Che ti dice la patria? / 2 (segue)

SECONDA PARTE DELLA STORIA

di Gianfranco Petrillo

2.4. La Germania, forse?

2.3.1. Un tragico equivoco

Il 20 luglio 1944 Enrico Rocca si suicidò.

Goriziano del 1895, e quindi suddito dell’Austria-Ungheria, a quella patria aveva voltato le spalle giovanissimo per slanciarsi verso quella che sentiva la sua vera, l’Italia. Studente a Venezia, a vent’anni, nel 1915, aveva fondato con altri un giornalino significativamente intitolato «Guerra», che abbracciava il credo futurista dell’«igiene del mondo». E c’era andato volontario, in guerra, ed era stato anche gravemente ferito. Poi, nel marzo del 1919, era in piazza San Sepolcro, a Milano, tra i fondatori dei Fasci italiani di combattimento. Lo squadrismo lo nauseò un po’, ma tardò parecchio a prendere le distanze dal fascismo, anche perché, con la voglia di scrivere e facendo il giornalista, non c’erano alternative; quando si trattava di tessere le lodi di Mussolini, comunque, non si tirava indietro. Fu quindi responsabile dei servizi culturali del «Lavoro italiano», poi «Lavoro fascista», del quale assunse la direzione nel 1930. Intanto collaborava con le maggiori riviste letterarie italiane e tedesche, segnalando tempestivamente i nuovi romanzi pubblicati in area germanofona alle une e italiana alle altre (Antonello 2012, 240). Era ebreo, però, e, come moltissimi ebrei italiani, fu costretto a ricordarsene quando furono varate le leggi razziste, nel 1938. Perse il lavoro, perse l’identità, perse la patria. L’addio definitivo all’«Italia cara» lo diede, nel diario, quando questa sua patria amata nel 1940 si annetté la provincia di Lubiana, «compattamente slovena», già parte dell’aborrito impero asburgico. A fine luglio del 1943, caduto Mussolini, tornò la speranza. I collaboratori del «Lavoro fascista», tornato «italiano», lo chiamarono a dirigerlo di nuovo. Si spese in editoriali di apertura al futuro. La speranza durò poco. Arrivò l’armistizio, arrivò l’occupazione tedesca, e con questa il rischio della deportazione. Rocca si rifugiò in Molise, quindi raggiunse Napoli liberata e lì, esperto di radiofonia (aveva anche scritto un Panorama dell’arte radiofonica per Bompiani, 1938), collaborò alle trasmissioni di propaganda antinazifascista rivolte all’Italia ancora occupata dai tedeschi. Alla liberazione di Roma, giugno 1944, poté tornare a casa sua. Dove però si era già insediato qualcun altro, che aveva rovistato nei cassetti e trovato due lettere di Mussolini, e ora lo denunciava come fascista (Lunzer 2009, 219-239).

Il diario degli anni bui, 1940-1943, di Rocca, ora disponibile per la cura di Sergio Raffaelli (Udine, Gaspari, 2005), fu pubblicato la prima volta nel 1964, col titolo La distanza dai fatti, dal suo amico Alberto Spaini presso l’editore Giordano, di Milano, che l’anno prima aveva pubblicato già l’Autoritratto triestino dello stesso Spaini. Spaini (1892-1975) era stato, con i triestini Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper e Italo Tavolato e il fiumano Enrico Burich, nel gruppo dei ferventi irredentisti che avevano infiammato «La Voce» di Prezzolini, tra il 1910 e il 1913. Anche lui, quindi, aveva scelto la patria italiana contro la patria asburgica. Anche lui volontario in guerra, se ne cavò fuori per una grave contusione subita cadendo dalla sua bicicletta di bersagliere; e quindi, sposatosi con la senese Rosina Pisaneschi – con la quale aveva dato nel 1912 la prima traduzione italiana diretta del Meister goethiano per Laterza (Biagi 2016) –, si rifugiò a Zurigo sino alla fine del conflitto. Dopo di che, più tiepido di Rocca verso il fascismo (ebbe a confessare nell’Autoritratto «di aver fatto prevalere, durante il fascismo, lo spirito di conservazione sul senso di responsabilità»), si dedicò anche lui al giornalismo, dirigendo la redazione romana del bolognese «Resto del Carlino» (Lunzer 2009, 203-206). Attraversò il fascismo e poi la guerra raffreddando man mano di più il proprio fervore patriottico, fino ad arrivare a invidiare i morti, probabilmente pensando agli amici conterranei Carlo Stuparich e Scipio Slataper, caduti nella “grande guerra”: «essere morti per un sogno di gioventù, senza dover trascorrere tutta una lunga vita per scoprire che era un sogno sbagliato» (Spaini 1963, 78).

E’ un caso che questa sconsolata annotazione emerga a ridosso della grande infatuazione per la Mitteleuropa scoppiata verso la fine degli anni cinquanta, per la fortuna della casa editrice Adelphi, propulsore un altro triestino, Bobi Bazlen? Proprio in quello stesso 1963 uscì da Einaudi l’importante saggio apripista sul «mito absburgico» di un giovanissimo Claudio Magris, mentre a Milano Adelphi pubblicava i suoi primi quattro titoli, di cui due, Tutte le novelle di Gottfried Keller (tradotte da Lavinia Mazzucchetti ed Ervino Pocar) e le Opere di Georg Büchner (a cura di Giorgio Dolfini), tradotti dal tedesco. Trent’anni prima non solo il mito era di là da venire, ma il vento soffiava in tutt’altra direzione. L’immagine dell’Austria-Ungheria era quella di un impero decrepito e forcaiolo, oppressore di nazionalità che si erano riscattate soprattutto per merito dell’Italia vittoriosa, che l’aveva fatto crollare (per poi essere derubata dei frutti della vittoria, diceva quella stessa immagine). Tranne pochi specialisti della germanistica, a cominciare da Lavinia Mazzucchetti, in Italia solo i componenti del gruppo di irredentisti giuliano-dalmati, chi più chi meno tutti bilingui – e dei quali scopriremo qualche altro nome – sapevano che la lingua tedesca, la gerettete Zunge, la lingua salvata celebrata tanti anni dopo dall’ebreo sefardita di nascita bulgara Elias Canetti, era il collante di un’intera cultura plurietnica affondata con quell’impero. Lo sapeva in particolare Rocca, che venne redigendo una Storia della letteratura tedesca dal 1870 al 1933, pubblicata postuma da Sansoni nel 1950, in cui distingueva nettamente tra scrittori «austriaci», cioè provenienti dai frantumi di quell’impero, e gli altri, provenienti invece dall’altro impero, quello guglielmino. Tra i primi Rocca promosse in Italia soprattutto Stefan Zweig (1881-1942, suicida in Brasile) e Joseph Roth (1894-1939, esule a Parigi), entrambi ebrei ed entrambi suoi amici. Ci teneva, Rocca, a bollare l’intolleranza nazista, alla quale contrapponeva «tolleranza e lungimiranza» fasciste (Antonello 2012, 312). Quella tedesca era però anche, e soprattutto, la lingua della Germania propria, verso la quale i sentimenti degli intellettuali erano ambivalenti.

2.4.2. Il «mito weimariano»

Già dalla fine dell’Ottocento esisteva in Italia, in alcuni ambiti specifici, un’infatuazione per quanto veniva dalla Germania. Il suo sistema universitario contese a quello francese il ruolo di modello per la creazione di quello italiano (La Penna 1993; Schiera 1994). Molti industriali e tecnici guardavano ammirati i grandi progressi tecnologici ed economici della Germania guglielmina. Nelle scienze cosiddette “dure” e in filosofia, in filologia, in storiografia, gli specialisti italiani trovavano maestri indubbi nei tedeschi (Cianferotti 2016). L’interesse per la sua grande, e allora ancora recente, letteratura classica e romantica aveva ricevuto nuovo impulso dal trionfo della moda wagneriana, che si accompagnò a quella nicciana promossa da Gabriele D’Annunzio (Michelini 1978). Ma la Germania e l’Austria erano i nemici secolari della “patria”, sicché si trattava di un amore contrastato e talvolta contraddittorio. È significativo che Benedetto Croce, non certo secondo a chicchessia quanto a patriottismo, ma per il quale l’amore per la grande filosofia e la letteratura tedesche era stato uno dei motivi della contrarietà all’intervento nel 1914-15, abbia dedicato nel 1919 a Goethe, con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, uno dei primi suoi scritti pubblicati dopo la guerra.

Ora che la potenza prussiana era sconfitta, che la Germania trasformata in repubblica stentava a risollevarsi dalle mazzate economiche punitive imposte dai vincitori ma dava segno in tutti i campi dell’arte di un fervore travolgente e spumeggiante, essenzialmente moderno, ora molti giovani intellettuali ne erano attratti.

Sulle rovine dell’impero guglielmino era sorta, entro confini molto più ridotti, la Repubblica di Weimar, la seconda repubblica parlamentare d’Europa in ordine di tempo, dopo la Francia (se si esclude la Svizzera, che fa storia a sé; troppo effimera la prima repubblica spagnola, malamente vissuta tra il 1873 e il 1874). Berlino, la sua capitale, era divenuta, con oltre quattro milioni d’abitanti, la terza metropoli del mondo dopo Londra e New York. L’economia tedesca tendeva «ad avvicinarsi sempre di più al modello americano» e la società tedesca andava adeguandosi «alle consuetudini di consumo tipicamente statunitensi, che si differenziavano nettamente dalla situazione europea». Vi fioriva un’intensa, quasi frenetica, attività artistica e culturale, soprattutto con l’adozione delle tecniche più moderne, nel teatro, nel cinema, nell’architettura (Corni 1995, 194-195). La imitatio Americae imperversante in Germania fu puntualmente registrata, e deprecata, da Corrado Alvaro nelle sue corrispondenze per «L’Italia letteraria» tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta.

Mentre, come annotava Lavinia Mazzucchetti, «prima del 1920 non si traducevano romanzi tedeschi» (Albonetti 1994, 56), non c’è da stupirsi se in quegli anni, quando tutti i sensori culturali registravano una straordinaria fame di lettura in un’Italia che, fascismo o non fascismo, si stava trasformando e modernizzando, le traduzioni dal tedesco furono per numero seconde solo a quelle dal francese fino al 1933 e, dopo quella data, alla pari con quelle dal francese alle spalle di quelle dall’inglese, passate al primo posto grazie ai «Gialli» (Rundle 2010, 61 e ss.). Tra il 1929 e il 1932 furono pubblicati ben 48 titoli di narrativa tedesca, 35 nel solo 1933, al culmine di questa passione (Rubino 2007, 247), e tra i primi 27 titoli della mondadoriana «Medusa», principale veicolo del «decennio delle traduzioni», figurarono ben sette autori tedeschi (Rubino 2002, 90). Tra i primi 100, 29 erano tradotti dal tedesco. Anche nei primi 100 «Romanzi della palma», più “popolari”, ben 43 erano originariamente in lingua tedesca (Albonetti 1994, 84); e ancora nel solo 1934 i «Romanzi della palma» presentavano 11 titoli tradotti dal tedesco (Barrale 2012, 86).

Contemporaneamente – informa Fernandez (1969, 119) – i titoli di narratori americani nati dopo il 1875 erano solo 17. «[…] almeno un quinquennio prima del molto divulgato “mito americano” in letteratura si concretizzò invece presso il pubblico italiano un mito weimariano o berlinese», un «mito transitorio», direi forzatamente transitorio, «un generico mito della modernità metropolitana», in cui «una parte ebbe quanto di hollywoodiano era trapassato nel way of life» di Berlino (Rubino 2007, 265). Eppure, dopo la seconda guerra mondiale, la disattenzione della cultura italiana, soverchiata dal “mito americano” e dal fastidio se non l’odio postresistenziale verso tutto ciò che è tedesco, per questa massiccia presenza germanica nell’Italia degli anni trenta è perdurata fino a tempi recentissimi: ne sia prova il silenzio da cui era avvolta nel panorama della narrativa straniera tradotta compiuto da un insigne poeta e traduttore come Giovanni Raboni (1983).

