmente ancora minimamente che tipo di libro avrebbe potuto nascere, così come, quando ho iniziato le mie peregrinazioni danubiane, non sapevo che tipo di libro ne sarebbe nato. In questo caso, certo un libro molto marino, ma non sapevo molto di più.

Allora sono cominciate molte ricerche sulle polene; viaggi nei più diversi paesi e città e nei musei dove si trovano raccolte le polene e dove sono registrate molte delle loro storie, viaggi ad esempio nelle isole Scilly dove, a Tresco, c’è una splendida raccolta di polene arrivate lì con le onde e i marosi dei naufragi, e viaggi in tutte o quasi tutte le città dei più diversi paesi in cui si trovano polene. Letture di libri, sia di carattere tecnico e storico (ad esempio storia dei loro costruttori, in particolare nel New England), ricerca e raccolta di racconti popolari ispirati a polene e così via. Collezione di cataloghi, fotografie etc; soprattutto però storie, personaggi, veri o immaginari, tramandati da questa tradizione. Di tutto questo si trova traccia nella presenza di polene in altri miei testi, che non hanno nulla a che vedere con Alla cieca, come ad esempio il racconto Il Conde. Ho cercato anche di scrivere un libro specifico, molti anni dopo, che avrebbe dovuto chiamarsi Delle polene, ma, ultimato il manoscritto, non ne sono rimasto affatto convinto. Ne ho tratto un paio di articoli, diciamo così, un po’ eruditi, che ho pubblicato in qualche rivista e in qualche miscellanea in onore di amici e colleghi. Le polene avevano anche una parte eminente in una precedente stesura di Alla cieca (ce ne sono state molte, in tutti questi anni), ma si trattava di qualcosa, a mio avviso, di ingombrante e non risolto. Nella versione finale, radicalmente diversa da tutto ciò che l’ha preceduta, questo materiale è stato in parte utilizzato (ma completamente metabolizzato e trasformato) nei capitoli dedicati al protagonista – o meglio al duplice protagonista – che, nell’ospedale psichiatrico o in Tasmania o forse solo nella sua fantasia, scolpisce e intaglia polene, forse per terapia (la cosiddetta ergoterapia, in voga negli ospedali psichiatrici tempo fa), forse per guadagnarsi qualcosa, forse solo per sbizzarrirsi fantasticamente. Come in tutto il resto del libro, anche questa parte relativa alle polene, diciamo così questo nucleo originario poi abbandonato, o utilizzato solo in misura secondaria, si basa su dati originali, su ricerche erudite ed esatte di polene, dei loro costruttori, di vicende, leggende, di personaggi avventurosi o randagi collegati ad esse, con i quali il protagonista nel suo delirio si identifica. Tutto questo materiale poi è stato trasfigurato, mescolato a invenzioni, a variazioni, a rielaborazioni fantastiche e deliranti nella mente del protagonista, a falsificazioni borgesiane, a deformazioni della follia e del fantasticare.

Comunque tutta questa è solo preistoria, nella genesi del libro; non è nemmeno ancora la molla da cui è venuta fuori la storia. Quest’ultima è nata, alla fine, dalla combinazione di due vicende, due motivi che mi hanno profondamente, radicalmente interessato, affascinato, forse ossessionato per molti e molti anni. Una è la storia di Goli Otok, dell’Isola Nuda o Calva nell’alto Adriatico di quel gulag titoista dove sono finiti i comunisti italiani, storia per tanti anni taciuta e ignorata, che ho più volte affrontato, ma mai direttamente, come mi proponevo da anni. Mentre, alla fine della seconda guerra mondiale, circa 300.000 italiani lasciavano Fiume, l’Istria e la Dalmazia divenute jugoslave, in quel clima di vendette e di persecuzioni anti-italiane che seguiva alla violenza fascista subita dagli slavi, c’è stato pure un esodo a rovescio. Circa 2.000 operai italiani di Monfalcone, una piccola città molto vicina a Trieste, militanti comunisti che avevano conosciuto le prigioni fasciste, in molti casi la guerra di Spagna e anche i Lager nazisti, si recarono, in nome della fede comunista, volontariamente nella Jugoslavia di Tito, per contribuire, nel paese geograficamente più vicino, alla costruzione del socialismo, incrociandosi così (in una sorta di esodo incrociato) con quei 300.000 che lasciavano la Jugoslavia per sfuggire al regime del socialismo reale e rifugiarsi in Italia. Questi 2.000 operai parteciparono con entusiasmo e dedizione alla costruzione della nuova Jugoslavia ma, nel 1948, quando Tito- con un gesto di cui la storia mondiale gli sarà sempre grata – ruppe con Stalin, essi protestarono contro Tito, perché Stalin ai loro occhi rappresentava la causa della rivoluzione e della liberazione mondiale, e Tito diveniva, ai loro occhi, un traditore. Tito e il regime titoista, d’altra parte, temendo colpi di Stato stalinisti, li fecero deportare su due piccolissime, incantevoli e terribili isole dell’alto Adriatico, Goli Otok (Isola Nuda, Calva) e Sveti Grgur (San Gregorio) dove vennero installati due gulag che non avevano molto da invidiare alla ferocia dei gulag staliniani e dei Lager nazisti. In questi gulag, quegli uomini vennero sottoposti a ogni sorta di persecuzioni, torture e sevizie, alla violenza e alla morte. Essi resistettero in nome di Stalin, il quale, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in un gulag, per fiaccare uomini liberi e coraggiosi come loro.

Vissero la loro terribile odissea ignorati da tutti: la Jugoslavia naturalmente non diceva parola su questa pagina infame della sua politica; l’Unione Sovietica calunniava Tito in cento modi, ma taceva sui gulag, perché ne aveva molti più a casa propria; gli Alleati – gli Inglesi e gli Americani – non volevano indebolire Tito nella sua lotta contro Stalin; e l’Italia, come spesso, era all’oscuro di tutto. Quando, anni dopo, i superstiti vennero liberati e tornarono in Italia, alcuni di essi trovarono le loro case a Monfalcone assegnate, nel frattempo, agli esuli istriani e fiumani che avevano lasciato la Jugoslavia e perduto tutto: altro tremendo simbolo di un esodo incrociato, di un duplice tragico destino. Inoltre essi vennero tartassati dalla polizia italiana in quanto comunisti e osteggiati dal Partito comunista italiano, in quanto scomodi testimoni della politica stalinista dello stesso Partito comunista italiano, che quest’ultimo voleva far dimenticare.

Sono uomini che si sono trovati dall’altra parte, sempre nel posto sbagliato e nel momento sbagliato; che hanno anche combattuto per una causa sbagliata e creduto in un inganno, ossia in Stalin, ma con una forza morale, con una capacità eroica di sacrificio e di dedizione, con una volontà di sacrificarsi per combattere per la liberazione dell’umanità intera, con delle virtù che costituiscono un grandissimo retaggio, che dobbiamo fare nostro, anche se non condividiamo la bandiera per la quale essi hanno affrontato l’inferno. Questa storia è presente già, sia pure fugacemente, nel mio libro Un altro mare, in Microcosmi, in alcuni articoli del «Corriere della Sera»; è una storia grande, a cui sono ostinatamente fedele e che, da molti anni, volevo, come ho detto, affrontare a fondo. Molti anni fa, avevo anche iniziato a scrivere un lungo racconto su questa vicenda, ovviamente su un personaggio inventato che la vive, ma, quando ero già abbastanza avanti, non ne sono rimasto del tutto convinto. Alcune di quelle pagine, e qualche personaggio, sono presenti anche in Alla cieca, ma completamente trasformati e inseriti in un nuovo contesto. Questo progetto risale a molti anni fa, tanto è vero che ne avevo parlato con Stefano Jacomuzzi, il mio grande amico e autore del grande libro Un vento sottile, morto nel 1996. Comunque, il protagonista di Alla cieca (o almeno, come vedrete, una sua metà, la metà del suo Io lacerato nella follia dovuta alla sua insostenibile tragedia) è appunto uno di questi eroi sbagliati, ma proprio per questo ancor più eroi. Va anche detto che, quando, molti anni fa, ho parlato e scritto di questa vicenda in generale (della vicenda storica, non della mia storia fantastica) nessuno ne sapeva veramente nulla, nessuno ne parlava.

Ma questa è soltanto la metà dell’origine del mio personaggio, del mio progetto, della mia storia, e forse nemmeno la metà più importante. Un paio d’anni più tardi di quel pomeriggio ad Anversa, sono entrato, a Parigi, nella Librairie d’outremer, situata in rue Jacob, una libreria, come dice il nome, specializzata in pubblicazioni che riguardano il mare, pubblicazioni d’ogni genere e di ogni tipo. Mi è caduto l’occhio su un volume, Pirates et aventuriers des mers du sud di A.J. Villiers, scoprendo che si trattava di una traduzione dall’inglese e che il titolo originario, ben più affascinante, era Vanished Fleets. Affascinato fin dall’infanzia e dall’adolescenza salgariane dalle storie di pirati, corsari e filibustieri, mi sono messo a sfogliare il libro e ho visto un capitolo intitolato Le “Roi Déporté”, il re deportato. Incuriosito, mi sono messo a leggere e mi sono così imbattuto, per la prima volta, nella storia straordinaria di Jorgen (o Jürgen) Jorgensen (o Jürgensen o Jorgenson). Ho letto queste poche pagine e sono rimasto affascinato dalla vicenda di questo marinaio danese che vive una vita incredibile, combattendo ora per l’Inghilterra ora per la Danimarca, fondando la città di Hobart Town in Tasmania e finendo, in quella stessa città, molti anni più tardi, come galeotto condannato ai lavori forzati, visto che lì c’erano alcuni terribili penitenziari per i galeotti che l’Inghilterra mandava in Australia e in Tasmania. Un uomo che, per tre settimane, era stato e si era proclamato re o protettore d’Islanda; che era stato dappertutto, che forse aveva raccontato anche un sacco di fandonie, dicendo di essere stato dappertutto, una mescolanza di avventuriero, uomo politico, contafrottole, disgraziato travolto dal più terribile dei destini come la deportazione, scaltro impostore che riesce a cavarsela sempre e così via. Autore anche, già lo si diceva, di vari libri, mai pubblicati, che spaziavano dai più vari generi letterari, romanzo, trattato filosofico, trattato economico, descrizioni geografiche e così via. Perché si possa capire meglio che cosa mi interessava in questo personaggio, accludo il testo di questo articolo, scritto, molti anni fa, sul «Corriere della Sera».

È quando ho incontrato per la prima volta la storia di Jorgensen che è scattato quello che il grande critico Leo Spitzer chiamava il “clic” della ideazione di un’opera letteraria. Un “clic” ancora insufficiente, ma forte. Ho cominciato allora (fra l’altro sempre, ovviamente, in una vita piena di impegni – a cominciare dal mio normale e regolare lavoro all’università – di articoli, viaggi e conferenze, stesura di altri testi, per non parlare di varie vicende esistenziali, alcune in quegli anni particolarmente dolorose e difficili) a cercare di sapere tutto quello che potevo di Jorgensen, a seguire le sue tracce, trovare i suoi manoscritti, vedere i luoghi dove aveva vissuto e così via. Ho lavorato nella biblioteca reale di Copenhagen, nella British Library di Londra, nella Biblioteca di Hobart Town in Tasmania e in altre biblioteche, leggendo i manoscritti di Jorgensen, in inglese, scritti a matita: romanzi, saggi e altre opere, che ho letto, prendendo appunti e così via. Almanacchi e riviste della colonia penale di Hobart Town, dove si parlava di lui o dove lui aveva scritto. I suoi manoscritti sulla sua spedizione in Islanda, o tanti altri scartafacci che egli aveva dedicato ai più vari argomenti. Opere tutte scritte a mano, tranne una, una descrizione degli aborigeni di Tasmania, ristampata di recente, almeno relativamente di recente.

Sono andato nei luoghi più vari, fino in Tasmania, seguendo passo a passo i posti dove lui era stato, gli antichi luoghi della colonia penale, il penitenziario e così via. Inoltre ho cercato i vari scritti su di lui, figura randagia che sembra semisparita (non ne parla nemmeno Hughes nella sua Riva fatale, The fatal Shore) ma sulla quale – come forse su qualsiasi argomento, in quella specie di enciclopedia universale dei morti che, come ha scritto Danilo Kis, è ormai un albo universale onnicomprensivo – esiste una bibliografia semiclandestina ma vasta, talora rigorosamente documentata, talora romanzata; bibliografia che, in qualche modo, fa capolino anche nel mio libro, in una sorta di vera e/o apparente falsificazione borgesiana, in quanto non si capisce se sia vera o inventata, reale o contraffatta, perché è sempre filtrata attraverso l’esposizione del protagonista e dunque attraverso il suo delirio. Per non parlare poi di tutta la vasta documentazione storica, culturale e geografica, relativa ai vari luoghi della vita di Jorgensen e degli eventi, reali o millantati, con cui la sua esistenza si è incrociata.

Materiale enorme, che azzannavo letterariamente ora da una parte ora dall’altra, come quelle grandi balene che Jorgensen arpionava o diceva di aver arpionato, ma che avevo l’impressione di non riuscire ad afferrare nel modo giusto. Ho lavorato molti anni a questo libro. Certo, anni in cui ho fatto altre cose e in cui soprattutto mi sono accadute altre cose: sono usciti non solo Stadelmann e Un altro mare, la cui idea risaliva a d anni prima, ma anche Microcosmi, La mostra, testi brevi come Il Conde, Le voci o Essere già stati, la raccolta Utopia e disincanto. C’è stato il lavoro con i traduttori, soprattutto di Danubio e Microcosmi in varie lingue e così via. Ma sono stati soprattutto anni di esperienze abbastanza radicali, sotto vari aspetti, come i due anni al Senato. Ma sono soprattutto gli anni della battaglia combattuta insieme a Marisa, contro la sua morte, una battaglia che lei ha affrontato molto più coraggiosamente e serenamente di me. Il 1996 è l’anno della sua morte, che ha cambiato e mutilato in misura decisiva la mia esistenza. Marisa ha fatto a tempo a leggere alcune pagine del libro su Jorgensen, in particolare l’ultimo capitolo, sul quale anzi ha apportato qua e là qualche piccola correzione o ritocco. L’ultimo capitolo, infatti, l’ho scritto molto, molto presto. Poi l’ho ritoccato dopo il viaggio in Tasmania del 1998, ma soltanto per quel che riguarda alcuni dettagli secondari, molto precisi e particolari, nella descrizione dei luoghi (la collina che scende al mare, il lato verso il quale si apre la spiaggia e così via). Ma sostanzialmente il capitolo finale c’era già da molto tempo; almeno sino alla terz’ultima pagina, sino alla morte di “uno dei due”, o di una delle due metà, di Jorgen, quando la polena gli rovina addosso. Le ultimissime pagine, con la fantasia di autodistruzione dell’altra metà, le ho scritte invece in un’epoca recentissima, poco prima di consegnare il dattiloscritto definitivo all’editore, sostituendo due pagine precedenti, che Jole mi aveva giustamente bocciato. Ho sempre sostenuto, e l’ho anche scritto, che ogni lavoro che facciamo è sempre non solo farina del nostro sacco, ma debitore verso altre persone, i cui suggerimenti, intuizioni, o semplicemente il modo di essere, ci suggeriscono cose che altrimenti non avremmo intuito. In particolare, la penultima redazione del testo si è giovata dell’amorosa e severa lettura di Jole e di quattro o cinque amici e amiche, cui sono molto grato per consigli, tagli, piccole ma essenziali proposte. Perfino il titolo, suggerito da Giovanna Joli, che ha prevalso sull’altro possibile, Giù alla baia.

Se avevo il finale (e anche alcune pagine iniziali, se non l’inizio vero e proprio, pagine che avevo discusso con Stefano Jacomuzzi), non sapevo chiaramente come arrivarci. Il progetto Jorgensen è stato dunque ripreso, abbandonato, ripreso; mai dimenticato né lasciato indietro; bensì sempre presente, sempre vissuto come il progetto letterario principale, come un lavoro cui attendevo, nella mia mente, anche quando non ci lavoravo esplicitamente. Il periodo decisivo è stato il 2001-2002, l’anno passato a Parigi al Collège de France, in cui è nata la prima stesura vera e propria, anche se poi profondamente ritoccata e molto, molto sforbiciata. Ma soprattutto trasformata.

Credo – anche se non ricordo bene – di aver avuto a Parigi, durante il periodo cui accennavo, l’idea precisa di come raccontare la storia.

Quella scissione che caratterizza, tematicamente e formalmente, strutturalmente il libro, era (è sempre) presente in me già prima di scrivere. Da una parte, collegato alla storia di Goli Otok, del gulag dell’Isola Nuda dove finisce il protagonista, il senso profondo della storia, dell’impegno etico-politico, della dimensione morale; dell’esigenza che la storia sia anche speranza e salvezza, il senso di quello che S. Paolo chiama «il buon combattimento» e che non esclude certo la disperazione, il senso di vuoto e di nulla, ma è una componente in qualche modo umanistica, afferrata a dei valori. Dall’altro, il senso epico e avventuroso della storia di Jorgensen, di una vita passata con leggerezza, con coraggio salgariano e levità da Felix Krull manniano, da quello che i mitologi chiamano «il fanciullo divino», irresponsabile e sempre pronto a rinascere dopo ogni batosta. L’avventuriero del Settecento, dall’incredibile vitalità camaleontica, picaresco, che sfugge tra le maglie della vita e anche della morale, anche se, a tratti, c’è pure in lui una intuizione rabbrividente (e subito messa da parte) del buio, dell’abisso e del vuoto dell’esistenza, una torbida negatività, forse riflessa anche nella sostanziale fuga dall’amore e dal sesso. E, filo rosso di tutti e due, il mito del Vello d’oro, di Giasone e degli Argonauti, del viaggio o dei viaggi di ritorno impossibili, mito glorioso e spot di impresa pubblicitaria; storia di eroismo e di sopraffazione, particolarmente maschile nei confronti della donna, civiltà greca che porta una luce umana nella barbarie colchica, ma porta anche un’altra e profonda barbarie; Vello d’oro insozzato di sangue, che diventa la bandiera rossa degli ideali perduti e profanati, ma mai rinnegati, vello che è sempre in una mano illegittima e usurpatrice. Viaggio di ritorno che, con le sue varie tradizioni (anche questa parte ha richiesto tante letture, di varianti del mito e commenti e rifacimenti letterari e così via) sfonda ogni limite geografico, si perde nelle nebbie.

In fondo, la storia che volevo raccontare era quella di Jorgensen, più che di Tore. Ma come raccontarla? Non credo abbia senso, oggi, scrivere un romanzo storico o realistico, in particolare se si configura come quello di Jorgensen, pieno di tante inesauribili avventure nei luoghi più sparsi della terra e intrecciate a eventi storici di prima grandezza. Un simile romanzo, in penosa concorrenza con i grandissimi romanzi del Settecento, mi sembra impossibile e comunque io non ne sarei capace. Come tutte le storie epiche, che hanno una loro grandezza o aspirano ad averla, essa, mi pareva, poteva essere raccontata soltanto attraverso un filtro, per via indiretta, passata al setaccio di una consapevolezza contemporanea, che ha perso quel sentimento dell’epica. In fondo, seppure in modo diverso, è il modo in cui ho creduto possibile raccontare la storia dei cosacchi di Krasnov in Carnia nelle mie Illazioni su una sciabola. Storie al technicolor attraverso un filtro bianco e nero, anzi grigio, avventura vissuta attraverso chi ci ha creduto profondamente, ma ne ha sperimentato le possibilità e la violenza, il totale disinganno, come Tore, o addirittura l’impossibilità. Ed è così che mi è venuta l’idea di raccontare la storia di Tore, un combattente per gli ideali di libertà e uguaglianza che passa attraverso tutti gli inferni del Novecento e che, spezzato psicologicamente dallo sfacelo della sua esistenza, e in frantumi anche nel cuore e nella testa, si identifica, quasi in una sorta di compensazione fantastica, con l’avventuriero di un secolo e mezzo prima, la cui vita curiosamente ha delle paradossali analogie con la sua, anche con alcuni luoghi della sua.