Per i letterati tedeschi la sconfitta del 1918 aveva fatto tabula rasa. Avevano l’ansia di vivere in sintonia con la modernità e capirono subito che era l’America la terra per eccellenza della modernità, la terra dove le masse erano già protagoniste. Da lì provenivano i modelli a cui guardare. Così nacque la breve voga della Neue Sachlichkeit, la narrativa della «nuova oggettività», ovvero del Neorealismo made in Germany, come Giovanni Necco intitolò già nel 1933 l’articolo sull’«Italia letteraria» in cui, naturalmente, lo condannava. Gli autori americani a cui essi guardavano erano Theodore Dreiser, Upton Sinclair, Sinclair Lewis, John Dos Passos, Ernest Hemingway, autori di «romanzi che oltre che sui personaggi si concentrano sull’epoca, ma sempre con intonazione oggettiva, documentaria, con una “intenzione di denunzia”»: quella che Kurt Pinthus chiamava una männliche Literatur, una letteratura virile (Rubino 2007, 240-241). Nel fondamentale saggio che sto citando, Mario Rubino colloca qui una osservazione cruciale, con la quale anticipo una questione, spinosa, che dovremo affrontare: «l’idea di America che valse per i letterati della Neue Sachlichkeit ha poco a che spartire con quella a cui si ispirarono Pavese e Vittorini nella loro operazione mitopoietica» (Rubino 2007, 240). Quei romanzi americani coglievano il trapasso dall’economia prevalentemente agricola a quella prevalentemente industriale, dalla società rurale a quella metropolitana, dalla comunitarietà campagnola alla solitudine individuale nella società di massa. E «dicevano la verità al proprio Paese». Altrettanto intendevano fare i loro emuli tedeschi. La ferrata germanista Lavinia Mazzucchetti (1889-1965), decisamente antifascista e che avremo occasione di incontrare più volte, in una recensione del 1927 salutò «odor d’asfalto, strombettar d’automobili, fragore di tram elettrici, brusio di folle affaccendate, acre atmosfera di caffè notturni» emanati da questi nuovi libri, a sottolinearne la stretta e stringente contemporaneità (citata in Rubino 2007, 242).

«La letteratura tedesca […] si è posta le più radicali domande sul destino dell’individuo nella modernità […] ha colto come nessun’altra il carattere speciale della modernità, la sua radicale trasformazione dell’uomo e del mondo» (Magris 1997, 141).

2.4.3. Crocianesimo e Neue Sachlichkeit

Fu Alberto Spaini, fra tanti suoi meriti, che permise ai lettori italiani di conoscere nella propria lingua entrambi i libri che, a prescindere qui dalla disparità qualitativa, possono essere eretti a emblema dell’aggressione della modernità nei due, parzialmente diversi, mondi germanofoni: Der Prozess (1925) di Franz Kafka, relitto dell’impero asburgico emerso dopo la guerra e dopo la morte precoce del suo autore, e Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin, il prodotto più tipico della Neue Sachlichkeit.

Il processo fu pubblicato nel 1933 (si veda in proposito Sisto 2019b), precedendo anche le versioni inglese e francese, quale sesto titolo della «Biblioteca europea» fondata da Franco Antonicelli per il giovane editore torinese Frassinelli, aperta l’anno prima dall’Armata a cavallo di Poggioli e da Moby Dick di Pavese. In mezzo erano usciti: Riso nero, traduzione ancora di Cesare Pavese da Dark Laughter (1925) di Sherwood Anderson; La luna dei Caraibi e altri drammi marini di Ada Prospero (la vedova di Gobetti che abbiamo già nominata), che traduceva parte di The Moon of the Caribbees and Six Other Plays of the Sea (1921) di Eugene O’Neill; e Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, con cui – nell’impossibilità di tradurre Ulysses, lamentata da Antonicelli Pavese traduceva di corsa A Portrait of the Artist as a Young Man (1920) di James Joyce.

Occorre soffermarsi un momento su questa serie di titoli tradotti, per una riflessione che ha molto a che vedere col nostro tema. Su sei, solo due, Der Prozess e il Portrait, potevano dirsi propriamente europei. Ancora oggi è poco chiaro fino a che punto la Russia sia culturalmente parte dell’Europa; anzi, la controversia sul modello occidentale dilania fin dall’Ottocento quella cultura. Perché dunque Franco Antonicelli, il creatore di quella collana tanto giustamente famosa, le diede il nome di «europea»? Nel presentarla al pubblico, guarda caso proprio sul «Lavoro fascista» diretto da Enrico Rocca (presso il quale molto probabilmente era stato introdotto appunto da Spaini), Antonicelli dichiarò che era un titolo «a cui tengo molto e che ha un suo significato», senza tuttavia spiegare quale fosse questo significato (Antonicelli 1933). E a buona ragione, data anche la sede, se è fondata l’ipotesi di spiegazione che avanzo qui. La collana nacque nel 1932, lo stesso anno in cui uscì da Laterza la Storia d’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce. Il libro porta la data del 1932, infatti, ma l’Introduzione era già uscita l’anno precedente, dapprima sulla «Critica», quindi in un volumetto Laterza a sé (Croce 1931). Ed era, questa, una sorta di vangelo laico per la generazione di intellettuali antifascisti a cui apparteneva Antonicelli. Era lì infatti che si trovava la celebrazione crociana della «religione della libertà», l’inno al liberalismo; mentre alle spalle, già da un secolo prima, c’era l’auspicio di Giuseppe Mazzini per una letteratura europea, suggerito dal concetto goethiano di Weltliteratur (Sisto 2019a, 58-60) e testimoniato da Leone Ginzburg sull’ultimo numero del gobettiano «Baretti», a inizio 1928: «la nostra cultura è europea» (con cui riprendeva il già citato Gobetti di Illuminismo nel primo numero).

Poco tempo dopo Antonicelli fu arrestato, poi subì il confino, per appartenenza al gruppo torinese di Giustizia e libertà guidato da Ginzburg. Ma durante la Resistenza non si unì, come quasi tutti gli altri giellisti, al partito d’azione; aderì invece al partito liberale presieduto da Croce e ne fu l’autorevole esponente nel Comitato di liberazione nazionale piemontese, di cui assunse la presidenza (Sircana 1988). Per lui, europeo significava liberale. Ma siccome – dichiarava in quell’articolo – intendeva pubblicare solo opere di «poesia» (la definizione è palesemente di impronta crociana: non intendeva obbligatoriamente “in versi”), occorre immaginare che per lui tutto ciò che era “poesia” era liberale e quindi “europeo”. In questa “Europa” della poesia e della libertà, dove c’era spazio per tutti i popoli, Franco Antonicelli si ricavava, come una nicchia, la sua patria.

Non si trattava ancora, in lui, di consapevole europeismo politico, come oggi possiamo intenderlo noi che abbiamo avuto la fortuna di godere, grazie all’europeismo dei nostri padri e nonni, di settant’anni ininterrotti di pace e di prosperità, per la prima volta nella storia bimillenaria d’Europa. Era tuttavia, come già in Croce, il riconoscimento (che presto si sarebbe rivelato illusorio) che, prostrate le borie imperiali, l’approdo della Germania e dell’Austria, nel cuore del continente, alle forme istituzionali del liberalismo poteva essere la ricostituzione di una piattaforma culturale comune, in cui spiccava, unica macchia, la mosca nera del fascismo italiano.

Berlin Alexanderplatz (1929), dell’ebreo socialista Alfred Döblin (1878-1957), costituiva l’apice del più consistente genere romanzesco della Neue Sachlichkeit, il Großstadtroman, il romanzo metropolitano. Modellato su Manhattan Transfer, del 1925, in italiano precedette la traduzione dell’opera di John Dos Passos e qualsiasi altra sua traduzione al mondo. Circostanza significativa, a marcare, per la generazione che si era formata prima della guerra, una maggiore prossimità alla Germania che all’America.

Berlin Alexanderplatz. Storia di Franz Biberkopf uscì nel 1931 per Modernissima, a conferma della centralità di Gian Dàuli nel fermento dell’editoria di quegli anni. Ma il merito della traduzione, che Mazzucchetti aveva ritenuta pressoché impossibile, e della acuta Introduzione è appunto di Alberto Spaini (Giusti 2000, 238-239), che probabilmente lo aveva segnalato al dinamico editore. Era uno schiaffo a Strapaese, il movimento letterario ultraitaliano e fascistissimo diretto da Mino Maccari e Curzio Malaparte, al quale si contrapponeva “stracittà”, in cui si identificava «900», la principale tra le riviste europeizzanti, ma non per questo antifasciste, di fine anni venti. Non ci sorprende quindi di trovare dedicata a Massimo Bontempelli, il fondatore e direttore di quella rivista, la traduzione che Enrico Rocca aveva fatto di Golem (1915) di Gustav Meyrink (1868-1932) per la piccola Campitelli di Foligno nel 1926. La fantastica storia ebraica che sta al cuore della magia di Praga, scritta da un tedesco non ebreo cresciuto in parte nella capitale boema, poteva apparire, al giuliano in fuga – sì, ma già con nostalgia – dall’impero asburgico, come l’anello di congiunzione tra i due mondi germanofoni che lui e i suoi conterranei facevano conoscere ai compatrioti italiani.

2.4.4. L’ultima di tutte le guerre

Dentro la Neue Sachlichkeit c’erano diversi generi. Il più direttamente fastidioso per i conservatori era quello dei Kriegsromane, i romanzi di guerra che centravano l’acme del trapasso vissuto da quella generazione tedesca e che per i fascisti e la loro ideologia costituivano il rospo più difficile da ingoiare, per la dura condanna della guerra che contenevano. Tuttavia un fascista ancora convinto come Rocca li giudicava, sulla «Stampa» del 18 luglio 1929, «un processo efficace della Germania letteraria contro la Germania politica e spirituale del passato» (Rubino 2007, 246).

Proprio così, Krieg (1928), era intitolato il primo di questi romanzi importato in Italia dalla casa editrice Treves e pubblicato nel 1929 col titolo La guerra, appunto. L’autore, Ludwig Renn (1889-1979), era stato un ufficiale effettivo e, dopo la guerra, a capo della polizia di Dresda che represse i moti rivoluzionari. In seguito a questa esperienza traumatica abbandonò il servizio attivo e divenne un convinto militante comunista; arrestato nel 1934 dai nazisti, fu in carcere per due anni e mezzo; rilasciato, corse a combattere in difesa della repubblica spagnola durante la guerra civile, al comando della Brigata internazionale intitolata a Ernst Thälmann, il leader della KPD, il partito comunista tedesco, deportato come migliaia di suoi compagni in campo di concentramento, dove fu fucilato nel 1944. Renn riparò quindi in Messico, e dopo la seconda guerra mondiale rientrò in Germania, stabilendosi nella Repubblica democratica tedesca, lo stato della Germania orientale satellite dell’Urss, dove morì.