Così nasce la storia di questo protagonista doppio, di questa identità talora molto forte, ma che cerca di sfuggire a se stessa, addirittura identificandosi per qualche sprazzo o qualche istante pure con altri destini, non solo con quello di Jorgen, e parlando in prima persona, ora nelle vesti dell’uno, ora nelle vesti dell’altro, in un unico monologo (che si svolge forse in un ospedale, nel reparto psichiatrico di un ospedale) in cui vengono risucchiate le voci di tutti gli altri, compagni, avversari, medici, donne e così via. Così anche la donna, amata e colpevolmente sacrificata da Tore, Maria, la sua Medea, si sdoppia, nella sua fantasia, con le donne della vita di Jorgensen o con donne del passato, in una specie di sfaccettatura della femminilità oltraggiata. Di qui il carattere plurimo, plurale, violento e visionario; il procedere per digressioni, storie che si incastrano in altre storie, per analogie, per fughe laterali, e di qui il lavoro da certosino per mantenere, in questo vortice di delirio, una struttura di incastri e richiami rigorosamente coerenti.

È un libro in cui si alternano due scritture, quelle che il grande scrittore argentino Ernesto Sábato ha definito «diurna» e «notturna». In quella diurna l’autore, pur inventando liberamente situazioni e personaggi e facendo parlare questi ultimi secondo la loro logica, esprime in qualche modo un senso del mondo che egli condivide; dice i suoi sentimenti e i suoi valori; combatte il suo buon combattimento per le cose in cui crede e contro ciò che egli considera male. Questa scrittura diurna cerca di capire il mondo, di rendere ragione dei suoi fenomeni, di collocare i singoli destini, anche dolorosi, sullo sfondo della totalità del reale e del suo significato. È una scrittura che vuole dare senso alle cose, collocare ogni singola esperienza, anche dolorosa, in una totalità che la comprenda e che, solo per il fatto di comprenderla, può conciliarla ovvero inquadrarla in un contesto più ampio. È una scrittura che permette all’autore di esprimere – pur nell’invenzione o anche deformazione fantastica – ciò che egli, consapevolmente, pensa, ama, giudica, condanna, spera, ritiene giusto o inaccettabile; è la scrittura in cui egli dice le sue tavole della legge, i suoi sentimenti, le cose in cui crede, le infamie cui si ribella. È la scrittura con cui ho scritto la maggior parte dei miei libri; una scrittura – e una struttura, che cerca di ordinare, di fare chiarezza nel caos e nel buio. L’altra scrittura, quella notturna – che ha fatto nascere La mostra, Essere già stati e qualche altro breve testo – si misura con quelle verità più sconvolgenti che non si osano confessare apertamente, di cui forse nemmeno ci si rende conto o che addirittura – come dice Sábato – l’autore stesso rifiuta e trova «indegne e detestabili», come egli scrive. È una scrittura che spesso stupisce lo stesso autore, perché gli può rivelare quello che egli stesso non sa sempre di essere e di sentire: sentimenti o epifanie che sfuggono al controllo delle coscienze e talora vanno al di là di ciò che la coscienza consentirebbe, contraddicendo le intenzioni e i principi stessi dell’autore, immergendosi in un mondo tenebroso, ben diverso da quello che lo scrittore ama e in cui vorrebbe muoversi e vivere, ma nel quale capita ogni tanto di dover discendere e incontrare la Medusa dalla testa attorcigliata dai serpenti, che in quel momento non si può mandare dal parrucchiere affinché la renda più presentabile. È la scrittura che si trova, talora anche senza averlo programmato, faccia a faccia col volto terribile della vita selvaggiamente ignara di valori morali, di bene e di male, di giustizia e di pietà, di ordine; una scrittura del caos che è talora l’incontro, estraniante e creativo, con un sosia o almeno con una componente ignota di se stessi, che parla con un’altra voce. Un vero scrittore la lascia parlare anche quando preferirebbe dicesse altre cose e quando si sente, per citare ancora Sábato, «tradito», nelle sue forti convinzioni morali, da ciò che essa dice. Per fare grandi esempi, uno scrittore che ha sentito profondamente entrambi questi motivi, il profondo impegno etico e il senso dei valori (fedeltà, coraggio, lealtà e così via), e il momento notturno della diserzione, della fuga, dell’abiezione, è Joseph Conrad.

Anche la voce notturna, naturalmente, è la nostra, anche se la conosciamo poco; è una voce che dice non ciò che siamo consapevolmente divenuti, ma ciò che avremmo potuto diventare e che in certi momenti potrebbe irrompere in noi; ciò che potremmo essere e speriamo oppure temiamo di essere, come in certe notti di insonnia. Entrambi, Tore e Jorgensen, hanno peraltro una grande cosa in comune: sono tutti e due figure randage e reiette, quelle figure di sbandati e perdenti senza nome, che tante volte la critica ha detto essere l’oggetto costante del mio interesse (come di tanti personaggi di Danubio o di Microcosmi, quelle «sanguinose note a piè di pagina nella Storia», come è stato detto). In questo senso, il libro rientra in pieno in questa mia poetica.

So bene che l’inizio è, necessariamente, un po’ arduo; il lettore dovrebbe capire poco a poco, anche grazie a quel gioco di incastro e di ritorni, che si tratta di due personaggi in uno, che l’Io che racconta è sdoppiato. Così può essere anche molto ambigua (volutamente) la fine, con quella autodistruzione dell’Io narrante, che mette tutto in discussione, insinuando il dubbio che a parlare in realtà sia il fantomatico medico curante e così via. Come sempre nel caso di difficoltà, sia strutturali generali, sia di singole frasi, io, come sapete, penso che la traduzione non debba spiegare, facilitare, smussare le difficoltà del testo originale, che poi sono le difficoltà della vita e del suo racconto, le difficoltà che ognuno di noi, molto spesso, ha nel comprendere. Per questo, meglio correre il rischio di non essere capiti che non assumere il tono del Cicerone di se stessi e della propria opera, che prende benevolmente il lettore per mano e gli spiega le cose, spianandogli le asperità. La vera avventura della lettura avviene quando il lettore ripercorre il cammino insieme allo scrittore, rivivendo anche le sue difficoltà. Ma, come sempre, lascio a ognuno di voi ogni decisione, perché il testo tradotto non sarà soltanto mio, ma, come sempre, il testo di due autori, complici e forse un po’ rivali. Cosa che, fra l’altro, si adatta benissimo in particolare a questo romanzo…

Dopo questa chiacchierata, che forse vi interessa poco, arrivo ora agli aiuti concreti, alle spiegazioni concernenti singole e concrete espressioni, riferimenti, passi. Sto lavorando alle ultime bozze e mi riferisco al loro numero di pagina, che credo rimarrà quello del libro stampato. Se non fosse così, farei fotocopia delle bozze per ognuno di voi, affinché possiate trovare subito il riferimento.

p. 9

Caro Cogoi: c’è un detto dialettale a Trieste, «caro Cogoi, semo cagai», letteralmente “siamo cagati, siamo nella merda”, per indicare una situazione senza scampo, una situazione tipo “siamo fregati, siamo fottuti”. Il tutto detto però, come spiego a p. 31, in un modo bonario, calmo. Sempre a p. 31, riprendo il filo di questo inizio con la seconda parte di questo detto, appunto “semo cagai”.

A titolo di curiosità, irrilevante per la traduzione, ricordo che questo detto, già a me ovviamente ben noto, mi è rimasto particolarmente impresso grazie al tono col quale l’ha detto la mia amica Donatella Baldi, una volta in cui lei, Marisa ed io eravamo davanti all’isola di Oriule, di fronte a Lussino, sulla barca del bizzarro barcaiolo Gusar (ricordato in Microcosmi e in Verde acqua di Marisa Madieri) che, visto che il motore era avariato, lo aveva smontato in cento pezzi che rotolavano nella barca, mentre arrivavano la sera e il maltempo e non potevamo far niente.

r. 2-3: qui parafraso una frase scritta effettivamente da Jorgen nella sua Autobiografia: Who so able to write a man’s life as the living man himself?. La riprendo non parafrasata, ma invece pari pari a p. 10, r. 6-7. Jorgen l’ha scritta nella Part one of A shred of Autobiography nel gennaio 1835 nel «Hobart Town Almanack». La seconda parte, nello stesso almanacco, nel 1838, in aprile.

Nella riga 9 è nominato il dottor Ross; è veramente il nome del direttore-editore dell’Almanacco, ma non ha importanza. A parte i nomi strettamente storici e quelli chiaramente inventati, è bene resti una certa incertezza tra i nomi veri e quelli inventati.

Più sotto, alla r. 20, il nome Pistorius, come tutto l’episodio che lo riguarda, è inventato.

r. 18-19. A titolo di curiosità, irrilevante per la traduzione, ricordo che questa frase risale alla ripugnanza provata quando un’amica mi aveva raccontato che sua madre, severissima custode della sua virtù e fanaticamente repressiva, le aveva detto che voleva consegnarla al futuro ignoto marito come un fiore.

p. 10

r. 6-7: qui è citata alla lettera quella domanda retorica scritta da Jorgen nella sua autobiografia, di cui parlo all’inizio.

la maestra Perich – poi Perini: chiaramente inventato, è uno dei tanti nomi che alludono alla tipica situazione di frontiera, fra Italia e mondo slavo, che vede parecchi nomi di italiani, di evidente lontana origine slava, venire italianizzati.

r. 10: Newgate: è la famosa prigione di Londra. Nella riga seguente, il reverendo Blunt è completamente inventato.

r. 21 sgg: qui incominciano quelle voci che risuonano nella testa, nella memoria, nel delirio del personaggio, vere e stravolte, in cui si intreccia tutta la sua vita, o meglio le due vite, la sua, quella di Tore, e quella di Jorgen con cui lui si identifica (per non parlare di quella di Giasone, con cui c’è un’altra identificazione molto forte). La domanda sull’Islanda riguarda evidentemente l’avventura di Jorgen, così come la seguente relativa al gatto a nove code preso sulla schiena nel penitenziario, mentre quella seguente, sulla faccia di comunista, riguarda Tore come quella successiva, che allude alle tensioni seguite alla seconda guerra mondiale, con la occupazione dell’Istria e Fiume da parte della Jugoslavia e il risentimento italiano, in cui si inserisce l’avventura comunista e poi lo scontro fra titoisti e stalinisti che è la storia di Tore.

Nella penultima riga dal basso, quel grido è il grido cui venivano costretti, nel gulag di Goli Otok, i detenuti come Tore.

p. 11

r. 7: qui cominciano le domande del dottore, vero o ipotetico, forse o anzi probabilmente reale psichiatra dell’ospedale in cui è ricoverato Tore, forse suo alter ego immaginario, forse, estrema illazione, la vera voce di queste righe. Tre righe sotto, Salamanca Place è una piazza di Hobart Town.

p. 12

r. 2: le forze di Coriolis sono effettivamente esistenti in fisica, così come le descrivo nelle righe precedenti.

r. 15: queste frasi sono, appunto, come quella precedente, le frasi del reale o ipotetico dottore.

r. 27-28: qui, col paragone di Romolo che fonda Roma, si allude al paradossale destino di Jorgen, che ha fondato Hobart Town e molti anni più tardi vi è ritornato come galeotto, come forzato.

p. 13

r. 2: l’Ovra è la polizia segreta fascista, la Guardia Civil è la Guardia franchista in Spagna, l’Udba è la polizia politica di Tito.

Nella stessa pagina, ultima riga: i nomi di quei due giornali, «Risveglio» e «Riscossa» si riferiscono a giornali effettivamente esistiti. Anche per quel che riguarda l’emigrazione italiana in Australia e in particolare quella dei triestini e dei giuliani dopo la seconda guerra mondiale, ho fatto molte letture storiche e mi sono servito, in particolare, degli studi e dei saggi di Gianfranco Cresciani.

p. 14

Anche quelle notizie sui circoli e leghe antifascisti in Australia corrispondono a verità.

r 12: qui si fa un gioco di associazione fra PC inteso ora come personal computer ora come partito comunista. La psicoterapia informatica esiste effettivamente nella terapia psichiatrica.

r. 16: per distrarre il drago e rubare il tesoro: è la prima allusione al mito degli Argonauti, di Giasone che, con l’aiuto di Medea uccide il drago e ruba il Vello d’oro.

r. 29: Monfalconesi. Letteralmente, abitanti di Monfalcone, una piccola città vicino a Trieste, come si spiega dopo. Come viene spiegato poco più oltre, si tratta dei 2.000 comunisti che sono andati volontariamente in Jugoslavia per costruire il socialismo. Del resto lo si spiega poco dopo.

p. 15

r. 11-12. Tendenza mitomane ad esagerare le proprie… Qui, come nelle pagine seguenti, la descrizione, la cartella clinica, ovviamente scritta e inventata da me, si richiama strettamente, per quel che si riferisce alla sua struttura, alle cartelle cliniche dell’ospedale psichiatrico di Trieste dell’epoca, che ho potuto consultare, naturalmente dopo che erano stati coperti i nomi delle persone cui si riferivano, grazie al prof. Giuseppe Dell’Acqua. Anche l’espressione, che ricorre più oltre, «storia nosologica» è l’espressione con cui si indica il curriculum psichiatrico del paziente.

p. 16

r. 14. Compagnia della Terra di Van Diemen. La Compagnia è la Compagnia Commerciale, la terra di Van Diemen è il nome originario della Tasmania. Il nome originale della compagnia è Van Diemen’s Land Company.

r. 23. Il nome del cappellano corrisponde al nome reale di un cappellano in Tasmania all’epoca, anche se al personaggio ho attribuito cose di mia invenzione.

p. 17

r. 8. Gli schiavi devoti a Esculapio sono i medici.

r. 19 sgg. L’incendio del palazzo reale è ricorrente in tutto il mio libro, e acquista continue valenze e significati simbolici. È avvenuto realmente nel 1794. La descrizione è una mia invenzione, tranne un passo, alcune righe in cui, volutamente, ho parafrasato la descrizione del poeta danese Adam Oehlenschläger, che ne era stato testimone oculare e che ne diede una descrizione (è un poeta rilevante, uno scrittore per così dire classico della letteratura danese). Le righe oggetto della mia parafrasi si riferiscono alla grande torre simile a un gigante nero che traballa e alla fine crolla con tre terribili rimbombi. Per la traduzione danese allego (allegato 1) il testo di Adam Oehlenschläger. In tutto il libro compaiono ogni tanto, con variazioni, alcuni passi di questa descrizione dell’incendio, rimasto nella mente del protagonista come una ossessione, in particolare l’immagine dei ritratti dei sovrani danesi che, attaccati dalle fiamme, sembrano avvolti da queste ultime come da serpenti. Anche Jorgen, nella sua autobiografia, descrive questo incendio cui dice di avere assistito. Nelle due ultime righe della stessa pagina si ricorda ancora l’almanacco del dottor Ross.

p. 18

r. 1-2. Anche qui, ci si riferisce a una forse e probabilmente reale terapia, a seguito della quale il protagonista viene abituato a usare un computer e a dialogare, a chattare con qualcuno, che egli non sa bene chi sia, immagina sia il dottore. Naturalmente, forse può essere lui stesso che parla con se stesso e così via.

r. 13-14: Norah. È la prima volta che compare il nome della donna con cui Jorgen passa gli ultimi giorni della sua vita, nuovamente agli antipodi, da forzato. Il Waterloo Inn è l’osteria dove i due, soprattutto lei, si ubriacavano.

r. 34: Hooker. É uno scienziato veramente esistito, un grande botanico che ha conosciuto bene Jorgen ed ha preso parte insieme a lui alla spedizione in Islanda di cui si narra più oltre.

p. 19

r. 15. «Borba» è il nome del quotidiano comunista di Belgrado dell’epoca, la «Voce del Popolo» è il quotidiano in lingua italiana di Fiume dopo che Fiume era diventata jugoslava. Nella penultima riga della stessa p. 19, quella canzone è una vecchia canzone – tra fine Ottocento e primo Novecento, ma più ottocentesca – triestina. È citata secondo la pronuncia triestina che ignora le doppie e quindi non «vanno», bensì «vano», non «Egitto», bensì «Egito».

p. 20

r. 16 sgg. Qui il protagonista sta leggendo, o ripetendo mentalmente, la sua cartella clinica, interpolandola con i suoi commenti a ciò che ha scritto il dottore.

Nella quart’ultima riga della stessa pagina, i tre nomi di località indicano tre gulag; Port Arthur è il famoso penitenziario in Tasmania all’epoca della colonizzazione dell’Australia.

p. 21

r. 10-11. Nomi di navi da guerra, rispettivamente danese e inglese, sulle quali ha combattuto Jorgen.

r. 26: qui il protagonista sente quelle parole in bocca come se fosse del fango che qualcuno gli ha tirato in faccia. Bojkot, un termine del linguaggio del gulag di Goli Otok. Indica un trattamento di punizione speciale riservato ai prigionieri, che venivano isolati, sottoposti a persecuzioni e sevizie supplementari e così via.

p. 22

r. 4. Barcola è alla periferia di Trieste, la si attraversa arrivando da Venezia o da Udine, costeggiando il mare. Da Barcola, o meglio dalla costiera tra Barcola e Miramare, si vede, dall’altra parte del golfo, l’Istria. Il protagonista si trova in realtà proprio a Barcola, in un centro di igiene mentale o in un ospedale psichiatrico, e infatti gli sembra di riconoscere Barcola o l’Istria, ma, siccome è convinto di essere invece ancora agli antipodi, in Tasmania, a Hobart Town, pensa che questa sia una illusione o un trucco di chi lo tiene recluso.

r. 28. Il massacro di Risdon Creek: si allude a un massacro di indigeni, da parte di bianchi, di cui si parlerà più oltre. Nella penultima riga della pagina, compare l’immagine ricorrente in tutto il libro, quella che ha anche contribuito a dargli il titolo, ossia la storia di Nelson che continua a bombardare Copenhagen anche dopo che questa ha alzato la bandiera bianca, perché dice cinicamente che non avrebbe potuto vederla, in quanto guardava mettendo il cannocchiale sull’occhio bendato, dopo che aveva perso un occhio.

p. 23

r. 6: la frase in inglese è quella attribuita a Nelson e deve restare in inglese in ogni traduzione.

r. 15. Il sole dell’avvenire. Si allude naturalmente all’ideale socialista, in cui il protagonista ha creduto tutta la sua vita.

r. 20. Tito-Stalin. Si allude a quello scontro fra Tito e Stalin che ha portato appunto alla deportazione di gente come il protagonista sull’isola di Goli Otok.

Due righe più sotto, quella è una delle tante voci del dottore o del misterioso interlocutore, forse al di là del computer, forse solo nella sua testa.

Poche righe più sotto, Woodman: il nome della nave che trasportava i condannati ai lavori forzati da Londra in Australia e in Tasmania; tra questi forzati c’era Jorgen.

p. 24

r. 3, quegli aborigeni. Si riferisce naturalmente ai Tasmani che, come viene ricordato più oltre, sono morti tutti, si sono estinti, sterminati o fatti morire di fame dai colonizzatori.

r. 18, Nyhavn. È il nome del porto di Copenhagen.

r. 35 sgg: questa è una citazione sempre della sua autobiografia, che dice esattamente: the sad but instructive vicissitudes of his fate to pass by unwept and unrecorded … wrapped up in the darkness of a long and silent night – illacrymabiles [le tristi ma istruttive vicissitudini del suo fato passare illacrimate e obliate … avvolte nelle tenebre di una notte lunga e silenziosa – traduzione redazionale].

p. 25

r. 2: aye aye: nel gergo marinaresco inglese, indica sì. Deve restare però così in ogni traduzione.

r. 4: Argo. È il nome della prima nave ricordata nel mito, quella degli Argonauti e quindi è il nome della nave per eccellenza. Per questo, diventa anche, nella realtà o nella fantasia del protagonista, il nome dato al computer, dato che si parla di navigare in rete. E per questo si richiama il detto latino: navigare necesse est, riferito qui ironicamente al navigare in rete, come la parola successiva, cybernauti.

Nella stessa pagina il cognome vero Cippico-Čipiko-Cipico: anche qui, indica che pure il protagonista fa parte di quel mondo composito di frontiera, come indica il suo nome italianizzato.

Qualche riga più sotto, no pasarán: è il grido dei combattenti antifranchisti, mentre viva la muerte era il grido dei combattenti franchisti.

p. 26

r. 6: Kroz stroj: linguaggio del gulag di Goli Otok. Indicava la punizione più tremenda riservata ai detenuti, quando un detenuto era abbandonato alle sevizie e alle persecuzioni, obbligatorie, degli altri detenuti, ognuno dei quali più infieriva su di lui, più sperava in qualche premio o attenuazione della punizione.