Con Renn il suo traduttore italiano, Paolo Monelli (1894-1981), aveva in comune solo l’esperienza bellica, vissuta valorosamente da alpino. Della guerra aveva offerto una «rappresentazione senza miti», ma certo non critica, in un libro dal «registro multiforme» (Zanetti 2011), Scarpe al sole, pubblicato dalla bolognese Cappelli nel 1921, che narrava le Cronache di gaie e di tristi avventure di alpini di muli e di vino. Il tedesco, Monelli l’aveva imparato in prigionia, dopo Caporetto, e lo aveva poi coltivato come corrispondente dalla Germania della «Stampa» di Torino. Lungi da lui considerare “patria ideale” un paese in cui scorgeva «i segni di un’esistenza meccanica e burocratica, già contaminata dal modello americano», quale lo descrisse nel libro Io e i tedeschi, pubblicato da Treves nel 1927: Berlino era «una sentina di sozzi vizi». A quel paese contrapponeva con orgoglio, cedendo alla voga strapaesana, «l’Italia porca» e «senza ipocrisie». Al giro di vite del regime sui giornali, nel 1929, proprio quando uscì la sua traduzione, Monelli perse il posto alla «Stampa», di cui aveva assunto la direzione Curzio Malaparte, evidentemente perché poco gradito, forse a causa appunto di quella traduzione. Sicché Giorgio Zanetti (2011), da cui attingo queste informazioni e citazioni, «quasi stupisce» a ritrovarlo poco tempo dopo alla «Gazzetta del popolo», «un organo di stampa inequivocabilmente organico alla politica culturale del regime», diretto da Ermanno Amicucci, il quale durante l’occupazione tedesca fu poi direttore del «Corriere della sera», perfettamente allineato col collaborazionismo. Monelli si mise di buon grado al servizio della missione propagandistica assunta da Amicucci, imperniata sul nazionalismo, tenendo sul quotidiano torinese una rubrica fissa che sfociò nel libro dal titolo, particolarmente significativo in questa sede, di Barbaro dominio. Cinquecento esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti, storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore, pubblicato a Milano da Hoepli nel 1933 (e ripubblicato anche nel secondo dopoguerra). E si guardò bene dal tradurre altro.

Un unicum, almeno in campo narrativo, anche nella vita di Stefano Jacini fu la traduzione del più popolare tra i Kriegsromane, Im Westen nicht neues, di Erich Maria Remarque (1898-1970), uscito in Germania nello stesso 1929 e diventato subito famoso in tutto il mondo anche grazie alla immediata riduzione cinematografica fattane a Hollywood da Lewis Milestone, che in Italia circolò col titolo, assunto anche dal libro, All’Ovest niente di nuovo, il più celebre classico dell’antimilitarismo al cinema prima di Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957) di Stanley Kubrick: la più cruda denuncia degli orrori della guerra in versione romanzata. Discussioni accesissime sulla stampa italiana, dove i più benevoli tra i nazionalisti addebitavano alla sconfitta tedesca la rivolta di Remarque e di Renn contro la guerra, impensabile – a loro parere – nell’Italia vittoriosa. Mentre in Italia ne circolava liberamente la versione francese, Mondadori ne pubblicò nel 1931 quella italiana, ma, temendo di essere costretto a ritirarla dalla circolazione, lo fece sotto l’etichetta della casa editrice amica Birkhäuser, di Basilea, e con l’avvertenza, sul retro del frontespizio, che «La presente edizione non può essere venduta che nel territorio della Confederazione Elvetica». Dalla circolazione clandestina il libro emerse solo dopo la seconda guerra mondiale, quando ormai l’illusione della fine di tutte le guerre era ormai tragicamente svaporata e, con essa, anche gran parte del suo fascino. Il che non gli impedì di essere ripubblicato più e più volte.

Il traduttore di Remarque, appunto Stefano Jacini (1886-1952), era nipote e omonimo di un importante uomo politico ed economista cattolico liberale, autore di una Inchiesta agraria ben nota agli storici dell’agricoltura, e fu lui stesso personalità di spicco del cattolicesimo popolare lombardo, sia nell’uno che nell’altro dopoguerra. Il tedesco lo aveva imparato per seguire meglio le lezioni del filosofo Piero Martinetti, maestro di un paio di generazioni di intellettuali milanesi, tra i quali segnaliamo almeno Antonio Banfi e, per noi più importante in questa sede, Lavinia Mazzucchetti: ed è probabilmente a quest’ultima che si deve l’indicazione del nome di Jacini all’editore. Con gli amici Tommaso Gallarati Scotti e Alessandro Casati, Jacini aveva partecipato all’inizio del secolo alla breve esperienza, contigua al modernismo, della rivista giovanile cattolica milanese «Il Rinnovamento». L’amicizia con Gallarati Scotti, altro intellettuale cattolico di un certo peso, è significativa, in quanto fu al pianterreno della sua aristocratica casa di via Borgospesso che negli anni venti ebbe sede la rivista «Il Convegno», che abbiamo già citata e ancor più andrebbe citata per le sue curiosità verso oltre frontiera. Reduce dalla guerra, alla quale aveva partecipato con onore, Jacini aderì al movimento cattolico conservatore «Religione e patria», ma quando, per le elezioni del 1921, questo aderì al Blocco nazionale insieme col movimento fascista e contro il partito popolare, se ne staccò per seguire da allora in poi la linea centrista di Luigi Sturzo, il fondatore di questo partito (Ignesti 2004). Costretto dal fascismo ad abbandonare la vita politica, che riprese solo nel 1945, e ricco di famiglia, si dedicò prevalentemente agli studi storici, con l’ausilio di Benedetto Croce, del quale era molto amico. Con la parentesi, molto indicativa, di questa unica traduzione: una scelta non certo di “patria ideale” ma di campo etico e politico.

Contro un altro romanzo tedesco di guerra si accanì la censura. La traduzione di Der Streit um den Sergeanten Grischa (1927) di Arnold Zweig (1887-1978), pubblicata nel 1930 nella contestata collana mondadoriana «I romanzi della guerra» col titolo La questione del sergente Grischa, uscì con tagli per complessive centoquaranta pagine (Barrale 2014). Era opera dell’irredentista fiumano Enrico Burich (1889-1965), che, come Spaini, nel 1909 era andato a studiare a Firenze e lì aveva collaborato alla «Voce» prezzoliniana. Dopo aver partecipato da ufficiale interprete per l’ungherese e il tedesco alla prima guerra mondiale, tornò a Fiume e sostenne D’Annunzio nella sua impresa di occupazione della città, sulla fine della quale scrisse l’opuscolo Gli ultimi giorni di Fiume dannunziana (Bologna 1921). Fu quindi professore di tedesco al liceo scientifico di Fiume, annessa all’Italia nel 1924. In precedenza, sotto l’impero asburgico, la città era stata sotto amministrazione ungherese, e quindi, oltre al tedesco, nelle sue scuole s’imparava anche quella lingua. Ma fu proprio dopo l’avvento di Hitler al potere, pur avendo alle spalle le contestate traduzioni da Arnold Zweig, che Burich si trasferì nel 1934 a Colonia presso il Petrarca-Haus, la casa della cultura italo-tedesca voluta da Giuseppe Gabetti e dal giovane borgomastro Konrad Adenauer, poi destituito dai nazisti (D’Annibale 2018). Lì Burich rimase fino al 1942, quando la città fu distrutta dai bombardamenti anglo-americani. Dopo una parentesi romana, raggiunse di nuovo Fiume al seguito delle truppe tedesche dopo l’8 settembre 1943, quale preside del liceo italiano. «Durante l’occupazione nazista mantenne un atteggiamento di non collaborazione, cercando di stimolare lo spirito pubblico alla resistenza contro i Tedeschi non disgiunta dalla difesa nazionale della città»: così l’apologeta Radetti (1972). Alla liberazione della città da parte dei partigiani jugoslavi fu costretto a rifugiarsi di nuovo in Italia, dove lavorò presso l’Istituto di studi germanici di Roma, fondato da Gentile e Gabetti, continuando a tradurre, soprattutto saggistica.

Arnold Zweig non va confuso col più celebre poligrafo austriaco Stefan, amico di Rocca (che nel 1942 ne commentò amaramente il suicidio in un brano uscito postumo in Appendice alla sua Storia) e poi di Mazzucchetti. L’ebreo slesiano Arnold Zweig (1887-1968) aveva abbracciato il pacifismo durante la sua partecipazione alla guerra nell’esercito tedesco. Profugo dalla sua terra natia, tornata a essere, dopo due secoli, territorio polacco, aveva poi vissuto del proprio lavoro di scrittore (il Grischa è il primo di ben quattro romanzi suoi sulla guerra, tre dei quali tradotti da Burich) nei dintorni di Berlino e a Berlino stessa, fino all’avvento del nazismo, quando sia lui che le sue opere furono bandite. Si rifugiò dapprima in Cecoslovacchia, poi in Francia, ma già dal 1934 le sue simpatie per il sionismo lo spinsero a stabilirsi a Haifa, nella Palestina sotto mandato britannico ma già territorio di contestato insediamento ebraico. In questa nuova patria però incontrò l’ostilità del movimento a causa del romanzo De Vriendt kehrt heim (1932: De Vriendt va a casa), che rievocava l’assassinio, compiuto nel 1924 da parte dell’organizzazione terrorista sionista Hagana, dell’intellettuale ebreo olandese Jacob Israël de Haan, colpevole di aver sostenuto la necessità di una mediazione e di una collaborazione con la popolazione araba della Palestina. Si legò quindi sempre più ai movimenti filocomunisti dell’emigrazione tedesca e dopo la sconfitta del nazismo tornò in Germania, stabilendosi a Berlino est, dove godette di onorificenze e privilegi (Wiznitzer 1983).

Al numero 11 della collana mondadoriana «I romanzi della guerra», nel 1931, comparve Caterina va alla guerra, opera dello stesso Rocca. Autrice di Die Katrin wird Soldat, uscito l’anno precedente, era Adrienne Thomas (1897-1980). Alsaziana di lingua tedesca ed ebrea, dopo il ritorno dell’Alsazia alla Francia nel 1919 aveva lasciato anche lei la terra natia; visse quindi a Berlino, poi a Magdeburg, sino alla fuga in seguito all’avvento del nazismo e alla peregrinazione attraverso vari paesi; approdata, come tanti altri Emigranten, nel 1940 in America, vi conobbe il socialista austriaco Julius Deutsch, anche lui esule, il quale aveva capeggiato la fallita insurrezione viennese del febbraio 1934 contro il governo autoritario di Dollfuss, e a lui si legò; tornarono insieme a Vienna nel 1947. Nonostante le recensioni rassicuranti di Spaini (grazie alle «delicatezze d’animo più che di stile» era «felicemente sfuggita al pericolo» di essere «uno strumento di propaganda politica contro la guerra») e di Enrico Caprile, il libro fu sequestrato (Rubino 2002, 80 nota).

È significativo che non sia comparsa allora in italiano quella sorta di mistica esaltazione della guerra che è In Stahlgewittern (1920) di Ernst Jünger (1895-1998). Tempeste d’acciaio uscì solo nel 1966, nella traduzione di Giorgio Zampaglione, più volte ripubblicata, per le Edizioni del Borghese, notoriamente di destra. Nel 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale e del dominio tedesco sull’Europa, furono pubblicati invece in italiano due libri, di tutt’altro tono, del prolifico autore tedesco (diarista, narratore, filosofo ed entomologo): il diario 1939-1942 intitolato Giardini e strade, tradotto da Federico Federici per Bompiani da Gärten und Straßen, appena uscito anche in Germania; e Sulle scogliere di marmo, da Auf den Marmorklippen (1939), un romanzo fantapolitico, tutto sommato coraggioso, di critica neppur tanto velata al regime nazista, che non a caso apparve nella «Medusa» nella traduzione di uno studioso come Alessandro Pellegrini (1897-1985), docente universitario.

2.4.5. Lo Zeitroman

Die Katrin wird Soldat sarebbe potuto appartenere anche al genere romanzesco tedesco più incisivo a livello popolare, e quindi più realmente temuto dal regime fascista, che fu in quegli anni lo Zeitroman, ossia la narrativa che descriveva la vita attuale, contemporanea. Per questo tipo di romanzo il fiorentino Enrico Bemporad (che abbiamo già incontrato nelle vesti di presidente della Federazione degli editori) creò nel 1930 un’apposita collana, «I romanzi della vita moderna», di cui affidò la direzione ad Arrigo Cajumi (1899-1955), torinese, già collaboratore di Gobetti, fine critico letterario della «Stampa» da cui si era allontanato sotto la direzione malapartiana (Del Beccaro 1973). Cajumi fu in seguito, tra il 1934 e il 1935, condirettore (e vera anima) della rivista «La Cultura», divenuta trampolino di lancio della nuova casa editrice Einaudi. In una lettera del 17 settembre 1930 a Cesare Pavese, conosciuto tramite Leone Ginzburg, Cajumi affermava di prediligere per la sua collana libri «magari artisticamente inferiori, ma con un richiamo sociale e politico, d’intreccio» (Pavese 1966, 243: la sottolineatura è nel testo).

In tre anni di esistenza la collana bemporadiana accolse undici titoli, di cui uno solo italiano, tre tradotti dal francese, due dall’americano, uno dal russo e ben quattro dal tedesco. Tra questi, due altri romanzi pacifisti, Classe 1902 (da Jahrgang 1902, 1928) e Pace (da Frieden, 1930), entrambi del filocomunista Ernst Glaeser (1902-1963), ravvedutosi poi e quindi rientrato nei ranghi conservatori e filonazisti. Entrambi i libri risultano tradotti da Teresina Campani Bagnoli, un’anziana dama socia del circolo monarchico-fascista Lyceum di Firenze (Lyceum 1932), che nel lontano 1911 aveva dato alla papiniana «Cultura dell’anima» di Carabba Verso la democrazia, traduzione del poemetto in prosa Towards Democracy del socialista e pioniere inglese dell’attivismo gay Edward Carpenter (1905), e che non appare essersi distinta altrimenti.

Tra «I romanzi della vita moderna» comparve anche, nel 1933, Tre di tre milioni (Von drei Millionen drei, 1932), di Leonhard Frank, altro pacifista tedesco (1882-1961: socialista militante, dichiarato undeutsch dai nazisti, esule dal 1933 al 1952); l’aveva tradotto Emma Sola (1894-1971), anche lei allieva di Martinetti a Milano, traduttrice di Nietzsche e di altri testi filosofici e scopritrice di Hesse sul «Baretti» nel 1928 (Antonello 2012, 274): decisa militante antifascista, già nel 1926 aveva perso la cattedra di lettere al liceo Parini, e dieci anni dopo, subito dopo aver consegnato a Mondadori Tarabas di Joseph Roth per la «Medusa», andò addirittura in Spagna, per collaborare con le Brigate internazionali alla difesa della Repubblica contro Franco (Mangini 2000, passim).

Ma il titolo di punta della collana di Bemporad fu Grand Hotel, che riprendeva quello di un popolarissimo film, tratto dallo stesso libro e interpretato da Greta Garbo, girato a Hollywood in quello stesso 1932 da Edward Goulding e vincitore dell’Oscar. Il libro era Menschen im Hotel. Kolportageroman mit Hintergründen di Vicki Baum (1929: letteralmente, «Gente in albergo. Romanzo spazzatura con retroscena»; il sottotitolo, omesso nella traduzione italiana e anche nelle edizioni tedesche postbelliche, era palesemente ironico). È significativo che il romanzo fosse ambientato a Berlino, dove Vicki Baum (1888-1960), viennese ed ebrea, non era mai vissuta, pur avendo risieduto in Germania prima della guerra.

L’autrice di Grand Hotel era una altrimenti ignota Dora Dolci Rotondi, che, probabilmente grazie a questa impresa, fu poi chiamata a tradurre Drei Tage Liebe (1931) di un’altra ebrea viennese, Joe Lederer (1904-1987), uscito per «I romanzi della palma» mondadoriani, col titolo Tre giorni d’amore, nel 1934. Questa collana era destinata specialmente al pubblico femminile, che costituiva la porzione più consistente del nuovo pubblico che si affacciava alla lettura man mano che la lotta all’analfabetismo otteneva indubbi successi: il tasso di alfabetizzazione era passato dal 38% del 1881 al 74% nel 1931 (Ben-Ghiat 2000, 31 nota). Tra «I romanzi della palma» erano benvenuti per le lettrici, soprattutto giovani, quei romanzi tedeschi che dipingevano la figura inedita della Neue Frau, la donna moderna che si batteva per la propria autonomia ed emancipazione, spesso con esiti tragici (Barrale 2011).

A quell’epoca sia Lederer che Baum erano ormai costrette all’esilio, ma si trattava di esili di natura ben diversa: in America con tutti gli agi la celebre Baum, girovaga dalla Cina all’Italia all’Inghilterra la povera Lederer. I loro libri sono invece accomunati nel loro destino italiano anche da un’altra, oggi più nota, traduttrice: Barbara Allason (1877-1968); la quale produsse altri due libri per la «Palma»: Elena Willfüer studentessa in chimica (1932, da Stud. chem. Helene Willfüer, che aveva dato a Vicki Baum la notorietà in Germania nel 1928) e Storia di una notte e La signorina Giorgio, due romanzi brevi di Joe Lederer legati in unico volume, uscito nel 1933 (rispettivamente da Musik der Nacht, 1930, e Das Mädchen Georg, 1926). Erano tutte storie di drammatici tentativi di emancipazione femminile, pressoché inimmaginabili (o comunque condannati nonché al fallimento, certo alla invisibilità) in un contesto italiano, e proprio perciò, da un lato, divorate dalle giovani lettrici e, dall’altro, osteggiate in forme varie dalla censura clerico-idealista-fascista (Barrale 2011). La già attempata Allason aveva alle spalle (e in serbo per il futuro) un’apprezzabile carriera di critica, narratrice e studiosa di germanistica, che le avrebbe procurato allora un insegnamento universitario se non fosse intervenuto l’allontanamento forzato dalle aule dovuto al suo palese antifascismo, per il quale subì successivamente anche l’arresto e alcune settimane in prigione, nelle stesse circostanze di Ginzburg e Antonicelli (Petrillo 2017, 210). Era quindi la necessità di lavoro a imporle quelle traduzioni, che in altri tempi avrebbe forse disdegnato, ma che ora seppe apprezzare.

Un altro romanzo di Lederer, Blatt im Wind (1936), fu tradotto col titolo Foglie al vento (Mondadori, 1936, sempre nei «Romanzi della palma») dalla triestina Cesira Oberdorfer, che, fra altre traduzioni, insieme col fratello Aldo aveva già da due anni prima al suo attivo, nella più prestigiosa «Medusa», I giganti, traduzione di Giganten (1932) di Alfred Döblin. Di lei, come purtroppo accade spesso con le donne, sappiamo poco, se non di riflesso di un maschio. In questo caso si tratta appunto del fratello, protagonista di un’altra vicenda drammatica.

Aldo Oberdorfer (1885-1941) studiò a Firenze, come i suoi concittadini più giovani e più noti alle storie letterarie, e anche lui dovette essere nella cerchia della «Voce», se già nel 1912 contribuiva alla collana papiniana «Cultura dell’anima» presso l’editore Carabba di Lanciano con l’importante traduzione dei kantiani Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik (1783: Prolegomeni ad ogni metafisica futura); ma tradusse allora altri testi filosofici anche per Laterza e, dopo la guerra, l’Ecce homo di Nietzsche per i torinesi F.lli Bocca. Nel 1915 fu anche lui interventista e volontario in guerra, durante la quale servì come interprete presso il Comando supremo. Congedato, tornò a Trieste e, forse anche maturato dall’esperienza bellica, aderì al partito socialista (che, come è noto, era stato contrario alla guerra) dedicandosi a un’intesa attività di organizzatore di cultura popolare e dirigendo l’organo locale del partito, «Il lavoratore». Integerrimo, si erse contro lo squadrismo, rifiutò di iscriversi ai sindacati fascisti e fu perciò costretto a lasciare l’insegnamento e anche la sua città. Fu dapprima a Torino come impiegato dell’Ente nazionale per il turismo, poi a Genova in una società di navigazione, quindi a Milano, sempre sotto la sorveglianza della polizia politica. Per vivere, ricorse sempre più intensamente all’attività pubblicistica divulgativa e scolastica e alle traduzioni (Collotti 1978a), tra le quali spiccano i tre volumi della Storia della filosofia moderna, da Die Geschichte der neueren Philosophie (1878-1880) di Wilhelm Windelband per Vallecchi di Firenze (1925) e i due di Cosmopolitismo e stato nazionale. Studi sulla genesi dello stato nazionale tedesco, da Weltbürgertum und Nationalstaat. Studien zur Genesis des deutschen Nationalstaates (1908) di Friedrich Meinecke per La Nuova Italia di Venezia-Firenze (1929-1930), oltre a qualche altro romanzo per Mondadori. In seguito all’intervento dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel giugno del 1940 (ormai «disgustato dalla pochezza degli italiani» – Lunzer 2009, 66) fu arrestato, in quanto sovversivo e quindi pericoloso per la patria che aveva scelto da ragazzo e per la quale aveva combattuto, e mandato al confino, dal quale fu liberato per le gravi condizioni di salute che lo portarono alla morte pochi mesi dopo (Orecchioni 2006).

Uno Zeitroman, un romanzo dell’epoca attuale, era anche Kleiner Mann, was nun? (1932) di Hans Fallada. Quando lesse E adesso pover’uomo?, quattro anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1933, il giovane Giaime Pintor ne scrisse ai genitori: «Quasi tutti i romanzi pubblicati da “Medusa” sono pregevoli, ma questo di Fallada è qualcosa di più di un buon libro, è, almeno nella prima parte, una compiuta opera d’arte, e potrebbe essere citato, insieme a pochi altri, come esempio del romanzo contemporaneo» (Pintor 1978, 22). Questo giudizio è, prima di tutto, una conferma dell’importanza della collana mondadoriana per tutta quella generazione di intellettuali italiani, e quindi una netta smentita anticipata del superficiale giudizio espresso nel 1946 da Giuseppe Bettalli su «Belfagor», secondo il quale «il pubblico della “Medusa” era un pubblico piuttosto “snob”, in gran parte femminile, che “adorava” l’ultimo successo editoriale giunto fresco fresco da Londra o da New York» (Bettalli 1946, 173). L’entusiasmo di Pintor era forse eccessivo, ma rivelava la sete di vita vera che provavano quei giovani, insoddisfatti dall’asfittica “prosa d’arte” di derivazione rondiana, che finiva col confluire nell’ermetismo solariano.

Singolari le figure sia dell’autore che del traduttore. Hans Fallada (1893-1947) fu ritenuto dai nazisti un feroce critico della Repubblica di Weimar e poté quindi vivere e scrivere indisturbato sotto il regime, ma per resistere finì vittima di dipendenza dall’alcol prima e dalla morfina poi. Eppure, dopo la guerra scrisse in pochi giorni un ultimo, formidabile libro, Jeder stirbt für sich allein (1947), tradotto con Ognuno muore solo da Clara Coisson per Einaudi (1950), giudicato «bellissimo» e «importante» da Primo Levi nella conversazione con Ferdinando Camon del 1986 (Levi 2018, 833 e 835).