Una riga più sotto, Vittorio Vidali: lo storico leader del comunismo triestino, una delle più importanti e controverse figure del comunismo internazionale, grande antifascista, combattente di Spagna e creatore dell’esercito repubblicano spagnolo e del suo mito; accusato di essere l’assassino di Trockij, più tardi, all’epoca di Goli Otok, sostenitore delle tesi staliniste contro Tito.

r. 17-18: quei nomi italianizzati indicano appunto quel processo di italianizzazione, all’inizio più o meno spontaneo, dovuto a ragioni sociali, e poi al tempo del fascismo imposto e forzato, dei nomi slavi. S’ciavi è il termine dialettale, ma soprattutto spregiativo, per indicare gli Slavi. Resentài vuol dire letteralmente, in dialetto triestino, risciacquati e indica appunto questi nomi originari slavi, considerati originariamente, dal punto di vista del nazionalismo italiano, come sporchi, poi risciacquati e italianizzati. L’Isonzo è il fiume al confine orientale d’Italia e Jadransko More, Mare Adriatico in slavo. In questa metafora i nomi slavi vengono italianizzati, risciacquati, per così dire, in Arno, cioè nella lingua toscana, simbolo della più pura lingua italiana, secondo il famoso detto.

Due righe più sotto: Nevèra, Strijèla. Il primo, termine dialettale, indica la tempesta, in particolare la tempesta marina. Il secondo vuol dire saetta, in croato.

Due righe sotto: ancora quel gioco di parole su PC.

p. 27

r. 20: Arbe, in croato Rab, un’isola molto vicina, nella quale, durante la seconda guerra mondiale, gli italiani avevano messo su un Lager, dove erano stati uccisi molti slavi, anche bambini, e molti ebrei.

p. 28

r. 5: facendo musi. Musi vuol dire visi, ma nel senso di smorfie, far smorfie.

Nella riga più sotto, ribaltòn. Termine dialettale, ma entrato nella forma “ribaltone” nella lingua italiana per indicare un rovesciamento, un crollo così grande che capovolge le sorti di un paese, di un partito e così via. Ribaltone è quello, ad esempio, del 1943 che in Italia ha fatto cadere il fascismo, ribaltone qui è il rovesciamento della situazione che fa sparire il comunismo, o almeno il sistema sovietico.

r. 15, goldoni. Termine colloquiale per dire contraccettivi, preservativi.

r. 22. La bandiera qui descritta è quella che, effettivamente, come lui stesso racconta nel suo manoscritto sulla avventura islandese, Jorgensen aveva inventato durante le tre settimane del suo potere in Islanda. Poi, quelle due righe sono la citazione del suo proclama, anche questo contenuto nel suo voluminoso manoscritto sulle avventure islandesi. Letteralmente dice così: We Jorgensen, his Excellency the protector of Iceland, Commander-in-Chief by Sea and Land. Per un’eventuale traduzione islandese penso si possa trovare il testo nel volume Saga Jörundar Hundadagakóngs di Jón Þorkelsson, 1892.

p. 30

r. 1. Internazionale: è l’inno dei partiti comunisti internazionali, il famoso inno.

p. 31

r. 2: già spiegato quel «semo cagai».

r. 5: briscola: un popolare gioco di carte.

r. 14: Kinderstube. Letteralmente, in tedesco, la stanza dei bambini. Qui sta per l’educazione, e indica una buona educazione fornita ai bambini. A Trieste, se uno era maleducato, si diceva che non aveva avuto una buona Kinderstube.

r. 22: La mano che traccia le lettere di fuoco sulla parete si riferisce all’episodio biblico del banchetto del re Baldassarre di Babilonia, durante il quale, mentre tutti gozzovigliano ebbri di potere, appare una mano che disegna qualcosa sulla parete, con lettere di fuoco, lettere che nessuno sa decifrare tranne il profeta Daniele, il quale le decifra dicendo che quelle lettere annunciano il fatto che i giorni del re sono contati e Dio sta mettendo fine al suo regno e alla sua vita.

p. 32

r. 21: quel pacco sotto il braccio è un altro cenno al mito del Vello d’oro, in particolare all’episodio in cui Giasone incontra Era, in forma di vecchia che non riesce ad attraversare la strada allagata e la aiuta, perdendo il sandalo. Questo gli procura il favore della dea, ma anche, poco dopo, il sospetto e l’inquietudine dello zio Pelia, che aveva strappato il trono a suo fratello, padre di Giasone. Un oracolo aveva predetto a Pelia che un uomo con un sandalo solo gli avrebbe messo in pericolo il regno e Pelia per questo aveva mandato Giasone alla conquista del Vello d’oro affinché morisse in quell’impresa impossibile. Qui è Blasich che poco dopo si impensierisce vedendo Tore con una scarpa sola e lo spedisce malignamente in Jugoslavia. Il tappeto o coperta giallastra che la vecchia porta nel pacco è appunto un’allusione al Vello d’oro.

p. 33

r. 22: i due nomi sono due nomi di réclame, non so più se di calze o di occhiali, ma non importa.

Più sotto, quella frase del misterioso interlocutore rifà il verso o meglio esprime le ideologie della Rete, l’estremo del postmoderno che irride i progetti forti di cambiare il mondo, di dargli senso, di fare la rivoluzione, e cerca di convincere Tore – o forse è una tentazione nel suo intimo – che tutto ciò per cui egli ha dato la vita è una stupidaggine, niente di più di una delle tante finzioni del mondo del marketing, come se rivoluzione non fosse più importante di Salmoiraghi o Rhodiatoce.

Nella stessa pagina, r. 4 dal basso, Avatar: nella religione induista è la personificazione di una divinità sulla terra e indica soprattutto la reincarnazione, una fase della reincarnazione. Nel linguaggio della Rete, del mondo digitale, indica un alter ego digitale di un utente della rete Internet, dotato di un nomignolo e di un aspetto grafico, insomma una specie di reincarnazione dell’utente, un suo alter ego, un suo doppio.

p. 34

r. 5. Pianto e stridore di denti. È una citazione evangelica, Matteo, 8,12, che sta a indicare il regno delle tenebre dopo la morte.

r. 10, Eeta figlio del Sole. Citazione dalle Argonautiche orfiche, v. 55.

r. 21: le Argonautiche di Apollonio Rodio è appunto il poema dal quale, insieme alle Argonautiche orfiche saranno tratte le successive citazioni dal mito degli Argonauti che echeggiano nella mente del protagonista e diventano la sua storia.

r. 4 dal basso, Oberdan: Ci si riferisce a Guglielmo Oberdan, eroe dell’irredentismo italiano a Trieste, impiccato per aver cercato di fare un attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe. Simbolo di questo eroismo sacrificale per il ritorno di Trieste all’Italia, in realtà Oberdan si chiamava Oberdank, ossia era di origine slovena, cosa che i patrioti italiani di Trieste, soprattutto i nazionalisti, volevano dimenticare. Qui, agli occhi del comunista, Oberdan è il simbolo di un estremismo rivoluzionario-nazionalista per lui infantile, rispetto al cosiddetto “socialismo scientifico”.

p. 36

r. 7: Comitato Centrale. Naturalmente il Comitato centrale del Partito comunista italiano.

p. 37

ultima riga: qui si descrive il risultato della risonanza magnetica, trasformato nella fantasia di Tore.

p. 38

r. 11. Maria, bianca margherita. È la prima volta che qui viene introdotto il nome della donna amata e colpevolmente sacrificata. Quel «bianca margherita buia radura» è una allusione alla protagonista de La radura di Marisa Madieri, che è appunto una margherita, ma naturalmente, dal punto di vista oggettivo del racconto, non ha importanza saperlo.

r. 31 o 30, bubez. Termine del dialetto triestino per indicare garzone, apprendista e, in senso lato, tirapiedi, aiutante di basso rango.

Nella riga più sotto, si descrive il ritratto di Jorgen che c’è effettivamente nella sua autobiografia.

p. 39

r. 7, Dolly. È il nome della famosa pecora clonata che ha fatto discutere i giornali di tutto il mondo.

Nella stessa pagina, r. 8 dal basso, Westall: nome di un vero pittore, arrivato agli antipodi con quella nave. Ne parla anche Nadolny nel suo romanzo La scoperta della lentezza, Die Entdeckung der Langsamkeit.

p. 40

r. 17: Jorundar (o Jörundar). È il nome con cui è noto Jorgen in Islanda. Mangawana, nome tasmano, indica una donna, che talora è una donna amata da Jorgen, talora il nome dato scherzosamente e affettuosamente da suo padre a sua madre, talora una ragazza amata da Tore e così via.

p. 41

r. 2: Bush. Naturalmente è la boscaglia australiana, tasmana.

p. 42

r. 9: ci si riferisce a una legge, a un decreto del governo australiano, che scoraggiava duramente l’immigrazione. In Australia, com’è noto, c’è stata una forte immigrazione proveniente da tutto il mondo, anche dall’Italia, e poi c’è stata, dopo la seconda guerra mondiale, in particolare, una immigrazione di Italiani provenienti dall’Istria, da Fiume e così via, che avevano dovuto lasciare le loro terre divenute jugoslave.

r. 23: sono i nomi, rispettivamente in italiano e in croato, della medesima isola che è a sud di Lussino.

p. 43

r. 5. Frank Clune e Percy Reginald Stephensen sono due autori di una biografia romanzata, o romanzo biografico, su Jorgen, The Viking of Van Diemen’s Land: the stormy life of Jorgen Jorgensen, 1954, un libro che può essere utile come fonte, ma letterariamente pessimo. O come in altri casi, qui non si deve capire bene se si tratta di un riferimento reale o inventato, come nelle bibliografie di Borges.

p. 44

r. 10: Gino Knesić è il nome di un personaggio reale, che effettivamente ha vinto una regata in quel luogo. Qui si vuole appunto condensare, nel tempo unico e mitico in cui vive il protagonista, la navigazione di duecento anni fa con quella (sia pure solo una regata, ma nel medesimo posto o quasi) di qualcuno arrivato laggiù, come Tore, dopo la seconda guerra mondiale.

Nelle righe seguenti, quei nomi di fotografi e musicisti sono, anch’essi, nomi reali, desunti da vari libri sull’emigrazione italiana, in particolare da quelli di Cresciani.

p. 46

r. 25. O morte, dov’è il tuo pugnale? È una citazione da San Paolo, I Corinzi, 55. La croce a doppia elica è, naturalmente, quella del dna, del codice genetico.

p. 47

r. 1: le squadre d’arruolamento forzato erano le squadre della marina inglese che reclutavano a forza i marinai, nei porti, prendendoli e portandoli sulle navi.

p. 48

r. 21. Gilas e Kardelj sono due figure eminenti del comunismo jugoslavo. Gilas, prima ideologo di Tito e poi intellettuale dissidente, autore del famoso libro La nuova classe (The New Class), Kardelj, uno dei luogotenenti di Tito, uno dei teorici inventori della teoria dell’autogestione dei lavoratori, che avrebbe dovuto essere una via jugoslava al socialismo.

Qualche riga più sotto, lo zio Albestee è un personaggio nominato nelle storie di famiglia di Jorgen.

p. 49

r. 9 sgg. Qui ci si riferisce al linguaggio dei trattati di retorica (come ad esempio quello di Prisciano e così via) che Pistorius insegna.

p. 50

r. 1, Ranković. É un personaggio molto importante del comunismo jugoslavo, prima nella Resistenza e poi ministro dell’interno, molto spietato e duro.

r. 12, Orlec. È un luogo sull’isola di Cherso, come gli altri posti di cui si parlerà molto di più, tipo Miholaščica. La storia del macellaio è naturalmente inventata.

p. 51

r. 4. Il Ticket of leave veniva rilasciato dal governatore della colonia penale in Tasmania.

p. 53

r. 14. Otaheiti. È il nome dell’epoca dato a Tahiti.

p. 54

r. 8 sgg. Sono i nomi di vari psicofarmaci usati in Italia.

r. 13, Sfinx. In questo caso il protagonista attribuisce questo nome al suo interlocutore informatico o forse veramente riceve messaggi con questo nome, che alludono a questi suoi complessi edipici e lo offendono.

p. 55

r. 27. Plava Grota: è una grotta azzurra, nell’isola di Cherso, in croato Cres. Isola in cui si trova anche il lago di Vrana.

p. 56

r. 5: Qui si allude evidentemente ad una seduta spiritica, che vuole evocare Struensee. Era stato un uomo politico molto importante nel Settecento, divenuto un po’ il padrone dello Stato oltre che amante della regina Carolina Matilde; poi arrestato e giustiziato, come si dice dopo. Come si vede a p. 57, r. 26 («Silenzio!») il protagonista, in questa rievocazione delirante, evidentemente di qualcosa che non ha visto ma ha letto, si identifica persino con il ministro, come farà con Jorgen e con altri personaggi.

p. 59

r. 24. La grande torre è ancora là. Questa è la citazione tratta dalla descrizione di Oehlenschläger di cui ho parlato. La citazione esatta arriva fino a «nel mezzo del fuoco» e poi continua con le frasi «crolla con tre paurosi rombi sfondando tutti i piani dell’edificio». Questa precisazione naturalmente interessa soltanto la traduzione danese, e non le altre che possono procedere traducendo la mia parafrasi. Accludo nell’allegato 1 il passo originale danese.

p. 60

r. 1: Questo è un passo di Jorgen, nella sua autobiografia, quando descrive l’incendio del palazzo reale di Copenhagen. The flames that issued from the immense pile, awful beyond conception as they were, filled my youthful mind with the most lively emotions of delight. I never contemplated for a moment the destruction of property in the striking magnificence of the scene [Le fiamme che scaturivano da quella immensa pila, terribili oltre l’immaginabile quali erano, mi colmarono la giovane mente delle più vivide sensazioni di delizia. Mai, neppure per un momento, mi venne da pensare, nell’impressionante magnificenza di quella scena, alla distruzione dell’edificio – traduzione redazionale]

Nelle righe successive, quel passo che descrive le immagini che escono dai ritratti e così via, ritorna ancora più volte nel corso del libro e dovrà essere ripreso con le stesse parole. La camicia di Nesso è la storia mitica di Eracle, che aveva ucciso il centauro Nesso e, più tardi, indossa una camicia che era stata inzuppata nel suo sangue, nel sangue del centauro, e che si incendia e lo fa morire nel rogo.

p. 62

r. 2: Frase in dialetto triestino, che vuol dire «non mi lamento del mio destino, ho trovato un altro stabilimento balneare, un altro luogo in cui fare il bagno di mare». Come più oltre, l’espressione triestina «bagno» non indica la vasca né la stanza da bagno, ma i bagni di mare. A Trieste, andare al bagno non significa andare al gabinetto, ma andare al mare. Questa poesiola esiste realmente, l’ha scritta Cesare Colussi, uno dei tanti triestini emigrati in Australia dopo la seconda guerra mondiale. L’ho presa da uno dei volumi consultati, esattamente Giuliano-dalmati in Australia, a cura di Gianfranco Crescioni (1999).

r. 15, Bordizar: bordeggiare, andare in barca costeggiando pacificamente la costa. Una riga più sotto. Pedocìn vuol dire letteralmente piccolo pidocchio ed è il nome vernacolo dello stabilimento balneare Lanterna, dove uomini e donne sono separati. «Il Piccolo» è il giornale, il quotidiano di Trieste.

p. 63

r. 3-4. È il testo reale di un fascicolo turistico diffuso dall’azienda di turismo croata per invitare a passare le vacanze in quell’isola, dove anni prima c’era stato il gulag.

r. 12. «Giù alla Baia». L’espressione inglese è Bay side. Questa nota riguarda soltanto la traduzione inglese; peccato che non ci sia in essa quel senso di “giù” che c’è nella traduzione italiana e che potrebbe essere senz’altro mantenuta nelle altre traduzioni, anzi lo dovrebbe. Non so se sia possibile anche nella versione inglese, pur rispettando la dizione autentica originale, introdurre un po’ il senso del “giù”.

r. 23. Bagni. Anche qui, bagni di mare, ma c’è naturalmente l’associazione con il bagno penale.

p. 64

r. 13: entrare in un notturno e fumoso purgatorio. È una citazione nascosta da Verde acqua di Marisa Madieri. È bene che i traduttori, se traducono il mio libro in una lingua in cui è stato tradotto anche il libro di Marisa (croato, spagnolo, francese, tedesco, polacco, sloveno) usino la stessa espressione usata dal traduttore rispettivo di Verde acqua. La frase si trova nel capitolo segnato 29 aprile 1983, verso la metà.

p. 65

r. 8 sgg. Qui ci si riferisce alle varie tradizioni e testi che narravano il viaggio di ritorno degli Argonauti facendolo passare per le terre più strane, come quelle descritte nelle righe che seguono. L’opera più importante, che narra questo viaggio, addirittura nell’oceano, è Argonautiche orfiche, da cui in questo libro ci sono parecchie citazioni.

p. 66

r. 6. Il fetore di Filottete. Ci si riferisce al personaggio greco dell’omonima tragedia di Sofocle, il quale per punizione degli Dei ha una ferita alla gamba che non guarisce mai ed emana un fetore insopportabile.

Più sotto, nella stessa pagina, è una delle tante volte in cui parla questa specie di alter ego digitale, postmoderno, che irride tutti i sogni forti del protagonista.

Nella terz’ultima riga, la battaglia di Gog e Magog, è il motivo biblico della battaglia finale, che deciderà l’esito finale della storia del mondo.

p. 67

Ancora citazioni dai dépliants turistici croati.

r. 13, pijeskari vuol dire cavatori di sabbia.

r. 16, ziviere. Termine veneto-istriano per indicare una sorta di barella sulla quale venivano caricati sabbia, cemento e malta e la sabbia tirata su dal fondo del mare.

r. 27. Una canzone popolare che si cantava a Londra per le strade al tempo di Kidd. Nell’originale inglese ci sono due versioni: quella inglese

My name is Captain Kidd, who has sail’d
[who has sail’d],
My name is Captain Kid
d, who has sail’d;
My name is Captain Kid
d
What the laws did still forbid
Unluckily I did while I sail’d
[while I sail’d, etc.]

La versione americana è molto più fedele a quella italiana che io ho citato da una traduzione italiana, tranne il nome che, stranamente, non è William, come di fatto si chiamava Kidd, bensì Robert.

My name was Robert Kidd, when I sail’d, when I sail’d,
My name was Robert Kidd when I sail’d
My name was Robert Kidd, Gods laws I did forbid,
And so wickedly I did when I sail’d.

Penso che la cosa più semplice sia adottare questa versione, mettendo però il nome William.

p. 69

r. 8 dal basso. Rastegorac è un personaggio reale, uno dei peggiori torturatori dell’isola, ricordato in tutti i libri, ad esempio in quello di Giacomo Scotti ecc. La fumarea è un termine che indica quella specie di fumo o di nuvola di fumo che si crea sul mare quando soffia un vento come la bora e il mare è coperto da un pulviscolo di acqua e di vento che fa annegare il nuotatore.

p. 70

r. 10-11 Anche questa citazione dalle Argonautiche, vv. 1237-38 (libro IV).

r. 16 sgg. Il dolore mi prese… È una citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, nella traduzione di Guido Paduano. Corrisponde ai versi 1245-1246 (libro IV).

Tre righe più sotto, una calma accidiosa. È sempre una citazione dalle Argonautiche, v. 1249 (libro IV).

r. 23. Meglio sarebbe stato morire… Sempre dalle Argonautiche, v. 1255 (libro IV).

Una riga sotto, Guadalajiara, si riferisce alla famosa battaglia della guerra civile spagnola, in cui i volontari antifascisti italiani guidati da Pacciardi vinsero i franchisti.

Nella riga seguente, i guerrieri nati dai denti del drago: ci si riferisce al mito degli Argonauti, è una delle imprese che deve compiere Giasone, uccidere i guerrieri che nascono dai denti del drago.

Nella stessa pagina, r. 30, non vedo che fango: anche questa è una citazione nascosta del v. 1265 delle Argonautiche (libro IV).

Stessa pagina, r. 31, solleviamola con forza tenace: v. 1375 delle Argonautiche (libro IV).

Due righe più sotto, quella citazione che comincia «ho udito una storia sicura…». Sempre citazione dalle Argonautiche, v. 1382-1386 (libro IV).

p. 71

r. 2 sgg. Citazione dalle Argonautiche, vv. 1387-1390 (libro IV).

p. 73

r. 8: a parte Clune e Stephensen, già citati, anche gli altri due corrispondono a realtà. Rhys Davies, autore della vita romanzata o romanzo biografico Sea Urchin: Adventures of Jorgensen, 1940. Dan Sprod è l’autore della vasta biografia The Usurper, 2001, ma, anche in questo caso, è bene che non si capisca se si tratta di riferimenti veri o inventati.