Il traduttore di Was nun, come di altri tre romanzi successivi di Fallada, fu Bruno Revel (1895-1959). Di origine svizzera e protestante, aveva combattuto nella prima guerra mondiale; reduce dalla prigionia in Germania, si era laureato anche lui in filosofia a Milano con Piero Martinetti. Ottenne presto, nel 1929, una cattedra di lingua francese, parlata in famiglia, presso la facoltà di economia della Bocconi. Contemporaneamente partecipò a quella particolare e vivace esperienza intellettuale della sua generazione di protestanti italiani che fu la rivista «Gioventù cristiana», diretta da Giovanni Miegge, che accompagnava la casa editrice Doxa, fondata da Giuseppe Gangale, già collaboratore di Gobetti, per dar voce a quei giovani (Barai s.d.; Rognoni Vercelli 1991, 17-32, 38 e 44). Insomma, anche lui, come gli aderenti a Giustizia e libertà, sognava “un’altra Italia”, quella che, contrapposta all’Italia che si era formata intorno alla Chiesa cattolica, ci sarebbe stata – essi ritenevano – se nella sua storia avesse prevalso la Riforma (Barberis 2004, 61). Significativa del suo antifascismo fu la sua ricostruzione dell’affare Dreyfus in Francia, pubblicata da Mondadori nel 1936, poco più di un anno prima dell’introduzione delle leggi razziste (Revel 1936). Fu presente alla riunione in casa Rollier del 9 settembre 1943 a Torre Pellice durante la quale vennero fondate le formazioni partigiane di Giustizia e libertà, ma non partecipò attivamente alla Resistenza (Rognoni Vercelli 1991, 115-116). In seguito, oltre alla cattedra di lingua e letteratura francese alla Bocconi (accanto a quella del correligionario Silvio Baridon, che negli anni cinquanta fu, sempre a Milano, il fondatore della prima Scuola interpreti e traduttori, progenitrice dell’attuale Scuola Altiero Spinelli), assunse anche un insegnamento di letteratura tedesca; ma la sua passione principale rimasero gli studi storici (vedi Revel 1948). Nel 1953 fu candidato alle elezioni politiche nel piccolo raggruppamento di Unità popolare sorto intorno a Ferruccio Parri per contrastare la legge elettorale maggioritaria che fu detta “legge truffa”: altri tempi!

2.4.6. Fine dell’equivoco

Nel 1933, dei «mille demoni della modernità» che Corrado Alvaro aveva visto agitarsi a Berlino nel 1929 (citato in Rubino 2002, 5) prendeva il sopravvento il più infernale: a fine gennaio Adolf Hitler diveniva cancelliere; entro due mesi l’opposizione era messa fuori legge e i suoi dirigenti incarcerati e deportati, i libri «antitedeschi», undeutsch, a cominciare da quelli scritti da ebrei, cioè la grande maggioranza della buona narrativa contemporanea in lingua tedesca, bruciati nei cortili delle università e nelle piazze e esclusi dalla distribuzione, i loro autori costretti all’esilio. E proprio nel 1933, come s’è detto già, raggiungeva l’apice il numero di romanzi tedeschi contemporanei pubblicati in traduzione italiana, ben trentacinque (Rubino 2007, 248). Anzi, «nel 1933 l’Italia fu il paese in cui si ebbe il maggior numero di traduzioni da quegli scrittori, ebrei, antinazisti o sbrigativamente definiti undeutsch, i cui libri stavano finendo nei roghi notturni organizzati dai nazisti nei cortili delle università tedesche» (Rubino 2007, 270 nota).

Poi, repentinamente ma non misteriosamente, la passione per il vento di novità proveniente dalla Germania si affievolì. Ma – grazie anche all’iniziale freddezza mussoliniana nei confronti del nazismo – si continuarono a tradurre opere contemporanee tedesche di autori non allineati col nuovo regime, finché al fascino estetico della Germania di Weimar sugli intellettuali non si sostituì, a partire dal 1936, cambiata la situazione europea, il fascino politico-militare del nazismo sui governanti fascisti, col suo strascico di iniziative censorie e repressive interne e internazionali. Sporadicamente anche oltre questa data, in italiano continuarono a uscire narrazioni prodotte in tedesco sia da alcuni scrittori banditi in Germania sia, soprattutto, da scrittori appartenenti a quella che fu detta «l’emigrazione interna».

Tra i primi va annoverato senz’altro Jakob Wassermann, ebreo morto nel 1934 a settantun anni, prolifico e a tratti potente descrittore del drammatico tornante della storia tedesca costituito dalla guerra e dal dopoguerra. Wassermann era autore, tra le molte altre cose (compresa una aperta rivendicazione di Mein Weg als Deutscher und Jude, «La mia via da tedesco ed ebreo», del 1921), di una trilogia di valore diseguale ma comunque fortemente invisa alle autorità naziste. Il caso Maurizius, pubblicato nel 1930 nella collana di Gian Dàuli per il Corbaccio, nella traduzione di quella grande professionista che era Alessandra Scalero, gli aveva dato anche in Italia, come già nell’area germanofona, una certa popolarità. Der Fall Maurizius, uscito appena due anni prima in Germania, era appunto il primo volume di una trilogia di Zeitromane, in gran parte autobiografica, di cui il secondo, Etzel Andergast, del 1931, uscì in italiano, sempre presso il Corbaccio, e con titolo inalterato, nella traduzione di Scalero, mentre il terzo – Joseph Kerkhovens dritte Existenz (1934, postumo), ritenuto da Lavinia Mazzucchetti inferiore ai precedenti (Albonetti 1994, 240) – comparve in italiano come La terza esistenza di Joseph Kerkhoven, ancora dal Corbaccio e fortemente censurato, solo nel 1937. La firma della traduzione stavolta era C.S. Inisca. A questo nome il Sbn attribuisce solo altre due traduzioni, entrambe per il Corbaccio: quella di Three Men in a Boat di Jerome K. Jerome, Tre uomini in una barca, uscita nel 1937, e Le avventure di Tom Sawyer, del 1938, da The Adventures of Tom Sawyer di Mark Twain. Non è difficile immaginare che quel nome copra in realtà ancora una volta l’infaticabile Alessandra Scalero, dal 1933 impossibilitata per contratto a mettere il proprio su edizioni diverse da quelle Mondadori, come antifrasticamente testimonia il direttore della Mondadori, Luigi Rusca, uno dei principali manager dell’«industria delle traduzioni» attivata in Italia in quegli anni (Rundle 2010, 43-77). Visti i pareri di lettura del libro di Wassermann sottopostigli già nel 1934 sia da Mazzucchetti, l’esperta germanista per la «Medusa» e la «Palma» che aveva letto il romanzo in manoscritto, sia dalla stessa Scalero, Rusca finiva con l’annotare: «Naturalmente se noi non lo pubblicheremo apparirà presso Corbaccio, non tradotto però dalla Sig. Scalero che si è impegnata a lavorare solo per noi» (Albonetti 1994, 241).

Un’altra trilogia, benché di argomento lontano dalla contemporaneità, era ancora più indigesta per i nazisti: quella che lo specialista in romanzi storici Lion Feuchtwanger (1894-1958), anche lui ebreo, aveva dedicato alla straordinaria biografia dello storico ebreo di lingua greca Flavio Giuseppe (I secolo d.C.). Il primo volume, Der jüdische Krieg (letteralmente «La guerra giudaica», quella durante la quale Tito nel 71 aveva distrutto Gerusalemme e il suo Tempio, provocando l’avvio della Diaspora definitiva: il titolo era la traduzione dell’opera di Flavio Giuseppe, Istòria Ioudaioù polèmou), fu pubblicato nel 1932, ma uscì già in quel famigerato 1933 in italiano con un titolo ben più drammatico, La fine di Gerusalemme, nella traduzione di Ervino Pocar per la «Medusa». Mondadori riuscì a pubblicare nel 1936 anche Il giudeo di Roma, traduzione, sempre di Pocar, del secondo volume, Die Söhne (letteralmente «I figli»), uscito l’anno prima ad Amsterdam presso il Querido Verlag, la principale casa editrice dell’emigrazione tedesca. Feuchtwanger era infatti ormai esule. Ma il terzo volume, Il giorno verrà (titolo letterale, da Der Tag wird kommen, pubblicato a Stoccolma dal Behrmann-Fischer Verlag nel 1945), uscì, sempre da Mondadori e sempre opera di Pocar, soltanto quando il giorno era ormai finalmente venuto, nel 1948. D’altronde, la traduzione dell’unico Zeitroman di Feuchtwanger, Die Geschwister Oppenheim, che sarebbe dovuta uscire per la «Medusa» col titolo I fratelli Oppenheim, e che descriveva la vita di una famiglia ebrea tedesca alla vigilia dell’avvento del nazismo, fu decisamente bloccata dalla censura e poté uscire solo nel 1946. Anch’essa era opera di Pocar.

La cosa per me più strabiliante di Ervino Pocar (1892-1981), colui che sarebbe divenuto «il traduttore per antonomasia dal tedesco» (Lunzer 2009, 52), è lo straordinario e assoluto dominio della lingua letteraria italiana. Istriano di nascita, ma giuliano – per l’esattezza goriziano – di formazione, diversamente dai suoi coetanei come lui irredentisti, di cui ho già parlato sopra, non studiò mai in Italia, ma fu costretto a frequentare sempre e soltanto scuole austro-ungariche, compresa l’Università di Vienna, dove si laureò durante la prima guerra mondiale in filosofia. Attraversate dure prove a Gorizia, che, aggregata alla patria italiana, era divenuta campo di un soffocante clima antisloveno, nel 1922 la abbandonò e, rifiutando qualsiasi compromissione col governo fascista che si sarebbe verificata con l’insegnamento, dopo diverse esperienze lavorative (che accompagnavano già una fervida attività traduttiva, soprattutto da Hofmannsthal, Kleist e Heine), approdò a Milano per collaborare alle attività editoriali del Touring Club (Landolfi 2015). Lì lavorava anche Luigi Rusca, che poco tempo dopo fu collocato dal nuovo azionista di maggioranza della Mondadori, Senatore Borletti, nel ruolo di condirettore generale di quella casa editrice, per collaborare con Arnoldo nel risanamento dell’azienda, da Borletti salvata da una grave crisi finanziaria nel 1928 (Decleva 1993, 130-134). E fu Rusca a chiamare Pocar, col delicato compito di seguire tutta la fase finale della produzione industriale di ciascun libro. Così Pocar cominciò a tradurre per la Mondadori. Ma a lui pare vada attribuito anche il merito di aver fatto avere ad Antonicelli i testi originali dei racconti di Kafka tradotti da Anita Rho per la «Biblioteca europea» nel 1935 (D’Orsi 2000, 130), troppo presto perché a proporli fosse Bobi Bazlen, il quale tuttavia ne aveva già fatti pubblicare sul «Convivio», nel 1928, alcuni tradotti dal suo amico triestino Giuseppe Menassé (Riboli 2013, 55; Del Zoppo 2013, 401).

Questo fervore di traduzione di romanzi tedeschi contemporanei, molti dei quali di autori e autrici di etnia ebraica, e tutti con un’impronta decisamente contraria al germanesimo borioso prossimo a resuscitare ancor più virulento in camicia bruna, non deve far pensare a scelte ideologicamente orientate in senso antitotalitario tout court da parte di editori e traduttori. L’Italia fascista, ormai gli studi lo hanno chiarito, era culturalmente e letterariamente molto più complessa dell’immagine uniformemente oppressiva che ne ha offerta la vulgata antifascista della seconda metà del Novecento.