Sette righe, più sotto, ci si riferisce a un romanzo scritto da Jorgensen, in inglese (il manoscritto si trova alla British Library dal titolo The adventures of Thomas Walter as related by a friend.

Alcune righe più sotto, quella descrizione di luoghi londinesi è tratta da cronache dell’epoca.

p. 75

r. 4. Il gatto a nove code è la famosa terribile frusta con cui venivano fustigati i marinai e i forzati.

p. 76

r. 11: ci si riferisce a termini della politica australiana, che metteva restrizioni agli immigrati, sottolineando molto la difesa della pura razza bianca anglosassone.

Nella stessa p. 76, r. 6 dal basso: la risoluzione del Cominform è la condanna con cui l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, ovviamente dominata da Stalin, aveva condannato Tito e la sua politica.

p. 77

r. 17: Terra Australis incognita. Era la denominazione con cui, prima delle scoperte e delle esplorazioni che hanno fatto conoscere il nuovo continente, si disegnava l’incerto e misterioso nuovo continente australe.

p. 78

r. 4: ufficio d’imposta e dogana. La dizione inglese usata da Clune e Stephensen è: Collector of Port Dues and Customs.

Nella stessa pagina, in fondo: il Velebit è una catena di monti lungo la costa dalmata, la Morlacca è un canale o meglio un tratto di mare del Quarnero, fra la costa e un’isola, particolarmente tempestoso.

p. 82

r. 24, lasco e cazzo: termini marinareschi che indicano rispettivamente allentare o tendere la vela. Nella stessa riga, surfing: si allude sia al surf, sport sulle onde, sia al termine usato nel linguaggio Internet, che indica il saltare di qua e di là, a casaccio, nella rete, da un sito all’altro.

r. 3 dal basso e sgg. Questa è una citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 684-688.

Ultime righe: nelle due ultime righe c’è uno sbaglio. Non «tracimati» ma «trascinati»; non «si mutano» bensì «si urtano». La continuazione della citazione, a partire da «La colomba» ecc. è una mia libera condensazione, desunta dalle note di Luciano Migotto alla citata traduzione delle Argonautiche Orfiche, di questo stesso passo delle medesime Argonautiche e di un passo analogo di un testo indiano, dove si parla del sacro Soma custodito tra due foglie d’oro «taglienti come rasoi e che a ogni batter d’occhio di scatto si chiudono» e di un falco che attraversa questo sbarramento. Si potrebbe, per correttezza, mettere le virgolette in chiusura dopo «vasto cielo» e poi tradurre alla lettera la mia libera rielaborazione.

p. 83

r. 15, ammutinarsi, sul mare, sembra inevitabile quanto navigare. La frase ritorna, tale e quale in altro contesto, a p. 268 e quindi anche là dev’essere tradotta allo stesso modo, proprio come Leitmotiv.

p. 85

r. 4: anche la storia della foca ritorna, più oltre (p. 276-7), con qualche variante e quindi anche dev’essere ripresa linguisticamente.

p. 91

r. 3 dal basso: lui decide che i cigni sono 12. Vuole in qualche modo imitare gli auguri dell’antica Roma, per i quali il volo di dodici uccelli aveva un significato appunto augurale, un presagio del destino.

p. 92

r. 6: Wallaby: come il bandicot della pagine seguente, è un marsupiale, un mammifero in qualche modo affine ai canguri, piccolo.

Successivamente bisognerebbe lasciare, in quell’elenco di motti, il gioco delle lingue diverse. Lasciate ogne speranza voi che entrate è naturalmente il verso della Divina Commedia, da tradurre, direi, citando qualche versione classica, ognuno nella propria lingua (Inferno, III, 9).

p. 96

r. 3: Jermyn: nome di un funzionario inglese, non so più se vero o inventato, ma non ha nessuna importanza.

Più sotto, Atalanta e Meleagro sono due personaggi del mito, due della spedizione degli Argonauti. Atalanta è il famoso personaggio del mito greco, la donna che nessuno riuscirà a raggiungere nella sua velocità.

p. 97

Il personaggio di Marie Frazer è realmente nominato, ma assai poco, negli scritti di Jorgen. Per la traduzione non ha importanza saperlo, visto che io sviluppo la cosa a modo mio.

p. 97-98

ultima e prima riga: credo che, in questo passo del timore di aprire la porta, già presente se non erro in Danubio, ci sia un’eco delle Lettere a Milena di Kafka e del suo senso di colpa per il suo ritrarsi dall’amore.

p. 99

r. 1: è una citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, v. 793 (Libro I).

p. 100

r. 5 sgg: anche questa è una citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 827-831 (Libro I).

Nella stessa pagina, le località più in basso sono tutte località lungo la costa orientale dell’Istria, oppure isole del Quarnero.

p. 104

r. 16: il Libro degli Inni è, appunto, il libro degli Inni protestanti. Non credo si tratti del Book of Common Prayer e non so se esista una raccolta per così dire dominante e ufficiale degli Inni che si cantano in chiesa. Tra l’altro, c’è il problema delle varie chiese protestanti; direi che comunque non si può trattare di calvinisti. Ma di questo si potrà e dovrà parlare più specificatamente col traduttore inglese.

p. 109

r. 25-26. La cicatrice di Ulisse è quella che lo fa riconoscere quando ritorna a Itaca; la piaga di Filottete è quella di cui abbiamo già parlato e, per quel che riguarda Cronos, si riferisce al mito greco di Cronos, figlio di Urano, il cielo, che evira il padre, mutilandolo con la sua falce.

Poche righe più sotto, i crumiri sono naturalmente i lavoratori che, anziché essere solidali con i loro compagni, fanno il gioco del padrone, sostituiscono gli scioperanti e non fanno sciopero e così via.

p. 110

r. 8: il dischetto è uno dei dischetti, di cartucce di memoria, qui il protagonista confonde il dischetto che salva i dati del computer con la cartuccia di memoria cablata, di cui parla la letteratura Cyberpunk, che replica la capacità di un morto e può inserire, grazie alla sua memoria elettronica, le memorie elettroniche di un altro e così via. E così come i dischetti vengono infilati nel computer o in un’altra macchina, così il protagonista immagina che possano venir infilati nelle fessure, nelle ferite di cui egli è pieno.

p. 111

r. 16. Il titolo originale della tragedia è Enghien and Adelaide. C’è un’altra stesura che porta il titolo di Duke d’Angiens, Tragedy in five Acts, ma non è importante.

r. 19. L’originale dice: May I…?

p. 114

r. 16. Ancora citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 888-892 e 896-897, libro I. Qui il suo alter ego lo interrompe, perché egli esita, per ovvi motivi, a ricordare il passo che allude a una sua paternità. Anche qui, r. 23, citazione dalle Argonautiche, vv. 897-898 (Libro I).

Più sotto, ancora citazione dalle Argonautiche, v. 899 (Libro I).

p. 115

r. 5 dal basso: queste frasi devono restare in inglese in ogni traduzione. Nella traduzione in inglese, bisognerà far capire, non so bene come, quella loro stranezza, mantenere insomma l’effetto straniante.

p. 118

r. 7. Qui le onde che avvolgono la nave vengono viste come le spire del mitico serpente di mare.

p. 119

r. 4 dal basso: anche qui, è quel suo alter ego, digitale o reale o inconscio, che contrappone ai suoi ideali rivoluzionari una postmodernità in cui non esistono più valori, non esistono più giudizi, e così via.

p. 120

r. 4 dal basso: dove vai, Marmont? Era la cosiddetta “canzone di Salamanca”, Salamanca Song, che, durante la guerra di Napoleone in Spagna, i chitarristi spagnoli cantavano per deridere l’esercito francese. È riportata nel libro di Richard Aldington Il duca di Wellington, titolo originale semplicemente Wellington. Non so se si possa rintracciare questa canzone di Salamanca in un originale che, credo, è spagnolo. Il testo originale dice Ah, Marmont! Onde vai, Marmont?

p. 121

r. 7. Giustizia e Libertà: è il nome del noto movimento antifascista liberal-democratico di sinistra.

p. 123

r. 13. Displaced person. Era la denominazione ufficiale messa sul passaporto di profughi ed esuli.

p. 124

r. 12: l’isola dei morti si chiama The Isle of the Dead. Non ricordo se quegli epitaffi e quelle lapidi siano autentici o, come credo, inventati da me. Certamente li ho in qualche modo riscritti, dopo aver preso tutti gli appunti visitando l’isola dei morti.

r. 5 dal basso, Robertus Montanus è il protagonista di una commedia manoscritta di Jorgen che si chiama Robertus Montanus, or the Oxford Scholar, a Comedy in four Acts.

p. 125

r. 8. Puer Point. È effettivamente la roccia, che esiste tuttora, dalla quale si gettavano, suicidandosi, i bambini galeotti.

Otto righe più sotto, il drago è naturalmente quello del Vello d’oro, che qui diventa il simbolo del drago totalitario, del nazismo, del male della storia.

Sei righe più sotto, «fegatini» è un modo per indicare la dimensione più misera e piccola dell’Io individuale, i problemi, le paure, le manie e le debolezze personali.

p. 126

r. 5: nazional-popolare. È un termine tipico della cultura italiana, coniato da Gramsci. Originariamente e per molti anni ha avuto un significato positivo; per Gramsci, nazional-popolare era, ad esempio, un’opera capace di cogliere, attraverso un destino individuale, il senso della storia e della società del paese, naturalmente in questo caso dell’Italia, quindi della nazione intesa in un senso progressivo, esteso anche e soprattutto alle classi popolari e anzi conservato autenticamente nelle classi popolari. Così, a questo filone nazional-popolare si è richiamato gran parte del grande cinema italiano di sinistra del secondo dopoguerra e così via. Col passare dell’epoca, con la trasformazione della società e il tramontare dei gusti, nazional-popolare è diventato, almeno per alcuni, il simbolo di una sorta di nobile retorica sorpassata. Qui si vuol dire che il protagonista si difende contro l’accusa che i suoi ideali siano, appunto, una nobile retorica sorpassata.

Nella stessa pagina, l’elenco di quelle città o cittadine è l’elenco di posti dove venivano trasferiti dal fascismo gli antifascisti messi in carcere o mandati al confino.

p. 129

r. 18. Jarama. Una delle località (collinosa) in Spagna, teatro degli scontri nella guerra civile spagnola.

p. 130

r. 8: qui si paragona quell’eventuale patto con il famoso patto Molotov-Ribbentrop, la celebre alleanza fra Stalin e Hitler del 1939, che procurò uno choc a tanti comunisti.

p. 132

r. 3: Battery Point. È un punto sulla costa in Tasmania, nei sobborghi della capitale Hobart Town.

p. 133

r. 16, Apollonio. Qui il protagonista dialoga, arrabbiato, con il suo misterioso interlocutore – o con uno di essi – che dice di firmarsi Apollonio, quasi ironicamente alludendo all’autore delle Argonautiche e della storia di Giasone, in cui il protagonista si riconosce.

Riga successiva e seguenti. Anche qui, citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio. La citazione comincia dalla frase «Ma giunta la notte» e corrisponde ai vv. 1015-1028. La frase «Anche me… con loro» è una mia variazione dei vv. 1038-39 (Libro I).

Qualche riga più sotto, FAI. È la Federazione anarchica, che, durante la guerra di Spagna, si scontra in lotta fratricida con i comunisti, un generale dei quali – particolarmente spietato – è Lister.

p. 134

r. 13 sgg. Anche qui, citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 1053-54 (Libro I).

Due righe sotto, altra citazione dal medesimo testo, vv. 1057-1062 (Libro I).

p. 135

r. 1, Olandese Volante. È la nota leggenda dell’Olandese Volante, condannato sempre a viaggiare per mare, la cui vista annuncia naufragi e sciagure.

p. 137

ultima riga. È la medesima citazione di p. 28, di cui avevo già dato la traduzione inglese originale.

p. 139

r. 20, frassino della stirpe, signore della lancia. Sono espressioni prese dalla poesia scaldica, la poesia scandinava degli Scaldi. Precisamente da Egill Skalla-Grímsson, La vendetta impossibile per i figli, Sonatorrek (testo islandese accluso; allegato 2, specialmente per un’eventuale traduzione islandese).

p. 140

r. 1, come p. 141, r. 6. Lasciare il latino; questo è il testo reale della composizione fatta, alla fine delle sue tre settimane di regno in Islanda, contro Jorgen.

p. 141

r. 5 dal basso. Il fazzoletto rosso naturalmente è quello del partigiano comunista, la principessa calpestata dai bianchi cavalli si riferisce a un episodio tragico dell’Edda, il poema epico scandinavo, in cui una principessa viene appunto calpestata da bianchi cavalli.

p. 143

r. 30 sgg. Qui ho parafrasato il proclama emanato oralmente da Jorgensen, inframezzandolo di altre cose. Trascrivo il testo inglese. Questo vale fino a p. 145, le due prime righe, e anche le ultime della p. 144.

That we, Jorgen Jorgensen, have undertaken the management of public affairs, under the title of PROTECTOR, until a settled consitution can be adopted, with full power to make war or conclude peace with foreign powers. The military have nominated us their commander by land and sea.
That all public documents of consequence shall be signed by my own hand, and my seal. (J.J.) fixed thereunto, until such time as the Representatives shall assemble and provide a proper seal.
[…] We promise to lay down our offices the moment that the Representatives shall be assembled. The time appointed for the convocation of the Assembly is the 1st of July, 1810; and we will then resign when a proper and suitable constitution shall be fixed on.
[…] And it is declared that the poor and the common people shall have an equal share in the government with the rich and powerful.
[…] All sentences and acts of condemnation must be signed by us before they can be executed.
That the Icelandic flag shall be blue, with three stockfish thereon, and the honour of it we promise to defend at the risk of our life and blood.

p. 150

r. 5 dal basso: il Diluvio è naturalmente il Diluvio universale.

p. 151

r. 11, Kapò. Erano i prigionieri del campo di concentramento tedesco, anche ebrei, che venivano adoperati dai tedeschi come una specie di guardia interna, e di loro aiutanti nei confronti degli altri prigionieri, che essi trattavano ferocemente illudendosi così di venire risparmiati dai tedeschi.

r. 18: idioti e cretinoidi. Il testo tedesco della targa parla di Schwach- und Blödsinnigen, Idioten und Cretinösen. In realtà – ma non è importante per il romanzo – si tratta di una mia inesattezza: questo istituto era stato fondato non a Dachau, ma nel castello Schloss Hartheim vicino a Linz, dove furono assassinati col gas molti deportati di Dachau, donde la mia inesattezza.

p. 152

r. 8: si allude a un episodio storico, l’esecuzione di un vescovo cattolico.

Due righe sotto, la frase «se la scrofa ha peccato piangano i porcellini» si trova anche nella Nemesis divina di Linné (Linneo); non so se sia di derivazione biblica, questo senso di punizione dei discendenti per la colpa dei padri.

p. 153

r. 4: Vorkuta è il famoso gulag artico staliniano.

Alcune righe sotto, c’è il gioco di parole tra Siberia e Cyberia, che fa parte del gergo informatico.

Le storie seguenti sono tutte inventate da me. Nella riga 8 dal basso, l’Hekla è un vulcano islandese.

p. 154

r. 19. Pene molle. È un’espressione oltraggiosa usata nelle saghe scandinave e nella poesia scaldica. Solo in un’eventuale traduzione islandese usare forse l’espressione norrena.

p. 155

r. 8: qui il protagonista per un momento si identifica con il personaggio del pastore. Nella stessa pagina, ultima riga, Langeldur è una specie di focolare in Islanda.

p. 157

r. 3. Si allude naturalmente a Snorri Sturluson, il poeta autore dell’Edda Snorra o Edda Minore, una specie di trattato epico-mitologico della mitologia scandinava.

Nella stessa pagina, r. 9 dal basso: il buio finale in cui muoiono le metafore è una citazione nascosta tolta dal romanzo Un vento sottile di Stefano Jacomuzzi. C’è una versione francese, da cui si può, per la traduzione francese, citare la frase: L’obscurité où meurent les métaphores.

p. 159

r. 17: Nevèra. L’ho già spiegato prima, è la tempesta improvvisa che piomba sul mare.

p. 160

r. 8. Il caffè Loyd di Fiume è quello ricordato da Marisa Madieri nel suo Verde acqua. Così come, due righe sotto, quell’accenno alle radure è un implicito omaggio al suo libro La radura. Lo dico solo per curiosità, naturalmente non ha importanza nella traduzione.

p. 161

r. 1. Cantare le spade, maneggiare le spade. Non occorre saperlo, ma comunque è un riferimento a Snorri, il poeta che aveva celebrato il combattimento e il coraggio in guerra e che invece era stato un vile, capace di cantare ma non di usare la spada.

p. 162

r. 2. Bastone d’infamia. Era l’uso islandese, per indicare la vergogna di qualcuno, un delitto commesso e così via. In questo caso, la vergogna di una ragazza rimasta incinta – niδstong

p. 165

r. 9. Ci si richiama a quell’elenco già fatto (ergoterapia). Bisognerebbe che risaltasse la differenza linguistica, come, nel mio testo italiano, la citazione in tedesco.

p. 166

r. 12. La prima metà della frase è la famosa espressione di Winckelmann, che è un po’ la definizione della classicità: in tedesco, edle Einfalt und stille Größe. Qualche riga più sopra, per il museo marittimo di Anversa, in una traduzione olandese bisogna citare, naturalmente, il suo nome esatto in olandese, National Scheepvaartmuseum, Antwerpen.

p. 169

r. 10. I poeti dicono molte bugie. È un famoso detto greco antico.

Filippo Cassola mi segnala che si trova in Solone (fr. 21 D3), nella Metafisica di Aristotele, nello storico Filocoro, in Plutarco. Gino Bandelli mi segnala il frammento 29 dell’edizione di M.L. West, Volume II, Oxford 1972, p. 137 (derivato da Pseudo-Plato, Perì dikaíou, 374°). La traslitterazione in alfabeto latino potrebbe essere la seguente: Pollà pséudontai aoidói.

p. 171

r. 20 e sgg., sino all’inizio di p. 172. Ci si riferisce a un componimento poetico islandese antico, Canto di Ragnar nella fossa dei serpenti, non compresa (solo nominata) nella Saga di Ragnar. Jorgen Jorgensen se ne occupò realmente e in alcuni suoi appunti del manoscritto sulla sua avventura islandese, ovviamente mai pubblicato, ne parla e ne trascrive qualche verso. Io ho citato una vecchia versione italiana, prendendola dalla versione italiana della Storia del progresso e dell’incivilimento in Europa dall’era cristiana fino al secolo decimonono di E. Roux Ferrand, Vol. 1, Venezia 1842. In ogni caso è un testo noto nella scandinavistica.

p. 172

r. 8 dal basso: Artemisia. Si allude alla storia greca di Artemisia, moglie del re Mausolo, che alla morte del marito, non solo gli fece dedicare una grandissima tomba (donde il nome di Mausoleo), ma, per averlo sempre con sé, lo fece cremare, mise le ceneri in un otre di vino che bevve, incorporando in sé il marito.

p. 173

r. 5 dal basso: anche qui, c’è una riga che riprende, pari pari – e così deve succedere anche nelle traduzioni – la descrizione dell’incendio del palazzo reale, rimasto come un’ossessione.

p. 174

r. 7 dal basso. Sono le stesse espressioni di p. 10, che vanno quindi riprese pari pari.

p. 175

r. 9 dal basso, andare in tilt. Indica l’interruzione improvvisa di circuito elettrico, con conseguente blocco del meccanismo; in senso traslato, quando anche qualcosa di simile succede nella testa, non riusciamo più a coordinare le cose e così via.

p. 176

r. 7: il tappeto verde è sia il tappeto verde del Casinò, sia della valle di Giosafat del giudizio universale.

Più sotto, evidentemente, c’è come una fusione delirante fra una udienza del tribunale del popolo e le immagini del giudizio universale, con i buoni e i cattivi a destra e a sinistra del Signore.

Più sotto, c’è ancora una ripresa di un dettaglio dell’incendio del palazzo, da riprendere tale e quale.

p. 177

r. 3 dal basso. E il corpo sarà gettato in mare. Questa era la frase, diciamo così, standard per i funerali in mare. Sarà bene trovarla, altrettanto standard, in ogni lingua.

p. 178

r. 1. Di Vidali ho già parlato. La Bernetich è anche un personaggio reale, una militante del partito comunista triestino che ha avuto un certo ruolo, anche se imparagonabile a quello di Vidali.

Nella stessa pagina, r. 9 dal basso e sgg: altra ripresa e citazione di un momento dell’incendio del palazzo.

p. 179

r. 4. Internazionale futura umanità. Qui è parafrasato proprio un verso dell’Inno, che dice appunto «Internazionale futura umanità». Così come, più sotto, la frase «proletari di tutto il mondo unitevi» è la classica frase del socialismo e del comunismo.

p. 180

r. 4. Zizzanie sono piccole liti, equivoci. I peccati veniali e peccati mortali, secondo la Chiesa cattolica, sono i peccati leggeri e quelli gravi, che comportano la morte dell’anima.

p. 181

r. 5. Nevèra. Come in precedenza, è il nome di battaglia del protagonista.

r. 20. Quelle frasi slave vogliono dire «morte al fascismo, libertà ai popoli». Erano slogan ripetuti di continuo, scritti sui muri e così via. Mariza, come poco dopo Márja o come prima Marie, è naturalmente uno sdoppiamento della figura di Maria.

p. 183

r. 1. Trabiccolo. Una barca scassata, come dire un rottame, un ferro vecchio. Traù, in croato Trogir. Più sotto, il maestro Radovan è uno scultore che ha adornato il palazzo e la cattedrale. Più sotto ancora, si allude a un episodio, in cui, in questa zona mista veneto-slava, un tempo appartenente alla Repubblica di Venezia, alcuni nazionalisti slavi avevano preso a martellate i leoni di pietra simbolo di Venezia.

p. 184

r. 5. È la formula di saluto-augurio serbo e vuol dire «Cristo è nato, Buon Natale».

p. 186

r. 3. John Johnson. Il misterioso alter ego, digitale (o forse digitale solo nella fantasia, non ha importanza) del protagonista parla usando ogni tanto i diversi nomi che Jorgen stesso si era dato nel corso della sua vita avventurosa e fuggiasca.

p. 187

r. 12-13. Del Puer Point ho già detto. Qui, si riprende il mito di Giasone e Medea e precisamente di quando Medea, fuggita con Giasone e inseguita dal fratello Absirto, aiuta con l’inganno Giasone a uccidere Absirto che, fatto a pezzi, cade in mare e dal suo corpo, secondo la leggenda, nascono le Assirtidi, cioè le isole del Quarnero, nell’Alto Adriatico, come appunto Cherso e Lussino, che tanta parte hanno in questo libro. Qui al fratello di Marie, che appunto ho chiamato per questo Abs, succede come ad Absirto, cade in mare e viene fatto a pezzi dagli squali.

Più sotto, a proposito di Mariza che prende in giro il protagonista per il nome del palazzo, si allude di nuovo a quel cambiamento di nomi, in genere italianizzati, di cui ho già parlato e di cui sono esempi il protagonista stesso e anche quel suo presunto avo Alvise, il cui nome viene scritto ora nella grafia veneta italiana ora in quella croata.

p. 188

r. 12, Cetnici. Il termine indica ordinariamente i membri dei gruppi partigiani balcanici che, alla fine del secolo XIX combattevano contro la dominazione ottomana e più tardi si sono disputati la Macedonia. Dopo la creazione del regno di Jugoslavia nel 1918, sono stati chiamati così i nazionalisti serbi, riconosciuti legalmente dal governo di Belgrado e organizzati militarmente, che assicuravano la preminenza dell’elemento serbo in Jugoslavia, soprattutto sul piano militare. Durante la seconda guerra mondiale e durante l’occupazione tedesca della Jugoslavia, c’erano sia formazioni cetniche che, soprattutto per anticomunismo, collaboravano con gli occupanti tedeschi e dunque anche con gli italiani loro alleati, sia formazioni che invece combattevano contro i tedeschi, per fedeltà al regno jugoslavo, anche se erano partigiani monarchici e anticomunisti e quindi in disaccordo con i partigiani comunisti. Inizialmente, i partigiani cetnici sono stati aiutati dagli anglo-americani, i quali poi hanno aiutato piuttosto Tito. Il capo dei cetnici era il generale Mihajlović, ricordato poche righe più sotto nel mio libro, che fu poi fucilato da Tito. Gli ustascia, invece, erano i fascisti croati che appoggiavano il regime fascista croato guidato da Pavelić. Come si dice nelle mie pagine, c’era una grande confusione perché alla guerra diciamo così ufficiale tra Germania e Italia da una parte (fino al 1943) e Regno di Jugoslavia dall’altra si sovrapponeva e si intrecciava lo scontro tra serbi e croati, acutissimo fra gli ultranazionalisti croati ustascia e quelli serbi cetnici, e inoltre lo scontro fra comunisti e anticomunisti. Dopo il 1943, la cosa si complica ancora di più, perché l’Italia, da alleata della Germania, passa a sua nemica.

p. 189

r. 24 sgg. Quei nomi sono reali, tolti da una cronaca. Non è importante, ma lo dico per curiosità.

p. 191

r. 8 sgg. Bisogna lasciare in latino, naturalmente, la citazione di quel testo, scritto da un presunto avo del protagonista.

p. 192

r. 2. Nell’Iliade, Nestore, vecchio e ciarliero, parla sempre degli eroi della sua giovinezza, del suo tempo, dicendo che sono tanto più valorosi di quelli che invece stanno combattendo. Nella stessa pagina, r. 5. dal basso, il nome del compagno è naturalmente inventato. L’esercito di Tito era diviso appunto in vari Corpus.

p. 193

r. 4, Drusi. È una italianizzazione, usata dalle nostre parti, che deriva da Drug, plurale druga, compagno. Indica i partigiani titoisti. Naturalmente la parola drusi è una storpiatura, che viene però usata. È anche il titolo di un romanzo dello scrittore croato Milan Rakovac, Riva i Drusi, letteralmente «arrivano i compagni», un romanzo che racconta appunto le vicende dell’Istria alla fine della seconda guerra mondiale, con l’arrivo dei partigiani, usando spesso una sorta di linguaggio misto, croato ma anche croato-italiano, istro-croato, insomma una mescolanza tipica di frontiera.

Più sotto, c’è una citazione da una cronaca, una vecchia cronaca. Nella stessa pagina, r. 6, c’è un gioco tra la freccia del mouse, sul computer, e la freccia vera. Entrambe, in questo caso, fanno sprizzare sangue, fanno male al protagonista. Nella stessa pagina, r. 8 dal basso. Quella frase vuol dire Buon Natale. C’è, volutamente, una lievissima differenza, da come è scritta a p. 184, perché a p. 184 c’è la grafia serba, quella con cui poteva e doveva parlare o scrivere una serba come Mariza, negli anni ’40, mentre qui, a p. 193, la grafia è quella che corrisponde a quella usata un paio di secoli prima, infatti a parlare, qui, è, nel nuovo sdoppiamento, la donna di tanto tempo prima, Márja.

r. 11 segg. È un rifacimento-pastiche di episodi della guerra fra veneziani e pirati uscocchi , nel XVI-XVII (inizio) secolo. Le citazioni, rielaborate e rimodulate, sono prese da Nicola Contarini, Delle Istorie veneziane et altre a loro annesse, cominciando dall’ anno 1597 e successivamente, ora in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni e T. Zanato, Ricciardi, Milano-Napoli 1982. Nelle note al testo di Contarini, comprese in questo volume, si trovano riferimenti a cronache, rapporti, relazioni relative agli Uscocchi, utilizzate in qualche accenno.

Gli Uscocchi erano pirati slavo-dalmati, originariamente profughi dai territori ottomani, stabilitisi lungo la costa dalmata, da dove – specie da Senj – infestavano l’ Adriatico con le loro scorrerie, intrecciandosi ai vari complessi conflitti fra Venezia, Impero ottomano, Austria absburgica, ma soprattutto spinti dagli Absburgo contro Venezia che condusse varie guerre contro di loro.

p. 194

r. 15 sgg. Qui rifaccio il verso, inventando, a quella cronaca uscocca usata prima, più sotto, c’è una parafrasi della preghiera Confiteor.

p. 195

r. 2, Terza Internazionale. Ci si riferisce naturalmente all’organizzazione internazionale dei partiti comunisti.

p. 197

r. 3 dal basso: ci si richiama a una scena già ricordata all’inizio.

p. 198

r. 18 sgg: questa descrizione ritorna, con lievissime varianti, ma pressoché identica, a p. 201, r. 12 sgg, quindi ci dev’essere questa ripetizione-citazione anche nella traduzione.

p. 200

r. 7: lo dico a titolo di curiosità, perché non interessa affatto chi traduce. Può darsi, che qui ci sia stato, in me, inconsapevole, un ricordo del romanzo di Thackeray, La fiera della vanità, Vanity Fair, in cui la battaglia di Waterloo è descritta attraverso notizie che arrivano dalle retrovie. Ma nella mia descrizione (peraltro non si può nemmeno parlare di descrizione, perché c’è solo una riga di allusione) non c’è nessuna eco del romanzo inglese.

p. 203

prime righe. Si tratta di località slovene, sul Monte Nevoso. Strijèla, come sappiamo, vuol dire saetta, ma deve restare naturalmente Strijèla. Anche il battaglione Budicin esisteva veramente. Poche righe più sotto, quelle scritte di cui si parla erano effettivamente le scritte di quei mesi e di quegli anni. Vogliono dire rispettivamente «Trieste è nostra», «Diamo la vita ma non diamo Trieste». È anche una ripresa di un passo di Un altro mare, dove avevo citato queste scritte politiche titoiste. Più sotto viene menzionato il Lager di Arbe, istituito dagli italiani.

r. 10 dal basso: “domobranci”. Reparti sloveni armati, alleati agli occupatori nazisti durante la seconda guerra mondiale. Si trattava di formazioni anticomuniste, che avrebbero desiderato una Slovenia nazionale di destra indipendente e soprattutto libera dai comunisti. Erano guidati dal generale Rupnik, il quale alla fine della guerra venne processato e poi fucilato, mentre la maggior parte dei militi domobranci vennero fucilati senza processo.

p. 206

r. 6. In questo paragrafo, il protagonista, nel suo fantasticare, fa una sorta di condensazione tra la descrizione di un viaggio in mongolfiera a Berlino, fatta e riferita da uno scrittore tedesco, Pückler-Muskau (che lui ha trovato, presumibilmente, come dice più oltre, nella biblioteca dell’ospedale e che nella sua fantasia si ricollega al viaggio in mongolfiera fatto dal compagno di Jorgen nel viaggio in Islanda, Brarnsen), con la storia, per lui sconvolgente, dell’astronave sovietica Mir, andata in orbita con un astronauta, Sergej Krikalev, che, quando è ritornata sulla terra, non ha trovato più il paese da dove era partita, l’Unione Sovietica, perché nel frattempo l’Unione Sovietica aveva cessato di esistere. E si capisce lo sconvolgimento che tutto ciò provoca nella testa di Tore. Per il traduttore tedesco, accludo i passi del testo tedesco di Pückler-Muskau che sono alla base, sia pure indirettamente, di alcune descrizioni di questo capitolo.

r. 5 dal basso e sgg. Qui le descrizioni si richiamano all’aurora boreale del viaggio in Islanda e dovrebbero quindi ricalcare le stesse parole.

p. 207

r. 10: il vecchio libro in caratteri gotici è, appunto, il volume di Pückler-Muskau, che lui ha trovato in biblioteca e che pensa gli abbiano fatto trovare apposta per fargli credere di essere a Trieste, dove invece si trova veramente.

r. 10 dal basso: Giù alla baia. Naturalmente questo termine dev’essere sempre tradotto nello stesso modo.

Nella descrizione del viaggio, accludo, ma solo per la traduzione tedesca, le pagine di Pückler-Muskau sulle nuvole etc. Comunque la descrizione è mia, anche se volutamente echeggia qua e là la sua, e le frasi sono tutte mie. L’episodio della fata morgana, ossia dell’illusione ottica per cui i personaggi sulla mongolfiera si vedono enormi su una nuvola è accennato dal principe, ma lo racconto io.

Wir stiegen so allmählich auf, daß ich noch vollkommen Zeit hatte, mehreren Damen und Herren meiner Bekanntschaft freundliche Winke und Grüße aus der Höhe zuzusenden. Nichts Schöneres kann man sich denken als den Anblick, wie nach und nach die Menschenmenge, die Straßen, die Häuser, endlich die höchsten Türme immer kliener und kleiner wurden, der frühere Lärm erst in ein leises Gemurmel, zuletzt in lautloses Schweigen überging und endlich das Ganze der verlaßnen Ede gleich einem Pfyfferschen Relief sich unter uns ausbreitete, die prächtigen Linden nur noch einer grünen Furche, die Spree einem schwachen Faden glich, dagegen die Pappeln der Potsdamer Allee riesenmäßige, viele Meilen lange Schatten über die weite Fläche warfen.

[…]

So rückten sie, ein Koloß den andern drängend, von allen Seiten uns umzingelnd, immer näher heran. Wie aber stiegen noch schneller und waren schon hoch über ihnen, als sie endlich in der Tiefe zusammenstießen und wie ein von Sturm bewegtes wogendes Meer sich über- und durcheinanderwälzten und die Erde bald gänzlich unserm Blick entzogen. Nur zuweilen zeigte sich hie und da ein unergründlicher Schacht, vom Sonnenlichte grell erhellt wie der Krater eines fenerspeienden Berges, und schloß sich dann wieder durch neue Massen, die in ewigem Gären bald blendend weiß, bald dunkel schwarz, fort und fort hier sich hoch übereinandertürmten, dort bodenlose Spalten und Abgründe bildeten.

[…]

So hatten wir fast unvermerkt uns in das Wolkenmeer getaucht, das uns ringsum wie dichte Schleier umgab, durch welche die Sonne nur wie der Mond schien, eine Ossiansche Beleuchtung von seltsamer Wirkung, die eine geraume Zeit anhielt. Endlich zerteilten sich die Wolken und schifften nur noch einzeln am wieder klaren, azurnen Himmel umher. Als sollte nun unsrer glücklichen Fahrt auch keins, selbst der seltensten, Ereignisse fehlen, so erblickten wir jetzt erstaunt auf einem der größten Wolkengebirge eine Art fata morgana, das treue Abbild unserer Personen und unsres Balles, aber in den kolossalsten Dimensionen und von bunten Regenbogensfarben umgeben. Wohl eine halbe Stunde schwebte uns das gespenstige Spiegelbild fortwährend zur Seite, jeder dünne Bindfaden des uns umgebenden Netzes zum Schiffstaue angeschwollen, wir selbst aber gleich zwei unermeßlichen Riesen auf dem Wolkenwagen thronend.

[…]

Unsere Lage war jedoch diesem festlichen Empfang gar nicht angemessen. Schon hatten wir beiderseits, um uns leichter zu machen, unsere Mäntel herausgeworfen, sowie einen gebratnen Fasan und zwei Bouteillen Champagner, die wir zum Abendessen mitgenommen, und wir lachten im voraus bei der Voraussetzung, welches Erstaunen diese Meteore bei den Landbewohnern erregen würden, wenn etwa einem oder dem andern auf dem Felde Schlafenden der gebratne Fasan ins Maul oder der Wein vor die Füße fiele, oder gar auf den Kopf, wo der Champagner statt heiteren Rausches als vernichtender Donnerkeil wirken könnte.

[…]

Wir hingen indes ganz gemächlich in den Ästen des geräumigen Baumes, wußten aber durchaus nicht, wie wir herunterkommen sollten. Lange riefen wir vergebens um Hilfe, endlich kam in der schon eingetretenen Dämmerung ein Offizier auf der nahen Landstraße hergeritten. Er hielt unser Rufen zuerst für irgendeinen ihm angetauen Schahernack und fluchte gewaltig. Endlich entdeckte er uns, hielt höchst verwundert sein Pferd an, kam näher und schien immer noch seinen Augen nicht trauen zu wollen, noch zu begreifen, wie dies seltsame Nest auf die alte Fichte geraten sei: Wir mußten ziemlich lange von unserer Höhe perorieren, ehe er sich entschloß nach der Stadt zurückzureiten, um Menschen, Leitern und einen Wagen zu holen. Zuletzt ging alles gut vonstatten, aber in dunkler Nacht erst fuhren wir in Potsdam ein, den wenig beschädigten, nun leeren Ballon in unsern Wagen gepackt und die treue Gondel zu unsern Füßen. Im Gasthofe „Zum Einsiedler“, der damals nicht der beste war, hatten wir leider reichliche Ursach, den Verlust unsres mitgenommenen Soupers bitter zu beklagen, da wir keine andere Würze des neuen als den Hunger auftreiben konnten.

p. 210

r. 11. Si allude, di nuovo, alla rivoluzione evirata, così come Urano è stato evirato da Saturno, Cronos, con ovvie allusioni allo spazio dei cieli, e si allude anche al potere comunque fecondante della rivoluzione, pur mutilata.

Più sotto, dove si parla dei gemelli, si allude evidentemente alla teoria della relatività e al famoso paradosso dei gemelli di Einstein, secondo il quale, di due gemelli, se uno naviga nello spazio a grandissima velocità e l’altro resta a terra, invecchiano in modo diverso, quello che naviga resta giovane e l’altro, sulla terra, invecchia.

Nella stessa pagina, r. 4 dal basso, ancora una ripresa del motivo dell’incendio del palazzo di Copenhagen.

p. 211

r. 6 dal basso, due mummie: i guardiani rimasti a terra, secondo il paradosso dei gemelli, sono invecchiati, mentre l’astronauta è rimasto giovane.

Quattro righe più sotto, quel «margherita nell’alba» è allusione alla Radura di Marisa Madieri, la cui protagonista è una margherita, ma questo conta poco per la traduzione.

p. 212

r. 1: I have been threatened too much.

r. 10: Dark period…desirous, if I could, to blot it from the records of my existence.

p. 213

r. 13 dal basso: quel nome lunghissimo è effettivamente corrispondente al nome di quel sovrano.

p. 214

r. 6: le ossa umiliate. È la citazione quasi letterale di un salmo, non occorre citarla con esattezza.

Nella stessa pagina, ultime tre righe: la citazione esatta è: to be hanged by the neck until you be dead, and may the Lord have mercy on your soul.

p. 215

r. 8 dal basso: «La Difesa adriatica» era ed è ancora un giornale degli esuli dall’Istria, Fiume e Dalmazia, certamente nazionalista, ma qui, ovviamente, l’epiteto di fascista è visto dalla prospettiva di Vidali.

p. 217-218

la predica del reverendo Blunt, inventata da me, utilizza la retorica ecclesiastica e molte metafore (specie quelle della luna e del mare) usate dal linguaggio ecclesiastico. Le ho tolte, almeno principalmente, dal volume Ecclesiologia di Hugo Rahner, rielaborandole ovviamente a modo mio. Il titolo originale è Symbole der Kirche. Die Eklesiologie der Väter.

p. 219

r. 3: Tyburn era il luogo in cui avvenivano le impiccagioni.

p. 220

r. 6. Il titolo è esattamente The Religion of Christ is the Religion of Nature.

r. 7 dal basso. Ci si riferisce naturalmente all’episodio biblico che separa le acque del Mar Rosso affinché gli ebrei possano passare sfuggendo agli egiziani.

p. 223-224:

Vedi quello che ho già detto a proposito della predica di Blunt.

p. 227

ultima riga: la Nelly, come si vede poco dopo, è la nave che trasporta Tore in Australia. Qui c’è naturalmente la condensazione-identificazione, nella mente del protagonista, fra le due navi, quella che ha portato Jorgen e quella che ha portato Tore in Australia.

p. 228

navi di Lazzaro: è il personaggio biblico, resuscitato da Gesù; qui si dice navi che portano risorti.

p. 229

r.16: Eight Chirugical Treatises di Wiseman, non Wieseman.

r. 23: citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 185-186 (libro IV).

p. 231

r. 19: Eeta figlio del Sole. Citazione dalle Argonautiche orfiche, è una combinazione del v. 55 e del v. 841.

p. 232

r. 16: Meridione. Il termine con cui si indica il genere il Sud Italia.

p. 239

r. 6. Citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, v. 921 (Libro I).

r. 6 dal basso. È una citazione da Robert Graves, Il Vello d’oro, titolo originale inglese Hercules, My shipmate nel capitolo 17 (o The Golden Fleece, altro titolo dello stesso romanzo).

p. 240 sgg.