Fu l’accordo culturale che suggellò nel 1938 l’alleanza italo-tedesca che, imponendo una durissima censura su qualsiasi pubblicazione italiana che fosse sgradita al regime nazista, mise definitivamente fine all’intenso fenomeno – d’altronde già declinante dopo il boom del 1933 – delle traduzioni di romanzi tedeschi, proseguito a stento, come s’è detto, con diversi autori dell’“emigrazione”, sia interna che esterna. Era una sorta di “ci siamo sbagliati” (Rubino 2007, 265). All’apparir del vero, cioè del nazismo, coloro che – traduttori e, soprattutto, editori – avevano sostenuto quel fenomeno si erano ormai resi conto che il motivo della loro infatuazione per la Germania, dovuta alla Neue Sachlichkeit nelle sue variegate manifestazioni, era infondato.

Letterati e editori che si affacciavano all’attività tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta avevano creduto di trovare lì l’antidoto all’estenuata “prosa d’arte”, alle indulgenze al bello scrivere senza appigli con la realtà moderna che dominava – tra dannunzianesimo, crepuscolarismo e rondismo – l’orizzonte della generazione precedente, a favore di un impegno di tipo contenutistico più consono alle velleità “rivoluzionarie” del fascismo, con il quale – in grande maggioranza – si identificavano. Si presenta così un’immagine della letteratura (e della cultura) italiana di quel periodo esattamente rovesciata rispetto a quella che ha dominato in epoca repubblicana. Fino al 1938, più che il regime fascista in quanto tale, a impedire ai letterati di affrontare la realtà, che secondo quest’ultima immagine sarebbe stata riscoperta col neorealismo, era una oscena convergenza di fatto tra pruderies clericali e idealismo crociano. La critica centrale che nel 1925 il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti opponeva a quello gentiliano degli intellettuali fascisti consisteva nell’accusa di «contaminare politica e letteratura, politica e scienza», mentre Gentile rivendicava al fascismo il grande merito «di obbligare a poco a poco tutti quelli che una volta se ne stavano alla finestra, a scendere in istrada: a fare del fascismo magari contro il fascismo», lasciandosi così alle spalle la vecchia figura del «letterato italiano» (Belardelli 2005, 11-12), intendendo cioè il fascismo come impegno politico e civile. Insomma, quello che in epoca di trionfo dell’esistenzialismo sarebbe stato chiamato “l’impegno” era appannaggio, in campo letterario, proprio della giovane generazione conquistata dal fascino “rivoluzionario” del fascismo e che quell’impegno, «su una linea di inconsapevole ma, in parte, sostanziale continuità» (Belardelli 2005, 63), avrebbe poi trasferito nell’analogo e contrario fascino “rivoluzionario” del comunismo. Destinati entrambi ad andar delusi.

Paradossalmente, però, ad aprire la strada alla rivolta giovanile contro «stanche romanticherie, crepuscoli, patemi», per «ricostruire il mondo» attraverso il romanzo era stato, nel 1930, Giuseppe Antonio Borgese, al quale, coerentemente, il giovane Vitaliano Brancati chiedeva insistentemente perché dunque fosse antifascista (Biagi 2019, 245-246). In questa atmosfera si inserivano i quattro romanzi sperimentali italiani sui quali ha attirato l’attenzione Mario Rubino (2007, 254): Luce fredda di Umberto Barbaro (da noi già incontrato come traduttore dal russo), edito da Carabba nel 1931; Radiografia di una notte di Enrico Emanuelli, uscito da Ceschina nel 1932; Tre operai di Carlo Bernari, pubblicato da Rizzoli nel 1934; e Quartiere Vittoria di Ugo Dèttore, edito da Bompiani nel 1936. Il modello tedesco si attagliava bene a quel programma. Si trattava solo di rovesciarne l’ottica ideologica. Il giovane editore-letterato Valentino Bompiani, che indicava già nel 1933 l’esempio di Döblin (ma anche di Mann) a Ugo Dèttore (Baldini 2019, 208), l’anno seguente avrebbe lanciato un fervente appello al «romanzo collettivo» proprio nella chiave “contenutistica” consona al regime. D’altronde nello stesso 1933 Bompiani aveva varato la paradigmatica operazione Fabian. Fabian. Die Geschichte eines Moralisten (1931) era un romanzo di Erich Kästner che nel 1932 Enrico Rocca aveva segnalato sulla rivista «Pègaso» con un disgustato riassunto delle dure prove affrontate, in frustrazioni sentimentali e professionali, dal giovane protagonista. Il riassunto si chiudeva accostando il «fallimento» di Fabian a quello di «tutta la generazione di Kästner, – come quella di Remarque, come quella di Glaeser». Bompiani si era affrettato a farlo tradurre per la sua ambiziosa collana «Letteraria», ma – a ogni buon conto – ne aveva chiesto la prefazione al neo-Accademico d’Italia Eccellenza Massimo Bontempelli, il quale non si era fatto pregare e aveva scritto un pezzo intitolato Romanzo apocalittico, in cui

Fabian viene ricondotto, insieme a Berlin Alexanderplatz di Döblin e a Viaggio al termine della notte di Céline, a un filone di «letteratura nera» che accetta senza opporvisi la devastazione del mondo moderno, e si sottolinea come grazie all’azione del fascismo la letteratura italiana sia invece «salva» da tali degenerazioni, almeno laddove accetta di tener fede al suo vero compito: quello «di ritrovare una nota di splendore solare, di riportare l’invenzione narrativa al poema. Riinventare gli eroi». (Biagi 2019, 252)

A Bontempelli faceva eco, ancor più drasticamente, Gian Dàuli l’anno dopo. Nella prefazione al Ciarlatano – da Der Scharlatan di Hermann Kesten (1932), nella traduzione dello stesso Umberto Barbaro per il Corbaccio – il vulcanico editor chiosava, in contrasto netto ma probabilmente inconsapevole con Croce e alludendo agli avvenimenti di quei mesi a Parigi e a Vienna, sconvolte da fallite insurrezioni, che dallo sfacelo in cui precipitava l’Europa si salvava solo l’Italia: «La volontà, il genio e la fortuna di un Uomo hanno fatto sì che il nostro paese viva in fervore di giovinezza operante e osante» (Dàuli 1934, 13).

A questo proposito è doverosa una precisazione. Il Luigi Russo autore, nel 1934 sul «Popolo di Roma», di un intervento nel dibattito suscitato da Bompiani (tutto interno al fascismo, come opportunamente sottolinea Baldini 2019, 210), in cui condannava l’immoralità dei libri tradotti e preconizzava il «romanzo fascista» imperniato sulla triade «Famiglia, Patria, Religione» (Piazzoni 2007, 141), non era il notissimo italianista siciliano (1892-1961), che veniva proprio allora sottraendosi alla tutela gentiliana (Ruggiero 2017), ma un potente gerarca fascista omonimo (1882-1964), che pochi mesi dopo sarebbe divenuto capo di stato maggiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, braccio armato del regime, e che si piccava di velleità da critico letterario (Senato, Archivio).

2.4.7. Gli ultimi fuochi

Ma nessuno dei più noti germanisti lavorò a Fabian. Storia di un moralista. La traduzione portava la firma di Carlo Coardi, la stessa che – l’abbiamo visto a suo luogo – sarebbe successivamente comparsa per tre romanzi di Cronin, ma che sarebbe riapparsa nel 1940 addirittura per Furore, la controversa traduzione italiana di The Grapes of Wrath di John Steinbeck (Tagliavini 2012). Nel catalogo del Sbn Coardi risulta autore di ben 35 traduzioni, tutte esclusivamente per Bompiani e tutte dall’inglese, tranne appunto (sospettamente) Fabian, ma comprendenti sia romanzi di vario genere sia una gamma molto variegata di saggistica divulgativa. Né, per quanto si cerchi, si trova alcunché d’altro sul suo conto. Fin tanto che non comparirà qualche prova in contrario, è molto forte il sospetto che si tratti in realtà di una firma di comodo, che – un po’ come successivamente Luca Lamberti presso l’Einaudi (Ferrero 2016) – andava a suggellare versioni raffazzonate a più mani, tra cui alcune di persone che, per un motivo o per l’altro, non potevano esibire il proprio nome a stampa. [Nota aggiunta il 2 febbraio 2022: Questa pur cauta illazione è stata smentita ieri da una irrefutabile “prova in contrario” trovata fortuitamente, nel corso di un’altra ricerca, nel Giornale di segreteria, nell’Archivio Giulio Einaudi Editore presso l’Archivio di Stato di Torino, che in data 1° giugno 1945 registra che si è presentato presso la casa editrice, proponendosi come traduttore, «Carlo Coardi di Carpenetto, già traduttore per Bompiani”, abitante a Torino. Altre ricerche seguiranno.]

Se da un lato rientrava nella Neue Sachlichkeit, Fabian però non era un prodotto tipico di quel buon professionista della penna che era Erich Kästner (1899-1974). In Italia Kästner divenne più noto con dei libri per ragazzi pubblicati dallo stesso Bompiani: Antonio e Virgoletta (da Pünktchen und Anton, 1931), uscito l’anno prima di Fabian; La classe volante (da Das fliegende Klassenzimmer, 1933), del 1934; ma soprattutto i gialli Emilio e i detectives (da Emil und die Detektive, 1929), uscito nel 1935 e più volte ristampato per decenni; ed Emilio e i tre gemelli (da Emil und die drei Zwillinge, 1934), uscito nel 1936. Tutti e quattro erano opera di Lavinia Mazzucchetti, nel frattempo, come sappiamo, impegnata con la «Palma» e la «Medusa» di Mondadori.

Un altro romanzetto giallo per ragazzi di Kästner, La miniatura trafugata, ovvero anche Le avventure di un salsamentario di cuor tenero (da Die verschwundene Miniatur, 1935), usciva invece nel 1936 nella collana «Pandora» della Sperling & Kupfer di Milano. In questo caso però la traduzione non era della Mazzucchetti, ma di Luigi Emery, che di Kästner già aveva tradotto l’anno prima, nella stessa sede, l’umoristico Drei Männer im Schnee (1934), con Tre uomini sulla neve, ed era autore di numerose altre traduzioni di minor conto (se si eccettua La giovinezza di Enrico IV, «Medusa» 1937, dal rilevante romanzo di Heinrich Mann Die Jugend des Königs Henri Quatre, 1935), sia dal tedesco che dal francese. In assenza di notizie d’altra fonte, stando a Wikipedia Luigi Emery (1893-1979) è un enigma. Figlio del grande zoologo positivista Carlo, di origine svizzera e cattedratico a Bologna (Alippi Cappelletti 1993), dopo aver partecipato alla guerra scelse la strada del giornalismo, lavorando per «Il Resto del Carlino» come Spaini, che funse probabilmente da tramite con Mazzucchetti. Ma il suo antifascismo, praticato accanto a Salvemini Gobetti e Croce, gli rese la vita difficile, tanto che, instaurato il regime, dovette lasciare «Il Corriere della sera», dove era nel frattempo approdato. Nel 1927 si trasferì a Berlino, da dove avrebbe collaborato alla «Stampa», «e vi rimase fino alla fine della seconda guerra mondiale», vicenda che mi sembra improbabile: sarebbe più unica che rara e porrebbe seri interrogativi sulla sua attività in quegli anni, soprattutto successivamente all’armistizio dell’8 settembre 1943, in seguito al quale i tedeschi ritennero gli italiani traditori. Di certo, in quel tragico periodo bellico la firma delle corrispondenze da Berlino per il quotidiano torinese non fu la sua ma quella dello svizzero Guido Tonella, altrimenti noto per i suoi reportage e libri di alpinismo. Rientrato in Italia (quando?), Emery diresse fino al 1950 «Il Giornale dell’Emilia», nome col quale il «Carlino» si era rifatto una verginità antifascista, per poi passare alla Rai quale corrispondente radiofonico da Parigi. In ogni caso, tuttavia, risulta ostico pensare a una sua adesione al Reich millenario quale patria ideale.