Qui c’è una scena che monta il ricordo di un lavoro fatto dal protagonista, a Roma, mentre attendeva di partire per l’Australia, prima in treno sino a Bremerhaven e poi da lì con la nave in Australia. Un lavoro fatto come comparsa per un film – un filmaccio, filmone in costume, girato al Colosseo, uno di quei film con martiri cristiani dati in pasto alle belve, imperatori romani feroci come Nerone e così via. Fra l’altro, ho pregato il mio amico Franco Giraldi, il regista, di scrivermi tre o quattro pagine di sceneggiatura così come la si poteva scrivere in quegli anni, all’inizio degli anni Cinquanta, perché temevo di fare qualche errore mettendoci dentro qualcosa che, tecnicamente, allora non esisteva. Quindi in questa scena si immagina che i cristiani, secondo il copione del film, dovevano rifiutarsi di combattere nell’arena gli uni contro gli altri, come voleva il crudele imperatore. Questa loro mitezza doveva destare la rabbia inferocita del pubblico e dovevano essere dati in pasto ai leoni, secondo la retorica di questi film. Il protagonista, mentre recita la sua parte, si confonde e, in un primo momento, disobbedendo al copione, si butta addosso agli altri, cristiani come lui, e per questo viene buttato fuori dall’aiuto-regista. Tutto questo è inoltre intrecciato all’episodio delle Argonautiche, in cui gli Argonauti e i Dolioni, nella notte, non si riconoscono, ognuno crede di avere davanti a sé un nemico e si distruggono a vicenda in una lotta fratricida, come appunto quella fra comunisti a Goli Otok o fra comunisti e altri combattenti antifranchisti in Spagna e così via. Le parti in corsivo sono le didascalie del copione, della sceneggiatura.

p. 242

r. 6: citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 1021-1029 (Libro I).

r. 20. Stop. È il regista che, mentre sta dirigendo la scena, vede che il protagonista sbaglia tutto, sbaglia la sua parte, si arrabbia e decide di buttarlo fuori.

r. 23-24. Ancora citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 1053-1054 (Libro I).

p. 243

le ultime righe. Si allude alla scena dei misteri, dell’agnello fatto a pezzi, ricordata e citata prima. Così, a p. 244, r. 1, ci si riferisce ancora a quel mangiare le carni dell’animale sbranato e divinizzato, nei Misteri e nel loro rito.

p. 245

r. 9. Citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 778-780.

p. 247

r. 1-2. Citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 363-365.

r. 9 dal basso: «William Buelow Gould» è il protagonista del romanzo di Richard Flanagan, La vita sommersa di Gould (Gould’s book of Fish); un personaggio anch’egli realmente esistito, che era stato in una colonia penale di Tasmania e che, nel libro di Flanagan, fa anche un accenno a Jorgen, raccontando appunto la storia della sua morte sotto una valanga di libri.

p. 250

r. 15: citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 907-910.

p. 251

r. 9: il giaguaro del Messico. Era il soprannome con cui Vittorio Vidali era noto, non solo a Trieste e in Italia, ma nel movimento comunista di tutto il mondo, per la sua attività nel Messico (dove, fra l’altro, era stato anche accusato, ma sembra proprio a torto, di avere avuto parte nell’assassinio di Trockij).

p. 253

r. 8-9: citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 822-23.

p. 254

r. 10. Citazione dalle Argonautiche orfiche, vv. 684-687.

r. 11 e seguenti: qui si riprende pari pari – dunque dov’essere ripresa pari pari nella traduzione – la citazione di pp. 82-83, con una analoga contaminazione e rielaborazione da parte mia per quel che riguarda la seconda parte della citazione. L’espressione «precipite morte» è tolta dalle Argonautiche orfiche, v. 701, ma mutata nel senso, in quanto nel mio testo l’uccello precipita, mentre in quello originale si salva. In questo passo, nel piccolo pastiche di questo passo, io ho anche utilizzato qualcosa dello stesso episodio narrato nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, libro II, vv. 562-5; 566-7; 571-3.

p. 255

r. 6: Qui, in un’altra delle proliferazioni e trasposizioni e identificazioni del delirante protagonista, anche il fratello di Maria diventa una controfigura di Absirto, il fratello di Medea, ucciso da Giasone con l’aiuto di quest’ultima, fatto a pezzi, i quali poi sono diventati, nella leggenda, le isole del Quarnero.

p. 257

r.1 e sgg.: Citazioni-parafrasi dalla Medea di Euripide, verso 1285 e seguenti. Qui il protagonista immagina che sia il suo alter ego, digitale e immaginario, a ricordargli queste cose.

riga 6 dal basso, «quante mammane». Le mammane sono le donne che insegnano e aiutano ad abortire. Qui si allude alla morte del figlio, ucciso nel ventre della madre, di Maria, morte di cui il protagonista si accusa. C’è anche l’analogia con l’Isola dei Morti, e con le erbacce raschiate via come nel raschiamento di un aborto.

p. 258

r. 4: Qui si allude alla famosa opera religiosa, letta e consultata moltissimo a quell’epoca, di John Bunyan, The pilgrim’s progress (1678–1684). Città della Perdizione è City of Destraction, Città Celeste Celestial City. Alcune righe più sotto, quelle sono tutte espressioni offensive per galeotti, profughi, immigrati in Australia. Penso che debbano restare così in ogni versione. Alcune righe più sotto, nuovamente la citazione di San Paolo, «O morte, dov’è il tuo pugnale», che ho già indicato prima.

r. 6 dal basso, qui c’è la metafora del treno che esce dal tunnel nella luce come una balena che sale dalla profondità del mare, oscura, alla superficie. La stessa metafora è proseguita nella pagina seguente, alla riga 4-5, quando si parla di una mostruosa generazione dei forzati nel ventre della nave.

p. 259

penultima e ultima riga: è una citazione nascosta di una quartina del Dhammapada, il fondamentale testo buddista, in cui le travi sono le varie vite, nelle varie reincarnazioni, che, nel pensiero buddista, si anela a far finire. Qui c’è invece questa immortalità, altrettanto negativa e dolorosa per il protagonista, della nave, che continua ad esistere.

p. 260

r. 15:

There is also a native of Denmark, named Jorgen Jorgensen, formerly a dispenser of medicine in Newgate, and well-known to most of the prisoners in the Colony. He is a very intelligent man and speaks several languages. He was here at the first formation of the Colony, chief Mate of the “Lady Nelson”, commanded by lieutenant Simmons.

r. 5 dal basso, la stessa espressione che è stata usata in precedenza.

p. 263

r. 4: I titoli degli inni e delle canzoni devono restare in ogni versione in inglese.

r. 9 e sgg.: qui c’è una metafora tra l’impiccagione, con l’erezione che essa procura, e il giustiziato, l’impiccato, paragonato alla nave che attraversa il varco dell’eternità, dopo il quale le vele si afflosciano, l’erezione finisce.

Due righe sotto, cataraccio è un’espressione semidialettale che indica sputo.

p. 264

r. 9 dal basso: Tesoro. Naturalmente è il Ministero, il Tesoro pubblico.

p. 265

r. 5: Kemp. Ne parla – ma non ha alcuna importanza per la traduzione – Nicolas Shakespeare nel suo libro In Tasmania.

p. 267

r. 1 e sgg.: qui, il suo alter ego digitale assume un altro pseudonimo, Stella rossa, parodisticamente confacente all’episodio rivoluzionario che viene rievocato, una reale rivolta degli emigranti che andavano in Australia, dopo la seconda guerra mondiale, sulla nave Hellenic Princc, di cui racconta uno studio di Cresciani. Naturalmente il protagonista si identifica con questi rivoltosi.

r. 8. la boba è un termine dialettale che indica il mangiare, il vitto, la minestra, per lo più scadente. Più sotto, altro mare può essere, involontariamente, un’allusione al mio libro dallo stesso titolo, ma non ha importanza per la traduzione; kune sono le banconote, le monete croate, sia del passato, sia, da qualche anno, di nuovo anche adesso.

r. 6 dal basso: L’esauriente studio storico è di Cresciani.

p. 268

r. 9, ammutinarsi. L’espressione è quella stessa usata a p. 83 e quindi deve essere la stessa anche nella traduzione.

p. 269

r.1 : gioco di parole fra lo stare seduti sulla panchina e la seduta terapeutica.

p. 270

r. 3: Howe è un brigante, un bandito veramente esistito, che scriveva talvolta col sangue. Così è esistito anche realmente Sheldon, ricordato a metà della stessa pagina, che Jorgen afferma di avere catturato.

p. 272

r. 1: qui si allude a una reale versione del mito degli Argonauti, che riporta l’agghiacciante storia di Giasone invecchiato che reincontra Medea e si mette di nuovo insieme a lei. Ne parla Ferecide, un mitologo del V secolo, e credo anche Simonie, ma per la traduzione non ha importanza.

r. 19: uccello. Naturalmente è l’organo sessuale maschile.

r. 4 dal basso, la palude Stigia è la palude del fiume Stige, l’Inferno della mitologia pagana.

p. 273

r. 8: insopprimibile nobiltà. Lo dico non per i traduttori, ai quali questa osservazione non serve, ma per ricordarlo meglio io, una frase tolta da una lettera, di tanti anni fa, di Beppino a Marisa, che mi è rimasta tanto impressa, in cui lui parlava di sua figlia.

p. 274

r. 1: Norah Corbett è personaggio realmente esistito, che ha realmente sposato Jorgen.

r. 7 dal basso: Qui il protagonista, vilmente, si identifica con Giasone e con i terribili torti che lui ha fatto a Medea, ma scusandolo (e dunque scusandosi), con una tipica partigianeria maschile.

p. 275

r. 18: la coperta giallastra è, naturalmente, di nuovo il vello. Più sotto, le erbe magiche ricordano quelle di Medea, i filtri con cui Medea addormentava il drago che custodiva il vello d’oro.

p. 276

r. 12: i Malgasci sono gli abitanti del Madagascar.

r. 13: si riprende, con variazioni, la storia raccontata a p. 85. Bisognerebbe dunque che il lettore se ne accorga, per la somiglianza delle parole e delle frasi.

r. 4 dal basso, Vila. Personaggio della mitologia slava, una strega marina.

p. 277

r. 21: Zlarin. È un’isola dell’Adriatico, in Dalmazia, in cui ci sono molti coralli, chiamati appunto oro rosso.

p. 278

r. 7: per questa espressione tasmana, come per le altre in seguito, mi sono servito soprattutto dell’opera Die tasmanischen Sprachen di Wilhelm Schmidt, pubblicata a Utrecht-Anvers nel 1952. Naturalmente mi sono rifatto anche e soprattutto alle cose scritte dallo stesso Jorgensen sulla lingua dei Tasmani. Per esempio – ma non soltanto – nella sua opera A Narrative of the Habits, Manners, and Customs of the Aborigines of Van Diemen’s Land in cui c’è un esplicito capitolo sui linguaggi.

r.8 dal basso : Guerra Nera: Black War.

p. 279

r. 12 dal basso: Scheda Nos… Si intende scheda nosologica, come quelle citate all’inizio. Nelle ultime righe, frasi e canzoni in tasmano.

p. 280

r. 11-12. Quella nenia, apparentemente senza senso, è una filastrocca non sensical croata; è anche una citazione da Verde acqua di Marisa Madieri, nel paragrafo intitolato 18 gennaio 1982, verso la fine. Così come lei a Fiume, anche il protagonista, quando abitava da piccolo in quelle zone, giocando con altri bambini, ripete quella filastrocca.

r. 22: Le donne pelasgiche che montano i loro uomini. Tradizioni mitiche matriarcali, riprese e riaffermate con particolare insistenza, in vari libri, fra i quali anche il rifacimento del mito argonautico di Robert Graves.

p. 282

r. 15. Esiste effettivamente, nel museo di La Spezia, una polena che si chiama Atalanta e per la quale veramente si sono uccisi i due uomini di cui si parla più sotto. C’è anche una tradizione che racconta di una donna fiamminga che serviva da modella e che è finita sul rogo come fosse una strega.

p. 284

r.15: Kelvedon è una località. Di questo episodio, e cioè del quacchero che riportava l’avvelenamento degli aborigeni da parte dei coloni, parla Nicholas Shakespeare nel libro già citato.

r. 20: È una ripresa-parafrasi del Canto I, contenuto nei Canti aborigeni australiani, raccolti da G. Englaro, Mondadori, Milano 1999; cfr. la relazione di E. Gnocchi-Ruscane alla presentazione del libro, Milano, Libreria Azalai, 20.10.1999. Per il canto che segna e delimita la terra, cfr. B. Chatwin, Le vie dei canti (The song lines), 1987, Tr. it. [di Silvia Gariglio] Adelphi, Milano 1988.

p. 284

r. 17 e sgg.: Citazione dalle Argonautiche di Apollonio Rodio (versi 1018-1026; Libro I) Non è esattamente una citazione, ma quasi, quasi tutto una citazione, c’è solo qualche collegamento che non lo è.

p. 288

r. 21: gli antichi effettivamente consideravano negativamente i viaggi per mare, come un’empia violazione dei confini posti dagli dei. Anche Seneca appunto ne parla.

p. 291

r. 8: ricordo-parafrasi del passo evangelico, Matteo, 19, 13. Più sotto quelle immagini fosforescenti e lattiginose delle scatole possono essere le televisioni, ma soprattutto le varie macchine che danno i risultati dei controlli medici. Alcune righe più sotto, quella vita che ha raschiato l’immagine di Dio che scolpiva i lineamenti evoca un passo di Marco Aurelio, ricordato in Danubio, in cui Marco Aurelio dice che gli dei in cui crediamo scolpiscono i nostri lineamenti.

r. 4 dal basso, sposa del Libano si rifà al Cantico dei Cantici.

p. 293

r. 7: Bonegilla. Un campo di raccolta degli emigranti in Australia, dopo la seconda guerra mondiale, in cui, per le sue pessime condizioni, c’è stata la rivolta o quasi rivolta di cui si parla.

r. 2 dal basso, è il titolo di un’opera effettivamente scritta da Jorgen.

p. 294

r. 12: The well known Ex-King of Iceland, Jorgen Jorgensen […] addresses on the envelopes.

p. 297

r. 7 dal basso: «Di tutta questa faccenda non si saprà mai nulla». Riecheggia la frase detta da Vidali e dalla Bernetich a p. 178.

p. 298

r. 1: Galatea. Esiste effettivamente una polena con il nome di questa ninfa della mitologia classica.

Poche righe più sotto, anche l’episodio della Rebecca ha un fondamento in una tradizione, pur qui completamente rielaborata. Stessa cosa a p. 299, r. 18, la leggenda dello scultore. Tradizione spagnola, si parla di uno scultore di polene, noto come Pep el de las figuras.

p. 301

r. 9 dal basso: 45, 46 cromosomi. Qui il protagonista, che non se ne intende di queste cose ma riecheggia vagamente cose mal apprese, non sa quanti sono. Il reverendo Manton è veramente esistito e ha scritto anzi una specie di descrizione poetico-sentimentale dell’Isola dei morti.

p. 302

r. 7 e sgg.: sono le stesse espressioni già dette a pag. 124. Là si interrompeva l’epitaffio di Sarah Eliza, che continua invece così: This lovely Bud [] in Paradise would bloom. Naturalmente non bisogna citare tale e quale, ma seguire la mia libera parafrasi. Nella stessa p. 302, la strega è il personaggio della favola di Hänsel e Gretel. Che ingrassa i bambini perché vuole poi divorarli.

p. 303

ultima riga: Luttmann. È il personaggio che compare nel paragrafo seguente.

p. 304

r. 11: a Barcellona, naturalmente, sono successi gli scontri fratricidi tra comunisti e anarchici, ricordati prima nel libro come una tragedia e una lacerazione nella vita del protagonista, che ora viene ulteriormente lacerato dal fatto che Luttmann, che era stato comandante nella guerra di Spagna, nega che sia successo qualcosa di grave, con quel massacro di anarchici fatto dai comunisti.

p. 308

r. 7 dal basso: John Franklin è un personaggio storico, governatore della Tasmania, grande esploratore, sparito più tardi fra i ghiacci nella ricerca del Passaggio a Nord-Ovest, su cui fra l’altro Nadolny ha scritto il romanzo già ricordato.

p. 309

r. 15: per curiosità, il titolo del libro di ricette è The Australian Convict recipe book, Featuring Ex-Convict Bessie Baldwin Cook to Sir John and Lady Franklin at Government House 1842 – 1849.

p. 312

r. 16: qui Norah non è solo Medea, ma anche Circe, la Circe che trasformava gli uomini in maiali, come lei sta facendo con se stessa, abbrutendosi nell’alcol, ma il protagonista pensa che il vero maiale è lui.

r. 3 dal basso; è tramandato realmente che Norah inseguisse Jorgen per le strade della città con il bastone.

p. 313

r. 5: L’espressione riportata è visitation of God. Ma è meglio usare la mia frase, forse. Le porte del caffè che fanno una giravolta si richiamano all’episodio, riportato in precedenza, di Maria sparita dietro le porte girevoli del Caffè Lloyd di Fiume.

p. 314

r. 1: Ancora dialogo col suo alter ego digitale o immaginario, dialogo che diventa sempre più ambiguo, come si vedrà nel finale. Verso la fine di questa pagina, i personaggi, sia del governatore Franklin, sia del Commodoro Ross sono autentici, come è autentica la spedizione che il Commodoro vuole fare nei Mari Antartici.

p. 315

r. 21: I loved your father [] but my follies []

p. 316

r. 19: l’uomo con la voglia sulla fronte è naturalmente Gorbacev, che sta tenendo il suo ultimo discorso, annunciando la fine dell’Unione Sovietica.

p. 318

«Ciao, C 6?», si rifà il verso all’uso di espressioni nel chattare. Naturalmente non so come questo possa essere conservato in una traduzione, visto che “ci sei” scritto invece in lettere non ha, in altre lingue, corrispondenze con un numero. Più oltre, la leggenda di Ljubo, ha un suo fondamento nella tradizione, anche se l’ho trasformata.

p. 319

r. 13-14: Almost forgotten

p. 321

Bentley o Evans sono nomi inventati.

p. 322

r. 9: la luna troppo luminosa e splendente sul Tabor. È un’allusione alla Trasfigurazione di Gesù, Matteo 17, 2 sgg.; Marco 9, 3 sgg. Tanta luce che abbaglia e impedisce di vedere.

Più sotto, si riprende le immagini rispettivamente presenti nell’incendio del palazzo di Christiansborg, del viaggio in mongolfiera, della battaglia navale e così via. Ultima riga della stessa p. 322, la pelle di pecora è il vello.

p. 324 (e anche nelle pagine seguenti).

L’episodio del gabbiano morente e rimesso in mare riprende, con ampliamenti e variazioni, una scena di Microcosmi, il paragrafo finale del capitolo Assirtidi.

r.18: l’episodio di Barclay che fustiga i forzati è reale, è riportato da Hughes nel suo libro La riva fatale, The fatal shore. In questa pagina, il protagonista parla da sottoterra, quella carne andata a male e quelle ossa sono anche le sue.

p. 325

r. 14 dal basso: si allude al titolo del libro sul Cristianesimo come religione della natura.

p. 326

r. 4 dal basso: Lo dico per pura curiosità, perché non serve alla traduzione. Mi sono accorto più tardi che questa mezza riga è forse anche un’eco di un passo di Conrad in Lord Jim.

p. 327

r. 10 dal basso: citazione-parafrasi da le Argonautiche di Apollonio Rodio, Libro I, v. 921

r. 11 dal basso e sgg.: Qui c’è una condensazione di passi anche precedenti sui riti iniziatici, sui misteri di Samotracia, e in genere sul culto del falso mistero dell’occultismo, che viene sfatato, le sacre orge ridotte a volgari vizi borghesi, a perversioni sessuali di basso profilo. In citazioni precedenti sono già state ricordate l’accoppiamento col serpente come culto di Rea, lo sbranamento del dio infante, in forma di agnello, da parte dei Dattili. Qui l’agnello diventa ariete con riferimento al vello d’oro, all’ariete scannato.

p. 328

r. 1. a Samotracia si fa, ma non si dice. È una presa in giro del tono religioso de «I riti di Samotracia a noi non è lecito cantare» (Argonautiche, Libro I, v. 921). «Si fa ma non si dice» è l’espressione per dire che certe cose brutte si fanno di nascosto, insomma si lavano i panni sporchi in casa.

p. 329

r. 23 e sgg.: ritorna, qualche volta pari pari, l’immagine dell’incendio nel palazzo reale, che andrebbe quindi ripresa dalle immagini già usate.

p. 331

r. 24. L’episodio di Giasone, morto, mentre dormiva, schiacciato dalla nave, dalla sua nave Argo, cadutagli addosso, è riportato dal mito. Così come (nella stessa pagina, r. 4 dal basso) la assunzione in cielo della nave Argo, con un movimento simile a un varo fatto da poppa.

p. 332

r. 10 – 11: la sfera inventata da Nausicaa è una tradizione mitica. Citato in G. Carli, Della spedizione degli Argonauti in Colco libri Quattro. In cui vari punti si dilucidano intorno alla Navigazione, all’Astronomia, alla Cronologia e alla Geografia degli Antichi. In Venezia MDCCXLV, appresso Giambattista Recuri, Libro II, cap. XVIII, p. 57.

p. 333

r. 19: gergo ideologico contestativo degli anni Settanta, ironizzato già ne La Mostra nei monologhi del direttore.

r. 5 dal basso. Acqua, acqua. In un gioco infantile, si nasconde un oggetto e un altro deve cercarlo. Quando si avvicina al posto in cui l’oggetto è nascosto si dice «fuochetto» se è ancora abbastanza lontano, ma sta avviandosi nella direzione giusta, «fuoco» se è già vicino, mentre si dice «acqua, acqua» se sta cercando nella direzione sbagliata.

p. 334

r. 7 dal basso: Eritis sicut Deus: citazione dalla Bibbia, dalla Genesi, quando il serpente sta tentando Adamo ed Eva a mangiare la mela. Non so come sia possibile rendere quel gioco grafico (D)io. Due righe più sotto, «O clonazione, dov’è il tuo pugnale». Una ripresa parodistica di «O morte, dov’è il tuo pugnale?», più volte citata, tratta da San Paolo.