Tra il 1929 e il 1933 forse Lavinia Mazzucchetti poté considerare il paese di Goethe, del quale avrebbe curato vent’anni dopo l’opera pressoché completa in italiano per Sansoni, come la propria patria ideale. In quel periodo, costretta ad abbandonare le ambizioni accademiche per il suo notorio e dichiarato antifascismo, dovette reinventarsi un mestiere e un ruolo. Prima di assumere, a partire dal 1932, una parte di primissimo piano nella costruzione e nello sviluppo delle collane di traduzioni della Mondadori, aveva fondato nello stesso 1929, proprio presso la Sperling & Kupfer, la collana «Narratori nordici». Si trattava di piccoli libri dalla veste grafica elegantissima, ma dalla cura redazionale piuttosto sciatta, che ospitavano opere minori di autori prevalentemente di lingua tedesca (dieci titoli già entro il 1930), tra i quali Jakob Wassermann, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig, Hermann Hesse (Antonello 2018), con traduzioni, oltre che della stessa Mazzucchetti, di Enrico Rocca, Giacomo Prampolini, Aldo Oberdorfer. Nella storia dell’editoria letteraria «Narratori nordici» viene di solito affiancata alle pressoché contemporanee «Il Genio russo» di Polledro e«Biblioteca romantica» di Borgese quali veicoli di un’apertura alle letterature straniere più rigorosa che nel passato (ma per la seconda si vedano le puntigliose osservazioni di Esposito 2018, 25-45, che ne rivelano le forti manchevolezze) e segnacolo di ingresso nel «decennio delle traduzioni». Ma mentre le altre due contavano su un canone accertato a cui attingere, Mazzucchetti presentava voci allora nuove, quasi sempre introdotte in Italia per la prima volta. È pura coincidenza che Thomas Mann, l’autore delle due novelle con cui si apriva la collana – ossia Disordine e dolore precoce e Cane e padrone – ricevesse proprio quell’anno il premio Nobel. Quelle traduzioni da Unordnung und frühes Leid (1926) e Herr und Hund (1918) Mazzucchetti infatti le aveva già presentate nel numero monografico del «Convegno» dedicato a Mann da lei curato nel 1927.

2.4.8. Thomas Mann al cuore della tragedia tedesca (anzi, europea)

Di Thomas Mann Mazzucchetti sarebbe poi divenuta amica stretta e dopo la guerra avrebbe curato per Mondadori tutte le opere in versione italiana. Ma non poteva vantare diritti di pioniera nell’introduzione del grande scrittore tedesco in Italia. Anche in questo caso un ruolo fondamentale l’aveva sostenuto Alberto Spaini con la moglie Rosina Pisaneschi, che già nel 1926 avevano pubblicato da Morreale Ora greve, Tristano ed altri racconti, contenente le loro traduzioni da Schwere Stunde (1905) e Tristan (1903). In quello stesso anno era uscita anche la prima traduzione italiana di un libro di Thomas Mann che sarebbe stato fondamentale per gli orientamenti ideali ed estetici di un paio di generazioni di intellettuali: Tonio Kröger (1903). L’aveva compiuta, sempre per Morreale, Guido Isenburg, figlio di un piccolo industriale tedesco protestante, August, trapiantato a Milano già prima della “grande guerra”. Isenburg, che, classe 1899, si era presentato volontario in guerra nel 1917 per ottenere la cittadinanza italiana, non si sarebbe mai più cimentato in traduzioni, in quanto scelse poco dopo, per seguire un’amata che poi sposò, un’altra patria, la Norvegia, e non rientrò più in Italia. Destino – e comune formazione etico-politica, laica e antifascista, delle due famiglie, che allora non si conoscevano – volle che quasi quarant’anni dopo la nipote di Isenburg Luisella, figlia di suo fratello Roberto, sposasse un figlio di Ervino Pocar, Fausto (Isenburg 2019; Pocar 2019). Nel frattempo Pocar aveva dato a Mondadori Doctor Faustus (1949) ed era prossimo a dare La montagna incantata, in nuova versione, al Corbaccio.

Il Nobel scatenò una frettolosa e disordinata corsa alle traduzioni da Mann da parte di alcune case editrici. Nel 1930 fu la volta del romanzo giovanile e più famoso, Buddenbrooks. Dei sospetti circa la «traduzione integrale dal tedesco», I Buddenbrook. La decadenza di una famiglia, opera di Annie Lami per la sestese Barion diretta da Ettore Fabietti, s’è già detto nell’ambito delle traduzioni di autori inglesi. Contemporaneamente uscivano anche, in uno stesso volume degli «Scrittori stranieri moderni» della Treves, Morte a Venezia (da Der Tod in Venedig, 1911) e Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (da Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, 1922-1923, prima stesura); erano opera congiunta, e unica, di una per altro sconosciuta Emma Virgili e di un giovane Paolo Milano, destinato invece a qualche notorietà. Proprio in quell’anno Paolo Milano (1904-1988) pubblicava anche un suo studio su Lessing da Formiggini; ma si dedicò presto al giornalismo culturale: in un primo tempo, in quanto appassionato di teatro, come caporedattore della rivista «Scenario» di Silvio d’Amico. Nel 1938 fu costretto a emigrare perché ebreo e dal 1940 al 1955 fu in America. Rientrato in Italia, collaborò come autorevole critico letterario all’«Espresso» di Arrigo Benedetti. Amava raccontare di aver conosciuto da ragazzo Mann a Forte dei Marmi, «dove lui veniva un paio di mesi all’anno a villeggiare, e io ero ospite della famiglia Colorni. Quante arie e quanta pedanteria! La moglie, poi, era insopportabile: la sera, durante la cena, obbligava alla lettura ad alta voce di romanzi tedeschi. Inutilmente le dicevo: Non mi organizzi la vita!» (Lilli 1988).

Ma quante coincidenze! A questa famiglia Colorni, milanese, qui citata, apparteneva il giovane Eugenio (1909-1944), futuro cofirmatario nel 1941 – con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – del Manifesto di Ventotene e poi eroe della Resistenza. Sposato con l’ebrea tedesca Ursula Hirschmann, esule in Italia, ne ebbe tre figlie, di cui una è Renata, insigne traduttrice di cui dovremo fare il nome tra poco. Si tratta davvero di coincidenze? O, parlando di traduzioni, non stiamo ricostruendo involontariamente una buona parte del quadro delle élite culturali dell’Italia novecentesca?

Der Tod in Venedig usciva contemporaneamente in italiano come La morte a Venezia anche da Bietti nella traduzione di Alessandra Scalero, non ancora vincolata a Mondadori. Tra il 1932 e il 1933 uscirono due traduzioni di Königliche Hoheit (1909): Altezza reale della Barion era opera di Lamberto Brusotti, autore di qualche altra traduzione dal tedesco di romanzi minori e di saggi; quella del Corbaccio invece era opera di Isabella Douglas Scotti, una gentildonna andata sposa a Giacomo Feltrinelli, esponente di rilievo della grande famiglia di imprenditori, e quindi zia acquisita del futuro editore Giangiacomo (Segreto 2011, 11). Anche in questo caso abbiamo il diritto di dubitare: l’unica altra sua impresa letteraria fu la traduzione di Pêcheurs de perles (Pescatori di perle) del francese Albert Londres, sempre per il Corbaccio, del 1932.

Tranne le due novelle dei «Narratori nordici» e i Bekenntnisse, che d’altronde erano in incubazione fin dagli anni dieci e avrebbero subito un’ulteriore evoluzione, questi titoli erano tutti del Mann prebellico, che poco avevano a che vedere con la Germania contemporanea. Certo, Thomas Mann non era autore da Neue Sachlichkeit, da cui era lontanissimo. Ma la produzione postbellica di questo lavoratore instancabile, pedante e pieno di sé, andava al cuore della tragedia tedesca, anzi europea, che era anche il suo dramma personale. Non è un caso che Benedetto Croce dedicasse proprio a lui quella sua Storia d’Europa di cui ho già detto. Per entrambi – gli aveva scritto il 6 dicembre del 1931 per chiederne il permesso – era venuto il tempo di un «esame di coscienza» (Croce, Laterza 2009, 99 nota: la sottolineatura è nel testo citato)

Abbiamo una testimonianza toccante. Torino, 1938, Laboratorio di preparazione dell’Istituto chimico dell’Università:

Ronzando intorno a Rita mi accorsi di una seconda circostanza fortunata: dalla borsa della ragazza spuntava una copertina ben nota, giallastra col bordo rosso, e sul frontispizio stava un corvo con un libro nel becco. Il titolo? Si leggeva soltanto «AGNA» e «ATA», ma tanto bastava: era il mio viatico di quei mesi, la storia senza tempo di Giovanni Castorp in magico esilio sulla Montagna Incantata. (Levi 1975, 36)

Con tutto il rispetto, anzi la venerazione, per Primo Levi, le storie senza tempo non esistono: «Il romanzo […] non sembra, a prima vista, un’opera sulla Grande Guerra, ma lo è, e solo la Grande Guerra, contro ogni apparenza, è il suo oggetto», è arrivato ad affermare Michael Dallapiazza, che – molto probabilmente ignaro o immemore di quel ricordo di Levi – conclude il suo saggio su Der Zauberberg con una forte sottolineatura della chiusa del romanzo, in cui Hans è descritto come uno dei tanti soldati ingoiati dalla guerra, e non esita a collegare alla “grande guerra” «un’altra cesura» della storia tedesca, «forse non per ultimo causata da questo stesso fatto dal cui principio sono cominciate tante cose che forse non hanno ancora cessato di cominciare: Auschwitz» (Dallapiazza 2015, 184; il corsivo è nel testo). D’altronde, in più di un’occasione lo stesso Mann ha chiarito quanto abbia contato l’interruzione che la stesura del romanzo subì a causa della guerra, durante la quale lo scrittore si dedicò alle Betrachtungen eines Unpolitischen (Considerazioni di un impolitico), e come esso ne sia uscito ampliato e trasformato. Ma forse Levi intendeva in quel modo alludere al tema di fondo del romanzo, che è la mutevolezza della percezione soggettiva del trascorrere del tempo: Ja Zeit! Was nun gerade diese betreffe, die menschliche Zeit, so werde James seine mitgebrachten Begriffe zu allererst revidieren müssen (Mann 2044, 589: «Oh, Il tempo! Proprio in merito al tempo, al tempo umano, James doveva rivedere anzitutto i vieti concetti» [Pocar 1997, 401]).

Ed è significativo che Levi – costretto proprio allora a scoprire di essere ebreo, e perseguitato: «un grano di senape», di «impurezza» – fosse affascinato dalle «discussioni politiche, teologiche e metafisiche dell’umanista Settembrini col gesuita-ebreo Naphta» inserite dal tedesco Mann in quel romanzone di cui alla povera Rita importava solo l’esile vicenda pseudo-sentimentale tra il protagonista Hans Castorp e «la Signora Chauchat».