[Trieste, primavera 2015]

Carteggio tra Claudio Magris e Anne Milano Appel, la traduttrice inglese di Alla cieca (Blindly, New Haven, Yale University Press 2012)

Anne Appel a Claudio Magris, email, 10.11.2008

Caro Claudio,

come anticipato, ti mando l’elenco dei dubbi/domande/incertezze che sono venuti a galla durante la seconda stesura della traduzione. È una lista abbastanza modesta visto gli aiuti che hai fornito nella tua lettera ai traduttori. Le tue chiarificazioni di questi dubbi mi saranno molto utili ora che mi accingo a procedere al terzo passo.

Poi, siccome ti sei dimostrato disposto a leggere dei brani tradotti, se vuoi posso inviarti dei passi tradotti man mano che vado avanti con la terza stesura. Non vorrei certo abusare della tua disponibilità e del tuo tempo, ma penso che la tua contribuzione – il tuo orecchio – possa essere molto importante per l’esito finale.

Un caro saluto per adesso,

Anna

Allegato: Domande/dubbi/incertezze

p. 33, r. 22: i due nomi di réclame (salmoiraghirhodiatoce rhodiatocesalmoiraghi) – prima ho pensato di sostituirli con i nomi di réclame inglesi, realmente esistite, di crema da barba e di Alka-Seltzer (alittledab’lldoya e plopplopfizzfizz), ma poi ho deciso di lasciare i nomi italiani siccome il protagonista li ricorda da quand’era bambino in Italia – va bene cosi`?

p. 38, r. 5 dal basso: si descrive il ritratto di Jorgen che c’è effettivamente nella sua autobiografia – ce l’hai per caso il testo inglese originale per questa descrizione?

p. 63, r. 12: “Giù alla Baia” – ci dici: «L’espressione inglese è “Bay side”. Questa nota riguarda soltanto la traduzione inglese; peccato che non ci sia in essa quel senso di “giù” che c’è nella traduzione italiana e che potrebbe essere senz’altro mantenuta nelle altre traduzioni, anzi lo dovrebbe. Non so se sia possibile anche nella versione inglese, pur rispettando la dizione autentica originale, introdurre un po’ il senso del “giù”». – e a p. 207: r. 10 dal basso: «Giù alla baia. Naturalmente questo termine dev’essere sempre tradotto nello stesso modo.» Devo dire che Bay side non mi convince, anche se è autentica, perché ormai ha una connotazione troppo generica – per lo piu` ho usato Bayside oppure down Bayside, ma mi chiedo se non sarebbe meglio dire Downunder oppure Down the Bay – che ne dici? – sicuramente Downunder suona meglio ad un orecchio “inglese”.

p. 104, r. 16: il Libro degli Inni – ci dici: «il Libro degli Inni è, appunto, il libro degli Inni protestanti. Non credo si tratti del Book of Common Prayer e non so se esista una raccolta per così dire dominante e ufficiale degli Inni che si cantano in chiesa. Tra l’altro, c’è il problema delle varie chiese protestanti; direi che comunque non si può trattare di calvinisti. Ma di questo si potrà e dovrà parlare più specificatamente col traduttore inglese». Ho trovato A Book of Hymns for Public and Private Devotion by Samuel Longfellow, Samuel Johnson, Ticknor and Fields, 1856 (Unitarian) ma poi ho deciso che non doveva essere un titolo specifico – ho risolto dicendo semplicemente the hymnal – va bene?

p. 115, r. 5 dal basso: Master Christ è very good – ci dici: «queste frasi devono restare in inglese in ogni traduzione. Nella traduzione in inglese, bisognerà far capire, non so bene come, quella loro stranezza, mantenere insomma l’effetto straniante». Ho risolto usando un inglese storpiato: Master Christ he very good.

p. 178, r. 4: «Internazionale futura umanità» – siccome si ripete in tutto il libro come leitmotiv, sono incerta se dovrei usare sempre la traduzione di questo verso dell’Inno (appunto The Internationale will be the human race), che a volte non si adatta alla costruzione della frase in questione, oppure se posso introdurre una variazione, tipo the Internationale’s future human race o the Internationale’s future humanity – cosa pensi?

p. 263, r. 6 dal basso: «la canzonaccia stroncata dalla corda in gola a Bryant mentre canta “Amore più giù, più giù, più giù”». Ho sostituito un’altra canzonaccia della Tasmania: the bawdy song strangled in Bryant’s throat by the rope as he sings “Oh! if I had her, Eh then if I had her, Oh! I would love her Black although she be!” (dal libro Shantymen and Shantyboys di Doerflinger, p. 94; i brani sono stati scoperti da lui in un libro intitolato The Quid, London, 1832) – può andare secondo te?

p. 279, r. 21 ss.: Non riconosco la fonte e quindi non mi è chiaro questo brano: «A loro piace quel passo della Scrittura che il reverendo fa loro ripetere: Nar-a-pa, sì, Poo-by-er, no. Le vostre parole siano sì, sì, no, no». La prima frase si può tradurre: They like that passage from the Scriptures that the Reverend makes them recite: Nar-a-pa, yes, Poo-by-er, no. Ma il significato della seconda frase – Your words should be yes, yes, no, no – mi scappa.

p. 288, r. 14 dal basso: Non capisco bene il significato di questo brano: «Vivere è navigare? Appunto, dottore, o chiunque tu sia, collega nascosto da qualche parte. Perché mettersi in mare, abbandonare la fida insenatura e gettarsi all’aperto, alle onde? Il mare è la vita, la pretesa tracotante di vivere, di espandersi, di conquistare – dunque è la morte, la scorreria che depreda e distrugge, il naufragio». – Per ora l’ho tradotto cosi`: To live is to sail? Exactly, Doctor, or whoever you are, a colleague hiding somewhere. Why go to sea, leave behind the trusted cove and sail out in the open, on the waves? The sea is life, the arrogant claim of living, expanding, conquering – therefore it’s death, the incursion that plunders and destroys, shipwreck.

p. 305, r. 5: «È da secoli che il vecchio cannone a Battery Point non spara più – neanche Luttmann sparava a nessuno, è da tempo che il Partito non ha più cannoni, anzi ha preso in faccia il loro rinculo ed è rimasto allocchito.» Il soggetto della frase «ha preso in faccia…» è il Partito (in senso figurativo) oppure Luttmann?

p. 309, r. 10: «Se Medea, quand’era il momento giusto, avesse preso Giasone per il bavero, più tardi forse non…» Non capisco il riferimento nel contesto di Bessie e la cucina. If Medea had led Jason up the garden path? Se lo avesse ingannato? in che senso? Che cosa non sarebbe successo «più tardi forse»?

p. 333, r. 7 dal basso: «alla Rete senza maglie» e p. 334, r. 3 dal basso: «O rete, dove sono le tue maglie…?» La metafora non mi è chiara: se la Rete si riferisce alla Network (Internet, the Net), le maglie vanno intese come le maglie di una rete? (mesh) o di un setaccio? (sifter). Oppure nel senso di un intreccio, una trappola? La Rete intrappola? O magari, non avendo maglie, non funziona come una rete di sicurezza, come un’ancora di salvezza?

In tutto il libro le citazioni dalle Argonautiche orfiche sono tradotte da me siccome non esiste (a quanto pare) una traduzione inglese – mi sa che ci siamo già accordati su questo, giusto?

Claudio Magris a Anne Appel, email, 18.11.2018

Cara Anna,

grazie per il tuo e-mail e per le tue domande. Sono così contento di essere in contatto con te e spero, come ti ho detto, di vederti, sai già che posso ospitarti e sarò felice di farlo. Cerco ora di rispondere alle tue domande

Pag. 33, r 22 : I due nomi di reclame. Sono molto incerto perché questo è proprio uno dei casi che mettono in difficoltà. Istintivamente sarei per i nomi inglesi, ma certamente la logica vorrebbe quelli italiani che, come tu dici, il protagonista ricorda da quand’era bambino. A questo punto l’unico criterio può essere quello fonico, musicale e qui sei tu che puoi decidere. Se i due nomi italiani riescono a dare al lettore inglese pur ignaro di italiano il senso di una reclame che divenga non sensical, si possono lasciare. Se invece tu pensi che risulterebbero assolutamente ermetici, allora, nonostante l’incoerenza, direi di usare i nomi inglesi. La traduzione tedesca ha mantenuto i nomi italiani, mentre quella francese e quella spagnola, ad esempio, hanno trovato corrispondenti nella propria lingua.

Pag. 63, r 12 : Assolutamente hai ragione tu, Bay Side non convince. Molto meglio down the Bay oppure Down under. Io sarei per down the bay anche perché è più vicino alla dizione originale.

Pag. 104, r 16: il libro degli inni: penso sia giusta la tua soluzione.

Pag. 115, r 5 dal basso : La tua soluzione è perfetta.

Pag. 178, r 4 : Anche qui concordo pienamente con te; a seconda dei casi, introduci pure una variazione, quello che conta è che si capisca che si riferisce all’inno comunista L’Internazionale.

Pag. 263, r 6 dal basso: Benissimo la sostituzione che hai fatto della canzonaccia.

Pag. 279, r 21: ci si riferisce al passo del vangelo di Matteo, 5, 7, in cui appunto Gesù dice: «Le vostre parole siano sì sì, no no».

Pag. 288, r 14 da basso: Il significato è questo: vivere è navigare è un famoso detto, che celebra il mare ma soprattutto la vita, la vita intesa come viaggio e traversata, rischiosa ma significativa, come una grande avventura sul mare. Qui il protagonista è in un momento in cui non ama la vita, la sente come orrore, preferirebbe non essere costretto a vivere e dunque non essere costretto a navigare, nel senso letterale ma soprattutto metaforico. Naturalmente lui in generale ama la vita e il mare, ma quando è sopraffatto dalla disperazione soffre troppo e vorrebbe non vivere, non rischiare, perché sente che vivere significa aggredire o essere aggrediti.

Pag. 305, r 5 : Sì, è il Partito che ha preso in faccia il rinculo del cannone.

Pag. 309, r 10 : Bessie, a differenza di Medea, non è una donna che si lasci calpestare dagli uomini né ingannare, come risulta del resto dalla storia della sua vita. Qui si vuol dire che se Medea fosse stata simile a lei, se avesse saputo resistere a Giasone e non accettare le sue prepotenze («prendere per il bavero» significa non lasciarsi intimorire da uno ma anzi prenderlo per il colletto, per il collo e metterlo a posto), non sarebbero successe le tragedie successive, il suo abbandono, la sua tremenda e autodistruttiva vendetta. Insomma, se Medea avesse saputo farsi rispettare da Giasone come sapeva farsi rispettare Bessie, non sarebbero successe le tragedie successive.

Pag. 333, r 7 dal basso: Qui c’è un gioco di parole che solo tu puoi sapere se funziona in inglese. La rete senza maglie si riferisce alla rete con cui si pescano i pesci, che però se è senza maglie non li prende e così loro fuggono. Qui naturalmente si intende anche la rete informatica, e quindi si allude al desiderio o al fatto che anche questa rete non sia perfetta, che abbia qualche buco e che quindi non riesca a racchiudere e a imprigionare tutto e tutti.

Pag. 334, r 3 dal basso: C’è lo stesso gioco di parole, che allude allo stesso desiderio di fuggire, di non lasciarsi prendere, di non lasciarsi riprodurre nella clonazione che fa vivere in eterno e quindi imprigiona in eterno, e di non lasciarsi prendere dalla rete informatica che scheda e imprigiona tutto e tutti. Il passo è anche un eco di San Paolo, quando egli dice «O morte, dov’è il tuo pugnale?», per indicare che Cristo ha vinto la morte e che per i cristiani la morte non può più colpire (Primo Corinzi, 15, 55). Qui naturalmente c’è sentimento opposto, il sentimento che non è la morte bensì la vita a colpire col pugnale e dunque il trionfo di essere sfuggiti alla vita, alla clonazione e al suo pugnale.

Per le Argonautiche orfiche siamo certo d’accordo che le traduci tu, e lo farai meglio di ogni altro.

Carissima Anna, grazie di tutto, un abbraccio

Claudio

Carteggio tra Claudio Magris e Ragni Maria Gschwend, la traduttrice tedesca di Alla cieca (Blindlings, München, Hanser 2007)

Claudio Magris a Ragni Maria Gschwend, email, 8.1.2007 (viste le bozze di traduzione)

Cara Ragni,

anzitutto auguri, Buon Anno, buon tutto e speriamo che anche l’anno prossimo avremo occasioni abbastanza frequenti di vederci. Sì, avverrà senz’altro, anche perché sarò parecchio in Germania con il nostro libro.

Non ti faccio più i soliti complimenti, che dovrei ripetere ogni volta. Passo ad alcune osservazioni, di cui tu poi farai l’uso che credi.

P. 140 (sempre dal tuo dattiloscritto), r. 15: metterei Bahama in corsivo, [cioè] sottolineato.

A r. 7 dal basso, c’è sempre il problema di come indicare, graficamente, questo intervento della voce esterna, ma è un fatto editoriale.

P. 141, r. 18: sei sicura che vada bene Furious? Non è forse il caso di ripetere Roaring? Comunque si può controllare.

P. 144, r. 4 dal basso: prima di Na sempre il problema, ma è dell’editore, di differenziare l’intervento esterno.

P. 150, r. 6: Säkularer: lo chiedo soltanto, dà il senso della durata dei secoli?

P. 153, r. 6: solo lo chiedo, in certi casi mi pare naturalmente giusto mantenere un nome italiano «Giustizia e libertà». Ma i nomi dei giornali, come quello della «Rivoluzione antifascista«? Lo chiedo soltanto.

P. 154, r. 5: lo chiedo soltanto. E’ possibile trovare una parola un po’ più gergale per «osteria», per «piola»?

P. 154, r. 12 dal basso: in italiano o in tedesco quel «rivoluzionereazione al socialfascismo»?

P. 156, r. 1: quel von Wegen rende «altroché», nel senso in cui si vuol dire che non si tratta certo di vello, coperta e bandiere, ma di cose ben diverse?

P. 156, r. 4: eliminerei decisamente diese, qui credo sia meglio dire die Spiegel.

P. 162, r. 15: non sono d’accordo con questo wunderbar riferito alla sera; qui bisognerebbe mantenere il senso di grande, non so naturalmente se vada bene gross ma wunderbar è qualcosa d’altro. Una riga più sotto, direi di mantenere proprio «tenebra verde», piuttosto Finsternis che Dämmerung.

Stessa p.162, r. 4 dal basso: «Ipé Baum», non so se sia un albero, credo di sì.

P. 163, r. 5: eliminerei quel alle davanti a farblos.

P. 164, r. 4 dal basso: Primo Ministro da noi vuol dire Presidente del Consiglio, non so quindi se vada bene Ersten Minister. Lo chiedo soltanto.

P. 165, r. 4: immagino che hohes Gericht sia l’espressione che corrisponde ai signori della corte, alla giuria, come nelle scene dei processi, anche nei film americani. Idem per requisiti della difesa. Si tratta di documentazioni che vengono depositate dall’avvocato difensore come materiale che documenta l’innocenza dell’accusato.

P. 165, r. 4 dal basso: c’è un errore di stampa, die Pistole.

P. 166, r. 12 dal basso: errore di stampa, non geben, ma gebeten. Due righe più sotto, non mi piace tanto quella costruzione und man beschrieb.

P. 168, r. 14: eingeschrieben: si intende che non era più iscritto al partito, che era già uscito dal partito.

P. 169, r. 16: PCI: si capisce qui, per il lettore tedesco, che è il Partito Comunista Italiano?

P. 169, r. 9 dal basso: Apollonio o Apollonius?

P. 170: è forse necessario, nella citazione, interpolare la parola «nemici», per far capire che quei Makrieer sono nemici dei Dolioni?

P. 170, r. 15 dal basso: Befreiungsrevolution. Qui si intende la rivoluzione libertaria come era quella che volevano gli anarchici, che volevano fare la rivoluzione sì, ma non la rivoluzione comunista stalinista autoritaria, bensì libertaria. La Fai è la Federazione Anarchica. Quanto a Einheitsaktion oppure Volksfront: qui si tratta del fatto che i comunisti rimproverano agli anarchici di avere rotto l’unità d’azione del fronte popolare, di quel fronte popolare che riuniva tutti gli antifascisti e che era però egemonizzato e controllato dai comunisti. Forse qualcosa come Einheitlichen Volksfront?

P. 171, r. 15: Si capisce qui che la sconfitta è il segno della gioia, che è glorioso chi appunto viene sconfitto, che la gloria si identifica con lo sconfitto?

Carissima Ragni, la traduzione è stupenda. Grazie, ti abbraccio

Claudio

Ragni Maria Gschwend a Claudio Magris, email, 6.4.2007

Lieber Claudio,

ich hoffe, Du bist wieder heil und vergnügt aus Washington zurück. Ich war in der Zwischenzeit so fleißig, daß ich endlich mit meiner Übersetzung fertig bin. Halleluja! Zur Erholung und Belohnung fliege ich morgen für eine Woche – nein, nicht nach Tasmanien, sondern nach Zypern, und bin ab 16. April wieder da. Anna hat jetzt den ganzen Text. Wann ich die Korrekturen bekomme, weiß ich noch nicht.

Zunächst also : Frohe Ostern und herzliche Grüße 

Ragni

(Caro Claudio, spero che il viaggio a Washington sia andato bene. Io nel frattempo sono stata così diligente che ho finalmente terminato la traduzione. Alleluia! Per riposarmi e premiarmi domani parto per una settimana – no, non vado in Tasmania, ma a Cipro. Sarò di nuovo qua a partire dal 16 aprile. Tutto il testo è ora da Anna [editor di Hanser, N.d.T.]. Non so quando arriveranno le correzioni. Per ora quindi buona Pasqua e cari saluti, Ragni – traduzione di Barbara Ivancic)

Claudio Magris a Ragni Maria Gschwend, email, 23.4.2007

Carissima Ragni,

ho trovato gli ultimi capitoli tornando a Trieste da Washington. Sono doppiamente felice: per la traduzione, bellissima, e perché, liberata da questo lavoro, tornerai a volermi bene come merito, mentre capisco che magari mi avrai mandato qualche maledizione…

p. 308, r. 4-5: non so se quel der noch mehr war faccia capire che qui si allude a un altro dio ancor più fanciullo dell’altro ossia al bambino di cui Maria si suppone era incinta.

p. 309, r. 4 dal basso: Ich hol dich raus è molto bello. Siccome qui si tratta di una citazione nascosta ossia delle stesse parole che nella Mostra Maria dice a Timmel (così come in Alla cieca c’è la citazione nascosta e precisa da Verde acqua), mi domando se non sia il caso di citare la traduzione da Ausstellung, Ich werde dich herausziehen, anche se non ne sono sicuro perché la situazione è un po’ diversa: qui in Alla cieca la donna grida nel frastuono e quindi va benissimo la tua versione, mentre nella Ausstellung è un colloquio a due tra Maria e Timmel.

p. 310, r. 3: avete poi deciso tra Fiume e Rijeka e il resto?

p. 310, r. 5: zukünftige internationale Menschheit. Sono le parole in tedesco dell’inno comunista L’Internazionale?

p. 311, r. 13: io metterei piuttosto la maiuscola Unwirklichen, perché si tratta dell’antico nome con cui era designato il Mar Nero.

p. 311, r. 8 dal basso: qui c’è forse un equivoco. «Che c’è da meravigliarsi» vuol dire che non c’è da meravigliarsi; ci si aspetta che un galeotto sia anche bugiardo.

p. 314: penso che qui sia giusto lasciare in italiano i nomi dei Circoli; solo lo segnalo.

p. 318, r. 6: la tua domanda. Qui ci si riferisce a una citazione precedente, in cui il re Eeta era definito così e qui naturalmente Eeta diviene la metafora di Stalin.

p. 318, r. 12: non credo che zitternd vada bene. La sua non è una voce tremante, ma tremenda, che fa paura.

Più sotto: lo stesso aggettivo strahlenumhüllt si riferisce a Tito, che con la storia di Goli Otok ha preso il posto di Stalin quale despota terribile.

p. 320, r. 8 dal basso: forse qui manca il senso del rincoglionito, tanto vecchio da essere instupidito, con parola volgare.

p. 321, r. 3 dal basso: togliere la virgola dopo Maria.

p. 324, r. 5: esiste per caso una traduzione di Bunyan con la parola perdizione?

p. 326, r. 11: hinunter in die Bucht. Altre volte questa espressione è tradotta con qualche lieve differenza, drunten ecc. Sarebbe meglio usare sempre la stessa espressione, anche perché c’è il gioco di parole fra la baia e il significato che l’espressione aveva per indicare i penitenziari australiani.

p. 331, r. 9: Non so se vada bene Henker. Qui il termine giustiziere ha un senso positivo; vuol dire che la gente vede in quel bandito uno che fa giustizia popolare rubando ai ricchi eccetera.

p. 336, r. 3: La tua domanda, Verpflichtung. Qui si vuol dire che Andy, salvandolo, gli ha fatto un torto, visto che la vita è una sciagura e che quindi ha ora un debito verso di lui, debito che infatti pagherà alla fine, quando si suppone nel delirio che sia stato Andy ad accendere il fuoco che ha bruciato tutto.

p. 342, r. 10: non per te ma per la stampa. Qui io andrei a capo.

p. 347, r. 3: Šibenik con la k e non con la c.

p. 350, r. 14: Ich drücke mich nicht. Qui io voglio dire che lui, pur non amando quella guerra, non si tira indietro, cioè la fa, quindi forse semmai, si piega.

p. 361, r. 2 dal basso. Non mi convince quel sakrosankten. Mi sembra quasi parodistico mentre qui c’è proprio il concetto antico del limite come qualcosa di sacro.

p. 363, r. 8: ihn. Si capisce che si allude al pene?

p. 364, r. 5: la tua domanda. Qui ci si riferisce all’istituto psichiatrico in cui probabilmente si trova e in cui lui deve aver visto un tappeto, nella stanza del direttore, che gli ricorda il Vello. Così come hai tradotto, mi pare giustissimo.

p. 372, r. 7: tua domanda. Truffaldina perché pubblicata senza e contro il suo volere.

Otto righe più sotto: andrei anche qui a capo, um mich.

p. 376, r. 12: qui deve mancare una parola dopo noch, tipo wüntender o cose del genere.

p. 378, r. 9 dal basso: tua domanda. «Qui le mie vecchie carte» ha un significato metaforico. Vuol dire che può ancora giocare a modo suo, con quelle metaforiche carte che nella sua vita di imbroglione ha sempre avuto in mano.

p. 383, r. 13: non del Jarama ma piuttosto qualcosa come von, si vuol dire che Luttmann durante la Guerra di Spagna nelle battaglie sul Jarama, aveva il nome di Falco.

Tre righe più sotto: forse herunter gekommen war?

p. 384, r. 2: errore di battitura. Kroz non Karoz.

p. 384, r. 4 dal basso: qui guardie bianche vuole indicare le milizie reazionarie, come nel titolo del romanzo di Bulgakov. Weiße Garden o Weißgardisten o qualcosa del genere?

p. 390, r. 15: Hof indica anche alone, come una nube che circonda?

p. 396, r. 9 dal basso: tua domanda. Il Gran Lago è il lago della Tasmania che lui ha esplorato, esplorazione di cui cerca di vantarsi con il giovane Hooker.

p. 402, r. 4 dal basso: tua domanda. Maglia nera è un’espressione del linguaggio sportivo ciclistico. Indica l’ultimo in classifica del giro d’Italia, così come la maglia rosa indica il primo e la maglia gialla il vincitore del Tour de France. E’ un’espressione che indica in genere un primato in negativo, essere il peggiore. Bisogna dunque trovare un’espressione corrispondente.

p. 403, r. 7 dal basso: Fälschungen des Künstlers indica, come in italiano, una categoria, cioè i falsi fatti in genere dagli artisti e non uno in particolare?

p. 406, r. 2: errore di battitura. Maingon Bay e non Maignon Bay.

p. 409, r. 15: anche qui l’espressione per giù alla baia che deve essere dovunque la stessa.

p. 414, r. 16: c’è anche in tedesco il modo di dire «si fa ma non si dice» per indicare l’ipocrisia, fare brutte cose che tutti sanno ma che si fa finta di ignorare?

p. 415, r. 11: Bahn dà il senso di varco, cioè di passaggio, apertura di passaggio, come una breccia sul muro che permette di andare dall’altra parte?

p. 418, r. 1: dreht, non dregt.

p. 420, r. 13: errore di battitura Nausikaa e non Nausika.

p. 424, r. 13 dal basso: anche in tedesco con la parola Kodizes si può fare il gioco di parola fra codici dei tribunali e codice genetico?

p. 425, ultima riga: non credo proprio che vada bene uns. O wie geht’s oppure wie läuft’s o qualcosa del genere (wie isses?)?

Carissima, ancora grazie di tutto. Un abbraccio

Claudio

Carteggio tra Claudio Magris e Hannimari Heino, la traduttrice finlandese di Microcosmi (Mikrokosmoskia, Helsinki, WSOY, 2002)

Hannimari Heino a Claudio Magris, fax, 21.9.2001

Caro Sig. Magris,

saluti dalla Finlandia! Finalmente – entro i primi di ottobre – sarò in grado di consegnare il manoscritto all’editore Wsoy, che lo vuole pubblicare in primavera. Sto ancora affinando la traduzione leggendola con il testo originale accanto.

Malgrado i Suoi gentilissimi e utilissimi consigli per i traduttori di Microcosmi, ci sono ancora alcuni punti cui non sono riuscita a dare una spiegazione oppure sono semplicemente frasi che non credo di aver compreso a fondo. […] La pregherei quindi, se possibile, di aiutarmi ancora con i seguenti punti.

Caffè San Marco

p. 23 «Eri così acerbo.» La parola “acerbo” significa qua essere ancora troppo bambino o aspro?

pp. 26-27: su Voghera – «Anche se fosse successo cinquant’anni fa.» Si deve capire che quando quella signora della casa di riposo capita sempre di notte da lui è una cosa voluta dal destino, che così sarebbe stato anche se loro due si fossero conosciuti prima?

Valcellina

p. 43 «Eppure la bisnonna analfabeta aveva goduto, per più di diciotto lustri, di un’eccellente memoria…». Questo modo complicato di esprimere il tempo è un modo di dire antiquato? In finnico temo che non abbiamo un’espressione equivalente.

Assirtidi – una domanda generica: nomi dei luoghi.

Lei dice esplicitamente di preferire il nome croato per Miholašćica, ma altri luoghi sono nominati in italiano, anche se talvolta all’inizio viene menzionato anche il nome croato. Siccome non esiste in finnico una traduzione di questi nomi, dobbiamo usare – se vogliamo essere neutrali – i nomi croati segnati sul mappamondo.

Mi incuriosisce su che cosa si basa la Sua scelta della prevalenza dell’italiano (che è stata anche la scelta della traduzione svedese di Microcosmi). È semplicemente un gesto di gentilezza verso il lettore italiano – visto che questi nomi esistono anche in italiano – o è, anche se mi pare poco probabile, un suo commento sulla storia e sui rapporti di appartenenza di questi luoghi con radici italiche?

Collina

pp. 123-124 «Hellzappoppin». Sarà un modo di dire. Mi potrebbe fare una parafrasi per trovare un equivalente finlandese?

p. 126 «…al Piemonte moderno che si afferma ma anche si supera.» Cosa intende esattamente? […]

Antholz

p. 191 «Essere ignorati è una benevolenza della sorte.» Se ho capito bene, è un bel paradosso, una specie di riassunto che riguarda moltissimi personaggi di Microcosmi, gente di provincia, fuori dai grandi centri culturali e dall’establishment – un paradosso che comunque fa capire che da quella posizione, come dice a p. 51 (Valcellina) – si può imparare a capire l’esistenza, a domarla, e ad assaporarla, benevolmente autonomi dal mondo.

p. 197 «… ma il nesso fra peste e pietà controriformista è comunque la conferma di un’attesa, una rassicurazione abitudinaria.» Qui avrei bisogna di una parafrasi. L’attesa di un paradiso? La rassicurazione abitudinaria portata dalla religione?

La volta

p. 272 «Non si stupì di vedersela accanto…» Il problema del lei e del lui in finnico – dato che non abbiamo il genere grammaticale – esiste un solo/una sola, hän. Quindi uso in tutto il racconto questo pronome di 3. persona singolare, hän, e introduco «lei» con rakkaansa, cioè la donna amata, compagna di vita, ecc. Alla fine dico che si prese per mano il suo amore.

Rimango quindi in attesa delle Sue risposte.

È strano come solo adesso, alla fine, il testo sembra lasciarsi vedere davvero, faccia a faccia. Anche perché solo adesso mi sembra di essere capace di notare quell’incredibile lirismo cristallino della Sua opera, dove tutto ha il suo posto e il suo tempo ben preciso, come in una poesia.

La ringrazio cordialmente, augurandoci tutti un futuro pacifico,

Hannimari Heino

Claudio Magris a Hannimari Heino, fax, 24.9.2001

Trieste, 24 settembre 2001

Cara Hannimari,

grazie per il fax; sono veramente felice di sentire che la traduzione è pressoché finita e dunque che il libro possa uscire presto. Le ho già detto quanto sia contento che i miei libri escano in Finlandia e di diventare dunque, grazie a Lei, uno scrittore finlandese. Sarà anche un’occasione per venire lassù, cosa che sognavo di fare fin quando da ragazzo leggevo il Kalevala e che ho fatto solo una volta e assai brevemente. Passo ora a rispondere alle Sue domande:

p. 23: «acerbo» qui significa tutt’e due le cose, un giovane che alle ragazze appariva ancora adolescente, immaturo, con una timidezza e dunque asprezza adolescenziale e infantile, che non lo facevano prendere in considerazione come un uomo di cui potersi innamorare.

p. 43: «diciotto lustri». Non è un modo di dire antiquato ma corrente e conosciuto; è un’espressione che si usa assai poco e che io ho usato per esprimere la grande durata, la lunghezza del tempo, la sua età così lunga che sembra sfuggire alle misure con cui di solito indichiamo la nostra.

p. 26-27: «anche se fosse successo cinquant’anni fa». Qui si allude alla malinconica e autoironica estraneità all’amore e al sesso sottolineata dallo stesso Voghera. Quando la novantenne smemorata entra per sbaglio nella sua camera di notte, lui dice che sarebbe stato lo stesso se fosse entrata cinquant’anni prima, quanto tutti e due erano giovani anziché vecchi; insomma dice che non sarebbe successo niente di amoroso, come ovviamente non è successo e non succede fra loro due vecchi.

Assirtidi: i nomi dei luoghi. Come in Danubio, è necessario salvare il plurilinguismo dei nomi, indicarne alcuni in croato e altri in italiano o addirittura indicare la stessa località ora in italiano ora in croato, a seconda della prospettiva di chi in quel momento la vive o secondo la prospettiva che la inquadra. Quelle isole, a parte l’appartenenza statale mutata più volte anche solo nel Novecento, sono un mondo misto, italiano (o veneto italiano) e croato, anche a prescindere dal fatto che un luogo possa essere più italiano e un altro più croato. Per qualcuno dunque l’isola o la città è Lussino, per un altro Losinj e questo va assolutamente salvato, perché fa parte della prospettiva e dell’atmosfera poetica, così ad esempio in Danubio la stessa città viene chiamata ora Timișoara ora Temesvar ora Temeschburg, a seconda che venga vista dai Romeni, dagli Ungheresi o dai Tedeschi viventi in quei luoghi. Non credo quindi ci si debba preoccupare di dare una informazione di tipo per così dire geografico turistico, ma bisogna conservare il crogiolo plurilinguistico, che riassume in sé da solo la storia e la complessità di quei luoghi.

pp. 123-124: «Hellzappoppi»”. È il titolo di un famoso film di tanti anni fa, un film comico in cui si racconta di uno studio cinematografico in cui vengono girati tre film di epoche diverse, uno ambientato mi pare nell’antica Roma, un western e un altro ambientato in tempi moderni. Si immagina che le pellicole dei tre film vengano per sbaglio mescolate e aggrovigliate, sicché quando si proietta un film viene fuori una confusione completa, l’esercito romano antico viene assalito dai pellerossa, una scena contemporanea con vestiti contemporanei si svolge in un tempio romano e così via. Qui io voglio alludere a questo festoso essere tutti insieme, al di sopra del tempo e dello spazio, in una specie di eternità e di compresenza dei sentimenti e delle persone amate.

p. 126: «il Piemonte moderno che si supera». Qui superarsi è usato in un senso hegeliano; si vuol dire che il Piemonte, il più moderno degli stati italiani prima dell’unificazione dell’Italia, si realizza, sviluppa completamente le proprie possibilità, la propria modernizzazione realizzando appunto l’Unità d’Italia. Ma, proprio realizzando l’Unità d’Italia, finisce di essere uno stato sovrano e diventa una regione italiana e quindi il Piemonte Stato indipendente si autocancella come tale proprio quando compie la sua impresa più grande. Questo spiega anche le nostalgie per il vecchio Piemonte indipendente scomparso.

p. 191: «essere ignorati». Come in Danubio, anche in Microcosmi c’è l’idea che la grande storia universale – ma anche semplicemente la vita, il destino – sono spesso un pericolo, una minaccia, una violenza che strappa a se stessi e che quindi essere ignorati, come il povero Isidor Thaler, è una condizione malinconica ma anche una difesa.

p. 197: «la conferma di un’attesa». Qui ci si riferisce a qualcosa di più concreto, ossia al fatto che nell’iconografia barocca c’è molto spesso uno stretto legame fra l’immagine della peste, che ha infuriato nel Seicento, e le immagini di devozione religiosa care alla Controriforma. Immagini del genere si trovano dappertutto nella Mitteleuropa e dunque danno al viaggiatore un senso rassicurante, lo fanno sentire a casa fra segni e immagini note.

p. 272: «vedersela». Qui credo che il problema sia insolubile, visto che in finnico non c’è il genere grammaticale. D’altronde sarebbe molto importante mantenere questa allusione appena accennata alla donna amata – vedersela accanto – piuttosto che dire esplicitamente che si vede accanto il suo amore, che rischia di banalizzare l’atmosfera. Solo Lei può sapere cosa si può fare; forse qualche perifrasi o qualche soluzione magari ardita, non so.

Cara Hannimari, grazie di tutto, a presto.

Tante cose care

Claudio Magris a Hannimari Heino, fax, 30.10.2001

Trieste, 30 ottobre 2001

Cara Hannimari Heino,

grazie per il Suo fax e per le Sue domande, che mi fanno vedere, ancora una volta di più, come Lei sia entrata così profondamente nel mio libro e nel suo spirito. Ne sono molto, molto contento, perché questo vuol dire che la traduzione sarà bellissima. Per quel che riguarda i nomi italiani e/o croati di persone e di luoghi, siamo d’accordo che bisogna salvare, come Lei dice, la complessità storico-culturale di quel mondo, come del resto è accaduto anche nelle traduzioni di Danubio a proposito di altri territori misti, sempre chiamati di volta in volta col nome coerente alla prospettiva di chi in quel momento parla di quel luogo, lo vive. Penso che l’idea di un piccolo elenco finale dei luoghi e di tutti i loro nomi possa essere utile (messo naturalmente in fondo al libro, e non certo come note a piè di pagina) per aiutare il lettore finlandese. Nel testo invece, anche a costo di disorientare il lettore, bisogna lasciarli come sono nel mio originale, una volta Lussino una volta Losinj, un’isola chiamata col nome italiano e un’altra col nome croato. Proprio questo rende quell’atmosfera di mescolanza, talvolta anche di incertezza, di provvisorietà e di cambiamento, di pluristratificazione di quelle identità geografiche e personali. Nella citazione di Robert Graves bisogna lasciare Lussino, visto che lui, nell’originale inglese, scrive Lussino e non Losinj; bisogna dunque, per fedeltà, rispettare il fatto che, in quel momento e dalla sua prospettiva, lui “vede” quell’isola in un’aura italiana. La stessa cosa vale per i nomi di persone, che devono assolutamente restare così come sono scritti nell’originale, qualche volta terminando in “ic” qualche volta in “ich”. Questo perché da quelle parti – e a prescindere da ogni cosiddetta originaria, difficilmente identificabile e del resto poco importante origine etnica – i nomi in “ic” indicano nazionalità croata, quelli in “ich” nazionalità italiana. Qualche volta naturalmente – ma questo succede sempre o quasi nelle questioni nazionali – si tratta di scelta, qualcuno che ha magari deciso di sentirsi croato o italiano, ma questa è proprio una ragione per mantenere la babele. Può darsi benissimo che ci siano due fratelli Babic e Babich.

Le cose poi – questo glielo racconto per Sua curiosità – sono ancora più complicate, perché per esempio c’è stata una italianizzazione dei nomi slavi (cui accenno nell’episodio di Dlacich), italianizzazione forzata al tempo del fascismo, o avvenuta in un processo più lungo e più soft. Il celebre fisico Paolo Budinich, ora ottantacinquenne e che è l’unico insieme a me a nuotare in mare ancora in questi giorni, da bambino si chiamava Budinich, poi la famiglia è diventata Budini e lui, relativamente pochi anni fa, circa una ventina, ha voluto ritornare al cognome originario e si chiama nuovamente Budinich, però non Budinic, perché si sente italiano, ma evidentemente non al punto di sentirsi Budini. Quindi i nomi devono restare come sono, anche perché tante volte coincidono veramente con nomi esistenti in grafie diverse.

Quanto ai tre nomi femminili, io li ho usati nella grafia italiana per rendere proprio questo sostrato storico-culturale; se crede, si potrebbe lasciare la grafia italiana per Maria (anche perché la persona, croata, presa vagamente a modello, si chiama veramente Maria), mentre gli altri si possono mettere anche in croato.

A p.159 è giusto kralj, a p. 160 è meglio usare la grafia croata gusar, io ho messo la doppia “s” per suggerire al lettore italiano la pronuncia. A p. 159 bisogna appunto scrivere Mismo stari e a p. 162 è giusto kraj. Quanto alla citazione di Capovilla, quelle parole sono le sue, in cui lui riferisce la risposta scocciata («nervoso») di un certo Dlacich, che lui vuol convincere, secondo le direttive politiche antislave del momento, a cambiare nome e che invece lo manda al diavolo, rispondendogli sgarbatamente e dicendo che lui sarà sempre lui col suo nome e che gli altri si arrangino e facciano quello che vogliono. Naturalmente il buffo consiste nel fatto che il Capovilla, esponente di questa politica di italianizzazione, ossia del principio fascista che vuole affermare il carattere soltanto e puramente italiano di quei luoghi, già col suo modo di parlare e col suo nome smentisce quella politica. (Per quel riguarda “ic” e “ich” e “i”, naturalmente può darsi benissimo che magari un Budini arrivato un secolo fa sia diventato Budinich, poi costretto a diventare Budini e sia poi ritornato Budinich; quello che conta è l’identità che viene sentita come propria).

Cara Hannimari, grazie di tutto e a presto, ci vedremo in Suomi.