Nella sua acuta Introduzione a Berlin Alexanderplatz, Spaini, colpito dalla novità doebliniana, criticava Thomas Mann, fermo in Der Zauberberg «nello stesso stile e nella stessa tecnica» dei Buddenbrook (Spaini 1931, 17). Al netto dalle interpretazioni generali del romanzo, era tuttavia lì, in quelle discussioni tra Settembrini e Naphta (tragicamente conclusesi con uno scontro armato, un duello alla pistola, non si dimentichi), che, prendendola alla lontana, lo scrittore tedesco piantava la prima tappa del suo tormentato itinerario attraverso il conflitto interno del germanesimo, di cui i punti d’arrivo sarebbero stati, durante la seconda guerra mondiale e dopo, Doktor Faustus e il suo doppio, Roman eines Romans, cioè Romanzo d’un romanzo.

La traduzione di Der Zauberberg (1924), La montagna incantata (titolo che si deve a Lavinia Mazzucchetti sin dalla sua recensione del 1925 all’originale tedesco – Colorni 2010, CLXI), pubblicata dal Corbaccio nel 1932, era di Bice Giachetti-Sorteni, una delle purtroppo numerose traduttrici di quegli anni di cui non sappiamo nulla (troppo poco noto il marito compositore Enrico Giachetti, di cui perfino il Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti della Utet, dedicandogli poche righe, storpia il nome in Giacchetti), se non che fu autrice di diverse traduzioni di varia importanza. Tra esse spicca Süss l’ebreo, per Modernissima 1929, da Jud Süß (1925) di Lion Feuchtwanger, il romanzo che ebbe la disgraziata ventura di testimoniare l’ambivalenza della cultura tedesca: nel 1940, mentre l’ebreo Feuchtwanger era costretto all’esilio, la storia, ammirata ma critica, del cortigiano ebreo del Württemberg settecentesco, abile e colto ma troppo ambizioso, fu rovesciata nel più micidiale film di propaganda antiebraica nazista. E intanto, nel 1938, in Italia il libro veniva sequestrato, proprio perché appariva esaltare un personaggio ebreo (Gigli Marchetti 2000, 73).

Quando Hitler prese il potere, l’Italia fascista era ben lontana dall’abbracciarne la linea repressiva e razzista, che anzi contestava. Fino al 1936 si raggiunse nell’editoria italiana «il punto più alto di pluralismo estetico, che andò in mille pezzi dal 1937 al 1943» (Billiani 2007, 22), cioè solo dopo l’avvicinamento gregario di Mussolini alla Germania nazista conseguente a impresa d’Etiopia, sanzioni e guerra di Spagna. Per questo i nostri editori poterono continuare per qualche tempo a pubblicare autori di lingua tedesca ebrei o comunque invisi al regime. Un esempio ne è anche il Kafka di Il processo di Spaini, uscito da Frassinelli, come s’è visto, proprio nel 1933 (ma la successiva fatica kafkiana del grande traduttore, America, già pronta nel 1935, non poté uscire che dieci anni dopo). Ma ce ne furono diversi altri anche in seguito, fino al 1938. Tra questi anche Mann, di cui Mondadori pubblicò in traduzione nel 1933, cioè appena uscito in Germania (ma l’autore era già esule in Svizzera), il primo volume della possente tetralogia Joseph und seine Brüder, Le storie di Giacobbe (da Die Geschichten Jaakobs). Così Mann aveva accolto il trionfo del regime antisemita, che si preparava da tempo: attingendo alla storia biblica della deportazione degli ebrei in Egitto per celebrare la ciclicità della storia e dell’esistenza umana, cogliendo proprio nell’ebreo l’essenza dell’uomo.

E un ebreo era il suo traduttore italiano. Anzi addirittura un rabbino, stando al sito «Rabbini italiani», in cui appare che Gustavo Sacerdote (1867-1948) studiò e si diplomò nel 1895 al Seminario rabbinico di Berlino (http://www.rabbini.it/gustavo-sacerdote/). Ma probabilmente abbandonò subito la vocazione religiosa, che non viene infatti menzionata da nessun’altra fonte. Attratto dal movimento socialista tedesco, decise di restare in Germania, di dove fu, con lo pseudonimo di Genosse (compagno), corrispondente dell’«Avanti!», organo del partito socialista italiano, collaborando anche a «Critica sociale», la rivista di Filippo Turati. Oltre ad alcuni scritti minori di Marx e di Engels, tradusse Die deutsche Sozialdemokratie. Ihre Geschichte und ihre Lehre. Eine historisch-kritische Darstellung di Franz Mehring (Storia della democrazia sociale tedesca, in più volumi, Roma, Mongini, 1900-1907: ma la firma del traduttore comparve solo nell’edizione del fatidico 1917), «un classico della formazione degli operai socialisti europei». Antimilitarista e convinto neutralista, allo scoppio della prima guerra mondiale riparò a Zurigo, dove collaborò a «L’avvenire del lavoratore», il giornale dei socialisti italiani in Svizzera. Nel novembre 1918 corse a Berlino in preda all’insurrezione spartachista (tradusse in seguito alcuni scritti di Karl Liebknecht e di Rosa Luxemburg) e si avvicinò al partito socialdemocratico tedesco indipendente, che simpatizzava per la rivoluzione bolscevica in Russia. Finita tragicamente quell’esperienza, al ritorno in Italia diresse la Libreria editrice Avanti! fino a che non fu soppressa, nel 1925, dai fascisti. Era probabilmente sua sorella l’Amalia Sacerdote che per questa casa editrice tradusse, nel 1922, Der Mensch ist gut (L’uomo è buono), una novella contro la pena di morte di Leonhard Frank. Grande fortuna ebbe un suo Dizionario tascabile italo-tedesco, già pubblicato in Germania nel 1910 e quindi da Hoepli nel 1931, quando Sacerdote viveva ormai di traduzioni e di pubblicistica divulgativa, nella quale spicca una Vita di Giuseppe Garibaldi per Rizzoli, 1935 (Collotti 1978b).

Dei quattro volumi della saga biblica di Mann, in italiano poterono uscirne solo tre. Intervenne la guerra, poi Sacerdote morì, e Lavinia Mazzucchetti, ormai alle prese con l’opera omnia manniana, si sentì libera di rivolgersi a un altro traduttore, Bruno Arzeni: «I primi tre volumi furono pubblicati nella Medusa ma senza aver raggiunto quella perfezione che noi avremmo desiderato dal traduttore il quale aveva le sue idee e non era disposto a rinunciare a una troppo fedele e pedissequa aderenza al testo tedesco», gli scrisse nel 1948. Ad Arzeni Mazzucchetti chiedeva di rivedere quei primi tre volumi e di tradurre il quarto. Arzeni finì col rifare da capo tutto. Animo di esile ma autentico poeta, Bruno Arzeni (1905-1954) era vissuto a Monaco, dove si era recato per studiare con il patrocinio di Giuseppe Gabetti, direttore dell’Istituto di studi germanici di Roma voluto da Gentile, proprio dal 1933 e lì era rimasto fino allo scoppio della guerra, non senza qualche titubante ammirazione per l’organizzazione germanica. Ne era tornato con una moglie tedesca e con una salute gravemente minata dalla tisi (Ruffini 2018), ma certamente, se le circostanze lo avessero permesso, non si sarebbe allontanato dalla Germania. Tuttavia la rigorosa Mazzucchetti non gli avrebbe mai accordato la sua stima se avesse sospettato in lui la minima simpatia per il nazismo, mentre condivideva il suo amore per la Germania e la sua cultura.

Ma qual era la cultura tedesca? Era questo il rovello di Thomas Mann. La sconfitta nella prima guerra mondiale e gli avvenimenti successivi avevano messo in crisi la sua tormentata e contraddittoria difesa della Kultur germanica, imperniata sul trinomio Schopenhauer-Wagner-Nietzsche, e il suo sostegno all’impegno bellico guglielmino, contro la civilisation, la Zivilisation cosmopolita pacifista e democratica. Erano i sentimenti che aveva espresso, in implicita ma evidente polemica col fratello pacifista e democratico Heinrich, nelle massicce Betrachtungen, pubblicate nel 1918. Le considerazioni di un impolitico uscirono in Italia soltanto nel 1967, eppure questa traduzione di Marianello Marianelli per De Donato fu comunque la prima al mondo, a testimonianza della diffusa indigeribilità di quelle argomentazioni. Tuttavia una traduzione italiana esisteva già. Rimasta inedita, a sua volta essa testimoniava invece il coraggio e l’acribia di un personaggio di cui abbiamo già fatto il nome molte volte qui e al quale va riconosciuto un ruolo di primo piano nella conoscenza della cultura tedesca in Italia, ma che per quella coraggiosa impresa non trovò editori: Alberto Spaini (Galinetto 1995, 55-59).

Che Leone Ginzburg scegliesse, per aprire la nuova collana di «Scrittori stranieri tradotti» di Einaudi in quel 1938 in cui si consumava l’abbraccio mortale fra Italia fascista e Germania nazista, proprio Die Leiden des jungen Werthers e ne affidasse la nuova traduzione proprio a Spaini, che così rifaceva il lavoro con cui il suo maestro Borgese aveva prodotto il secondo titolo della propria «Biblioteca romantica» otto anni prima, era un atto che rinnovava, in un contesto ormai rovesciato, il senso umanistico dell’operazione Goethe di Croce nel 1919: amici o nemici, Goethe resta un pilastro del comune essere europei.

La sofferta revisione postbellica di quelle Betrachtungen aveva avuto in Mann un primo approdo nella sua adesione alla Repubblica di Weimar, il gracile stato democratico sorto drammaticamente sulle macerie dell’impero prussiano. Proprio così, Von deutscher Republik, Thomas Mann intitolò il suo discorso per il sessantesimo compleanno del celebre drammaturgo socialista Gerhart Hauptmann, il 15 novembre 1922. Lavinia Mazzucchetti (in Mann 1957) tradusse il titolo con Della Repubblica tedesca, ma forse sarebbe più corretto, e quindi più significativo di un travaglio ideale, tradurre con A proposito di repubblica tedesca o qualcosa di analogo che sottolinei lo sforzo di concepire la democrazia repubblicana atta ad allignare sul terreno della Kultur; da me consultata, Ada Vigliani propone un limpido Germania e repubblica o Germania e democrazia.

In quel testo Mann si arrampicava sugli specchi per conciliare la sua passata difesa del germanesimo di stampo prussiano con l’attuale adesione alla democrazia, che nelle Betrachtungen costituiva invece l’unico vero Anti riscontrabile tra molti Pro (Kurzke 2000, 35). In quest’ardua impresa, mentre preconizzava – al pari del fratello, ora – una unione europea, Mann compiva l’ardito passo di stabilire un forte parallelo tra il vate del romanticismo tedesco, Novalis, guadagnato per l’occasione alla causa democratica, e il vate della democrazia americana, Walt Whitman (Mann 1957, 139-140, 144, 146-155). Prevedeva, il Mago, che quella, l’America, sarebbe stata un giorno la sua patria?

Riferimenti bibliografici e ringraziamenti

Salva diversa indicazione, tutte le notizie anagrafiche sulle persone si devono a una versione di Wikipedia (italiana, inglese, francese, tedesca o spagnola, spesso con verifiche incrociate) e tutte le indicazioni bibliografiche all’ottimo Opac del nostro Sistema bibliotecario nazionale.

Devo ringraziamenti a carissimi amici per l’aiuto che mi hanno fornito: Anna Baldini, Bruno Berni, Daria Biagi, Laura Bortot, Giorgio Ferri, Frederic Ieva, Teresa Isenburg, Valerio Pocar, Domenico Scarpa, Michele Sisto, Ada Vigliani.

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Il seguito nel prossimo numero di «tradurre». La prima puntata è apparsa sul numero 16 (primavera 2019) (https://rivistatradurre.it/2019/05/che-ti-dice-la-patria-1/)